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Sentenza

Appartiene alla sfera di discrezionalità dell'amministrazione pubblica la valuta...
Appartiene alla sfera di discrezionalità dell'amministrazione pubblica la valutazione dei fatti contestati ad un appartenente all'amministrazione della pubblica sicurezza, ai fini della loro rilevanza disciplinare con la conseguenza che, eccezion fatta per le ipotesi di manifesta irrazionalità o sproporzione, il giudice amministrativo non può sindacare sulla scelta di comminare una determinata sanzione disciplinare.
T.A.R. Lazio Roma Sez. stralcio, 26-04-2019, n. 5343
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Stralcio)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3387 del 2009, integrato da motivi aggiunti, proposto da:

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Ugo Sgueglia, Giancarlo Viglione e Roberto De Tilla, con domicilio eletto presso lo studio Roberto De Tilla in Roma, via S. Nicola Da Tolentino n.50;

contro

Ministero degli Affari Esteri, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

(ric.)

del D.M. n. 626 del 13 marzo 2009, recante destituzione del ricorrente a decorrere dal 19.3.2009, e degli atti presupposti, tra cui: la nota di contestazione di addebiti n. 256239 del 18.7.2008 e le comunicazioni dell'Ambasciata d'Italia a D. nella stessa richiamate; la relazione ispettiva del 17.11.2008; il verbale e la deliberazione della Commissione di disciplina del 21.1.2009; l'appunto di trasmissione n. 034/43426 del 6.2. 2009; di ogni altro atto connesso e consequenziale;

(I mm.aa.)

del D.M. n. 63/bis del 30 gennaio 2014, comunicato il 6.2.2014, con cui è stata respinta la domanda inoltrata dal ricorrente con istanza del 27.11.2013 per la riapertura del procedimento disciplinare di cui al D.M. n. 626 del 2009 cit.;

(II mm.aa.)

della nota del Ministero degli affari esteri n. 48373 del 9.3.2016, con cui è stata dichiarata improcedibile e comunque manifestamente infondata l'istanza proposta dal ricorrente ai sensi dell'art. 121 D.P.R. n. 3 del 1957 in data 16.2.16, ribadita con nota n. 70528 dell'11.4.16.

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero degli Affari Esteri;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza smaltimento del giorno 1 marzo 2019 il dott. Raffaele Tuccillo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1. Con l'atto introduttivo del giudizio parte ricorrente chiedeva l'annullamento del D.M. n. 626 del 13 marzo 2009, con il quale veniva disposta, a carico dello stesso, la sanzione della destituzione ai sensi dell'art. 84, lett. b), del D.P.R. n. 3 del 1957, nonché degli atti presupposti indicati nel ricorso principale.

Con un primo ricorso per motivi aggiunti chiedeva l'annullamento del D.M. n. 63/bis del 30 gennaio 2014, comunicato il 6.2.2014, con cui è stata respinta la domanda inoltrata dal ricorrente per la riapertura del procedimento disciplinare di cui al D.M. n. 626 del 2009.

Con un secondo ricorso per motivi aggiunti, il ricorrente chiedeva l'annullamento della nota del Ministero degli affari esteri n. 48373 del 9.3.2016, con cui è stata dichiarata improcedibile e comunque manifestamente infondata l'istanza proposta dal ricorrente ai sensi dell'art. 121 D.P.R. n. 3 del 1957 in data 16.2.16.

Si costituiva l'amministrazione resistente chiedendo rigettarsi il ricorso.

2. Il ricorso proposto non può trovare accoglimento.

Occorre premettere, sotto il profilo processuale, che le istanze cautelari proposte dal ricorrente non hanno ricevuto una valutazione positiva da parte del tribunale adito e i relativi provvedimenti sono stati confermati dal Consiglio di Stato.

Il ricorrente era appartenente al personale diplomatico del Mae, con il grado di segretario di legazione. Viene nominato dal febbraio del 2007 capo della cancelleria consolare in Senegal e, quindi, responsabile dell'ufficio visti. In particolare, il ricorrente aveva svolto le citate funzioni dal 6 febbraio 2007 al 5 giugno 2008.

Con il D.M. n. 626 del 2009 veniva comminata a carico del ricorrente la sanzione disciplinare della destituzione, richiamando ai fini della analisi dei fatti giustificativi della sanzione, tra l'altro, la contestazione di addebiti mossa nei confronti del ricorrente (relativa alla violazione della normativa Schengen, degli artt. 13 e 16 del D.P.R. n. 3 del 1957 e 97 della Costituzione, degli ordini di servizio dell'ambasciata a D. nn. 13/2007 e 3/2008 e di numerosi richiami verbali del Capo Missione, alla violazione dell'art. 142 del D.P.R. n. 18 del 1967, alla violazione di atti che siano in grave contrasto con i doveri di fedeltà dell'impiegato, alla violazione di atti che hanno peraltro arrecato un gravissimo danno di immagine al paese e all'amministrazione), le giustificazioni formulate, la relazione del funzionario istruttore, il verbale della commissione di disciplina. In particolare, dal verbale della commissione di disciplina (doc. 9 del fascicolo di parte ricorrente) venivano confermati i seguenti addebiti: violazione della normativa Schengen; violazione degli ordini di servizio n. 13/2007 e n. 3/2008; gravissimo danno all'immagine del Paese e dell'Amministrazione.

2.1. Con un primo motivo di ricorso, parte ricorrente contestava la violazione degli artt. 84 ss. D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 2 ss. della L. n. 241 del 1990 e degli artt. 3, 97 e 113 della Costituzione. A giudizio del ricorrente il provvedimento sarebbe illegittimo in quanto non gli erano stati comunicati tutti i documenti, per difetto di adeguata motivazione e per la commistione tra funzione inquirente e decidente.

2.1.1. Per quanto concerne la visione degli atti, la contestazione di parte ricorrente appare meramente formale e inidonea a incidere sulla legittimità del provvedimento adottato dall'amministrazione. Da un lato, il ricorrente ha dichiarato di aver preso visione dei documenti ad esso mostrati, dall'altro non emerge che alcuni documenti utilizzati dall'amministrazione siano stati determinanti ai fini dell'addebito in oggetto, né che la valutazione di alcuni documenti avrebbe potuto comportare una diversa conclusione del procedimento (anche considerando l'elevato numero dei visti emessi dal ricorrente).

2.1.2. La mancata consegna in via immediata di alcuni degli allegati descritti dal ricorrente non ha inciso sull'esito del procedimento, tanto più che l'amministrazione ha rappresentato che lo stesso ricorrente ne era a conoscenza. Inoltre, l'utilizzazione di alcuni atti ai fini del giudizio è subordinata a una valutazione di rilevanza e pertinenza che spetta agli organi preposti adottare. Nel caso di specie, il ricorrente non ha fornito adeguati elementi per ritenere che la documentazione dallo stesso citata sia da intendersi come rilevante al fine del giudizio in oggetto.

In ogni caso, l'istruttoria e le motivazioni del provvedimento disciplinare risultano adeguate. Dall'esame della documentazione depositata non emergono elementi per ritenere il difetto di istruttoria ovvero che ulteriori adempimenti istruttori avrebbero portato a un diverso esito dell'attività di accertamento, così come non emergono circostanze per ritenere la sproporzione o l'inadeguatezza della sanzione comminata, posto che la gravità dei fatti attribuiti al ricorrente non consente di ritenere che la valutazione della pubblica amministrazione sia stata effettuata in violazione del principio di ragionevolezza ovvero di proporzionalità. Sul punto, si può precisare, che su di un piano generale, con riguardo ai limiti che il sindacato del g.a. incontra in questa materia, la valutazione dei fatti contestati ad un appartenente all'amministrazione della pubblica sicurezza, ai fini della loro rilevanza disciplinare, appartiene alla sfera di discrezionalità dell'amministrazione stessa, sicché -fatte salve le ipotesi di manifesta irrazionalità o sproporzione- non vi è spazio per il sindacato del giudice amministrativo in ordine alla scelta di comminare una determinata sanzione disciplinare (T.a.r. Lombardia Milano, IV, 3 aprile 2014, n. 877; v. inoltre, T.a.r. Campania Napoli, VI, 9 gennaio 2008, n. 38; T.a.r. Umbria, I, 5 dicembre 2013, n. n. 560). Le determinazioni assunte dall'amministrazione risultano, complessivamente analizzati i fatti e i documenti di causa, esenti dalle censure mosse al ricorrente, in quanto - per un verso - l'operato dei competenti organi non sembra aver travalicato il quantum di discrezionalità valutativa comunque riconoscibile a fronte di fatti dal rilievo disciplinare e - per altro verso - l'afflittività della sanzione in concreto irrogata non appare irrazionale a fronte del quadro ricostruttivo emerso.

Pertanto, come già precisato, il provvedimento impugnato e gli atti procedimentali dallo stesso richiamati, denotano chiaramente l'iter logico giuridico seguito nella scelta della sanzione da irrogare ed esprimono in maniera esaustiva le ragioni della determinazione assunta, con specifico riguardo agli episodi verificatisi e al comportamento del ricorrente.

Vi è stata, dunque, considerazione e valutazione della situazione fattuale concreta e, dunque, l'assunzione di una decisione che non è stata fondata sulla mera violazione formale dei doveri del ricorrente, ma che ne ha apprezzato la gravità "in concreto", tenendo conto della specificità del fatto commesso.

Né può affermarsi l'omessa considerazione di elementi favorevoli, risultando comunque gli stessi nella documentazione personale del medesimo e, dunque, da ritenersi presi in considerazione nel procedimento disciplinare per cui è causa.

Vi è, dunque, che la gravità del comportamento tenuto è stato ritenuto assorbente e prevalente rispetto ad ogni altro elemento di segno favorevole, sì da ritenere irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario tra amministrazione e dipendente, così giustificandosi la sanzione espulsiva.

In concreto il provvedimento di destituzione contiene una chiara relatio alla valutazione della commissione di disciplina, con la conseguenza che il contenuto del provvedimento deve essere considerato come composto sia degli enunciati linguistici in esso utilizzati che dalle valutazioni compiute dalla commissione di disciplina che, ritenendo condivisibili, il decreto acquisisce come proprie. Nello stesso verbale della commissione di disciplina sono analiticamente esaminate le circostanze fattuali ed esclusi alcuni addebiti anche alla luce delle osservazioni del ricorrente, con la conseguenza che l'amministrazione ha puntualmente esaminato le giustificazioni dello stesso ricorrente.

2.1.3. Con riferimento alla commistione tra funzione inquirente e giudicante, deve osservarsi che il ruolo svolto dalla commissione consiste in una mera proposta e non emergono specifiche violazioni di legge. Nella prospettiva del ricorrente la commissione di disciplina non avrebbe potuto individuare la sanzione da comminare al ricorrente, ma limitarsi a individuare gli addebiti. Il vizio, pertanto, non sarebbe idoneo a incidere sulla validità del decreto di destituzione in quanto, si tradurrebbe in un vizio del provvedimento della commissione di disciplina nella sola parte in cui prevede la proposta di sanzione da comminare al ricorrente, traducendosi in una mera violazione formale.

In ogni caso, ai sensi dell'art. 114, comma 5, del D.P.R. n. 3 del 1957, il Ministro provvede con decreto motivato a dichiarare prosciolto l'impiegato da ogni addebito o ad infliggere la sanzione in conformità alla deliberazione della commissione, salvo che egli non ritenga di disporre in modo più favorevole all'impiegato.

La mancata allegazione del verbale non ha inciso sul diritto di difesa del ricorrente, in quanto il verbale gli è stato consegnato successivamente e non si è prodotta alcuna violazione del diritto di difesa dello stesso, avendo potuto il ricorrente interloquire e difendersi ritualmente sullo stesso.

2.2. Parte ricorrente contesta poi la legittimità del provvedimento impugnato per illegittimità derivata e, in particolare, per vizi della nota di contestazione degli addebiti, della relazione del funzionario istruttore, della deliberazione del consiglio di disciplina.

2.2.1. Con riferimento alla nota di contestazione degli addebiti, parte ricorrente contesta, in sostanza, il difetto di partecipazione dello stesso all'attività istruttoria, la mancata tempestiva comunicazione degli stessi e il fatto che gli addebiti sarebbero generici.

Sul punto, l'amministrazione argomenta adeguatamente che il ricorrente è stato tempestivamente contattato, anche telefonicamente, dal Ministero per essere prontamente informato sulle indagini delle autorità senegalesi. Ne discende, da un lato, che il ricorrente è stato tempestivamente informato del procedimento in corso e, dall'altro, che la contestazione degli addebiti è avvenuta nel rispetto del termine ragionevole prescritto dalla normativa applicabile. In particolare, la complessità della vicenda e il numero di atti che l'amministrazione ha dovuto esaminare prima di pervenire alla contestazione disciplinare giustificano un decorso del tempo più ampio. L'immediatezza della contestazione deve infatti essere letta in senso funzionale e strumentale, da un lato, a garantire la tempestiva conoscenza dei fatti contestati all'incolpato, ma dall'altro a garantire all'amministrazione una completa conoscenza e, quindi, a svolgere una esaustiva istruttoria sul fatto. Nel caso di specie, in particolare, il Ministero ha dovuto approfondire preliminarmente i fatti oggetto degli addebiti e circoscrivere le condotte da ascrivere al ricorrente. La giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che la p.a. deve provvedere alla contestazione degli addebiti all'incolpato secondo una regola di ragionevole prontezza e tempestività, in relazione alle caratteristiche del fatto e alla complessità degli accertamenti, che ben possono implicare una ponderata valutazione circa l'oggettiva sussistenza dei fatti e la loro rilevanza disciplinare.

Il fatto che le verifiche siano state effettuate dall'amministrazione dopo l'allontanamento del ricorrente dalla sede di riferimento risulta irrilevante e inidonea a determinare l'illegittimità del provvedimento adottato. Per quanto concerne la genericità degli addebiti, deve al contrario ritenersi, come già evidenziato al punto 2.1. della motivazione della presente sentenza e come si dirà con riferimento ai singoli fatti, che l'amministrazione abbia puntualmente e specificamente descritto le condotte ascrivibili allo stesso. Vi è infatti l'indicazione che le pratiche contestate sono state presentate direttamente dal ricorrente, eludendo gli ordini di servizio nn. 13/2007 e 3/2008 che prevedono l'obbligo per i diretti interessati di presentarsi personalmente allo sportello per le interviste di rito, con l'ulteriore precisazione che i relativi formulari non recano alcuna annotazione da cui si possa evincere il percorso decisionale seguito dal responsabile del procedimento. Si fa inoltre riferimento a 25 pratiche delle quali il ricorrente avrebbe preso immediata visione.

Anche la normativa di riferimento risulta adeguatamente richiamata, in quanto sono descritti i vizi della stessa e le disposizioni che il ricorrente non avrebbe puntualmente osservato. Con riferimento agli ordini di servizio n. 13/2007 e 3/2008, gli stessi prevedono espressamente che la documentazione relativa all'accettazione delle pratiche di visto deve essere consegnata personalmente dai richiedenti esclusivamente agli sportelli al personale addetto, anche al fine di evitare che le pratiche possano essere accettate in ufficio al di fuori dai circuiti ufficiali. La contestazione risulta pertanto precisa e specifica avendo ad oggetto la violazione dell'iter procedimentale predisposto.

Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche in ordine alla contestazione dell'addebito rappresentato dalla lesione dell'immagine dell'amministrazione, posto che vengono descritte sia le condotte allo stesso ascrivibili che il rilievo esterno che le stesse potevano avere.

2.2.2. Parte ricorrente contesta poi la legittimità della relazione del funzionario istruttore. Il funzionario risulta aver svolto pienamente il suo compito descrittivo dei fatti e diretto ad allegare la documentazione probatoria necessaria. L'eventuale valutazione dei fatti e l'inserimento di alcune opinioni personali nella descrizione dei fatti appaiono inidonei a incidere sulla validità dell'atto nel suo complesso né appaiono in alcun modo sintomatici di un eccesso di potere o della non veridicità delle affermazioni in esse effettuate. La commissione d'altro canto non si è limitata ad accettare acriticamente tutti i risultati dell'attività ispettiva svolta, ma la ha analizzata criticamente accogliendo solo alcuni dei risultati del funzionario stesso. Non risulta inoltre che la commissione disciplinare abbia utilizzato valutazioni soggettive del funzionario, con la conseguenza che l'eventuale vizio della relazione del funzionario sarebbe comunque inidonea a inficiare la validità del provvedimento finale adottato.

Per quanto concerne le contestazioni avanzate dal ricorrente avverso le dichiarazioni rese dagli informatori e riportate nella stessa relazione deve osservarsi che le dichiarazioni riportate dal funzionario possono senz'altro essere valutate come prove ai fini del giudizio disciplinare.

La giurisprudenza amministrativa ha sul punto variamente evidenziato che gli accertamenti svolti nell'ambito dell'inchiesta disciplinare non richiedono particolari formalità e il contraddittorio è comunque garantito dalle successive scansioni procedimentali.

2.2.3. Parte ricorrente contesta poi la validità della deliberazione del consiglio di disciplina del 21.1.2009.

2.2.3.1. Una prima contestazione riguarda i tempi, in quanto il consiglio avrebbe ascoltato il ricorrente il 21.1.2009 e lo stesso giorno depositato una relazione molto argomentata e motivata anche con richiami giurisprudenziali. Da tale circostanza di fatto dovrebbe desumersi che la decisione era in realtà già stata presa dall'amministrazione prima di aver ascoltato il ricorrente.

Sul punto deve invece rilevarsi che l'art. 114 del d.p.r. in esame prevede solo che la copia della deliberazione, con gli atti del procedimento e la copia del verbale della trattazione orale, deve essere trasmessa entro venti giorni dalla deliberazione all'ufficio del personale. Nel caso di specie, la deliberazione è stata depositata il 6 febbraio 2009, con il conseguente rispetto del termine richiesto. La data in calce alla deliberazione è quella del dispositivo, ma non della redazione delle motivazioni che è avvenuta, come avviene di consueto anche per il procedimento penale, nei giorni successivi alla pubblicazione del dispositivo.

2.2.3.2. Sempre con riferimento alla contestazione degli addebiti, parte ricorrente contesta il primo addebito mosso allo stesso rappresentato dalla violazione della normativa Shengen.

Per quanto concerne la non conformità tra addebito originario e contestazioni mosse dalla Commissione deve, contrariamente, rilevarsi, che nell'addebito originario si fa espresso riferimento al fatto che il ricorrente abbia rilasciato oltre 900 visti senza acquisire la documentazione richiesta dalla vigente normativa sui visti, con la precisazione che tale comportamento ha pregiudicato gravemente il sistema Schengen contro l'immigrazione clandestina nel nostro Paese e negli altri Paesi aderenti a tale accordo. Nella successiva contestazione della commissione, nel confermare tale tipologia di addebito, espressamente richiamata viene precisato che il ricorrente ha rilasciato a più riprese e in un ampio arco temporale, una cospicua quantità di visti per turismo e affari, in violazione della normativa Schengen e in particolare del testo unico n. 286 del 1998, del D.I. 12 luglio 2000 e dell'istruzione consolare comune Schengen (doc. 10 allegato depositato da parte resistente in data 18.5.2009), tra gli altri gli adempimenti prescritti dalla Istruzione ai punti dall'1 al 4. Ne discende che vi è piena corrispondenza tra addebito originario e successiva contestazione.

2.2.3.3. Nel merito, deve osservarsi che l'amministrazione, attraverso le indagini esperite in loco dal personale dell'Ambasciata e attraverso la verifica di 25 pratiche enucleate e controllate dal Centro visti del Mae ha constatato le citate violazioni della normativa richiamata. Successivamente sono state acquisite copie di 70 pratiche di visto che hanno confermato le violazioni della normativa in questione.

Le violazioni della citata normativa, tra cui il non aver sottoposto a intervista il destinatario del visto, costituiscono senza dubbio violazioni della normativa in questione. La circostanza che si tratti di un numero limitato di pratiche rispetto alle 900 emesse non costituisce una giustificazione idonea né ad escludere l'elemento oggettivo della incolpazione né l'elemento soggettivo posto che il ricorrente non ha fornito prova in ordine alla regolarità delle altre pratiche (l'amministrazione ha riferito che si tratta di pratiche individuate a titolo esemplificativo, mentre il ricorrente ha riferito che si tratterebbe delle uniche in cui è emersa tale irregolarità). L'obiettivo di riduzione dell'arretrato non costituisce una esimente o una giustificazione alla realizzazione delle citate violazioni della disciplina vigente.

Parte ricorrente, d'altro canto, non ha offerto adeguati elementi istruttori per ritenere che le copie conformi delle pratiche non rispecchino il contenuto del fascicolo originale. La contestazione, avanzata in sede procedimentale, appare generica e non circostanziata in relazione alla singola pratica o al singolo visto.

L'aver sentito più volte un soggetto in sede istruttoria non costituisce un sintomo dell'eccesso di potere né una violazione delle disposizioni in tema di istruttoria.

Parte ricorrente non ha provato allo stesso modo quale contributo causale avrebbe potuto attribuire all'indagine partecipando all'attività acquisitiva dei citati documenti, né risulta esservi stata sul punto una specifica violazione di legge idonea a incidere sulla validità del provvedimento adottato.

2.2.4. Il secondo capo di incolpazione ha ad oggetto la violazione degli ordini di servizio n. 13/2007 e n. 3/2008, in relazione all'art. 16 del D.P.R. n. 3 del 1957 e dei richiami verbali del Capo Missione. In particolare, viene evidenziato, anche sulla base di testimonianze di dipendenti che vi era: una situazione di grande disordine e confusione nell'Ufficio Visti della Cancelleria, la cui gestione rientrava nella diretta responsabilità del ricorrente in quanto Capo della Cancelleria consolare, dove entravano e operavano anche individui estranei al personale dell'Ambasciata; un continuo andirivieni di richiedenti di visti nella stanza del ricorrente e un grande disordine di pratiche all'interno della stanza; la presenza all'interno dell'area dell'Ufficio visti, anche dopo il termine di lavoro, della sig.ra -OMISSIS-, convivente del ricorrente e residente in loco, la cui presenza e attività in area particolarmente sensibile è stata espressamente contestata dall'Ambasciatore.

Parte ricorrente contesta la genericità della disposizione e il fatto che gli ordini di servizio siano privi di contenuto precettivo. Deve, invece, rilevarsi che i due ordini di servizio (cfr. doc. 7 e 8 del fascicolo di parte resistente) prevedono espressamente che: "Rammento che, in ottemperanza, a quanto disposto dalla normativa in materia, al termine di ogni giornata lavorativa ciascun addetto dovrà riporre la documentazione a qualsivoglia titolo trattata in appositi raccoglitori ed in ordine numerico negli armadi situati nell'Ufficio. In particolare, le domande di visto in attesa di decretazione ed ogni altra documentazione in corso di trattazione dovrà essere riposta in raccoglitori e collocata negli appositi armadi a chiusura a chiave e combinazione. Gli addetti alla sorveglianza esterna non (dicesi non) devono ricevere ad alcun titolo documentazione concernente visti o altre pratiche. Tale documentazione deve essere consegnata personalmente dai richiedenti esclusivamente agli sportelli al personale addetto, seguendo scrupolosamente le disposizioni allegate (all. 2)" e poi nella circolare del 2008, "seguendo scrupolosamente le disposizioni impartite dal Capo della Cancelleria Consolare".

Gli ordini di servizio in questione contengono, tra l'altro, uno specifico contenuto precettivo in ordine sia alle modalità di conservazione della documentazione che in ordine al fatto che la documentazione deve essere consegnata esclusivamente agli sportelli al personale addetto. Al ricorrente vengono contestate le citate violazioni e l'amministrazione ha adeguatamente provato tramite verifiche effettuate in loco la violazione delle citate disposizioni da parte del ricorrente.

Per quanto concerne i richiami verbali, i bigliettini del 1.2.2008 e del 19.2.2008 firmati dal Capo Missione, della cui provenienza non vi è motivo di dubitare, costituiscono espressione e prova dei richiami verbali effettuati dal ricorrente e costituiscono manifestazione delle violazioni compiute dal ricorrente, specie con riferimento al periodo che precede la loro emissione, in quanto risultano di fatto giustificati dalla sussistenza di violazioni perpetrate da parte del ricorrente.

Le altre contestazioni mosse dal ricorrente appaiono sul punto generiche e devono ritenersi forniti adeguati elementi per ritenere la sussistenza delle citate violazioni.

2.2.5. Con riferimento al gravissimo danno arrecato all'amministrazione, il ricorrente ha contestato anzitutto la corrispondenza tra addebito originario e contestazione. La contestazione non può trovare accoglimento. Nell'originario addebito è precisato che i profili penali della vicende sanno oggetto di esame da parte dell'autorità giudiziaria, il comportamento del ricorrente ha arrecato un gravissimo danno all'immagine del paese e dell'amministrazione. La vicenda, si precisa ancora, è stata portata a conoscenza dell'Ambasciata e del Ministero dalle Autorità senegalesi che con messaggio n. 1523 dell'11 luglio avrebbero incolpato la sua convivente di riciclaggio, ritirato il passaporto alla convivente, interdicendole di lasciare il Senegal e fatto presente che nella prosecuzione dell'indagine potrebbero essere chiamati in causa sia il Ministero che il ricorrente. Nell'addebito della commissione vengono confermati i citati richiami, con la precisazione che le violazioni perpetrate (gravi e reiterate violazioni della normativa Schengen, irregolare sistema di gestione dell'ufficio visti e reiterato disattendere degli ordini di servizio e delle istruzioni ricevute) costituiscono violazioni del dovere di tenere una condotta, sia in ufficio che in pubblico, conforme alla dignità delle proprie funzioni, costituiscono comportamenti in spregio dei più rigorosi principi di disciplina e correttezza, specie quando il funzionario diplomatico è chiamato a svolgere le sue funzioni all'estero. L'insieme dei comportamenti posti in essere dal ricorrente è stato tale da indurre sospetti di interessi personali del ricorrente anteposti a quelli pubblici. In particolare, si evidenzia che le violazioni già contestate hanno prodotto tale gravissimo danno all'amministrazione, precisandosi che il ricorrente ha trattato direttamente un cospicuo numero di richieste di visti per turismo e affari che gli pervenivano al di fuori delle procedure stabilite e dei canali istituiti dall'Ambasciata per un'ordinata presentazione delle richieste medesime, "con ciò suscitando dubbi e perplessità sulla gestione dei visti da parte dell'Ambasciata e comunque ingenerando all'esterno un'immagine e comunque ingenerando all'esterno un'immagine negativa dell'Ambasciata stessa e quindi del nostro Paese". Si precisa ancora che il ricorrente ha omesso a più riprese di sottoporre le pratiche di visti da lui trattate a più approfondite e opportuni verifiche circa l'esistenza di un rischio migratorio da parte dei richiedenti un visto per soggiorno o per affari, "con ciò ha generato la sensazione esterna di poca...serietà e scrupolosità da parte dell'Amministrazione nella trattazione di una materia, a rilevanza nazionale ed internazionale, così delicata qual è il rilascio a cittadini stranieri di visti di ingresso e soggiorno...". Inoltre si evidenza che il ricorrente ha permesso che estranei, tra cui la propria convivente, entrassero e sostassero più volte nei locali in cui veniva trattate le richieste, ingenerando perfino l'impressione che la sig.ra -OMISSIS- potesse aver partecipato alla lavorazione di alcune domande di visto "Con questo suo comportamento, egli, in quanto rappresentante dell'Amministrazione e dello Stato italiano, ha danneggiato l'immagine del funzionario pubblico del Ministero...gettando discredito all'autorevolezza, responsabilità, professionalità ed attenzione con cui devono essere svolte le funzioni correlate all'incarico di Capo della Cancelleria consolare presso l'Ambasciata d'Italia a D.". Ne emerge da un lato la piena corrispondenza tra addebiti contestati e addebiti ritenuti fondati dalla Commissione di disciplina e dall'altro il fatto che, in sostanza, il gravissimo danno arrecato all'amministrazione costituisca espressione delle violazioni già contestate al ricorrente. La violazione dell'immagine del Paese è ovviamente da correlare anche in relazione alla percezione creata dal ricorrente nei confronti dell'utenza.

Ne discende che il motivo di ricorso non può trovare accoglimento.

3. Parte ricorrente ha ancora contestato la violazione degli artt. 84 ss. del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 2 ss. L. n. 241 del 1990, art. 5 L. n. 97 del 2001, artt. 3, 97, 113 Cost ed eccesso di potere.

Deve ritenersi che il giudizio espresso nei confronti del ricorrente non incida sulle violazioni poste in essere. Il giudizio di ottimo espresso nei confronti del ricorrente non incide né giustifica le violazioni della disciplina vigente, né l'eliminazione delle distorsione, dei malfunzionamenti, dell'arretrato possono giustificare violazioni della disciplina vigente. L'impegno profuso e la situazione ambientale, ugualmente, non sono elementi giustificativi delle violazioni.

Ne discende che i motivi di ricorso ivi formulati appaiono inidonei a incidere sulla legittimità del provvedimento adottato.

Per quanto concerne la sproporzione della sanzione, si rinvia a quanto già evidenziato al punto 2 della motivazione della sentenza, con la precisazione che il numero degli addebiti e gli effetti delle violazioni costituiscono fatti idonei a rendere non irragionevole né illogico il giudizio espresso dall'amministrazione.

Per quanto concerne la violazione dei termini procedimentali deve ritenersi che la previsione di termini speciali di durata del procedimento determini l'inapplicabilità del termine previsto dall'art. 2 della L. n. 241 del 1990 e della L. n. 97 del 2001 (l'art. 5, quarto comma, appare infatti applicabile al procedimento penale successivo alla condanna penale definitiva). In particolare, l'art. 120 del D.P.R. n. 3 del 1957 prevede che il procedimento disciplina si estingue quando siano decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto (Cons. Stato, n. 4872 del 2011, secondo cui nel rapporto di pubblico impiego l'art. 120 del T.U. approvato con D.P.R. n. 3 del 1957 dispone che "il procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto". Ciò significa che i 90 giorni non vanno intesi come durata massima del procedimento, ma come termine di perenzione che opera se, dopo un atto del procedimento medesimo, non segue un atto ulteriore entro il termine di 90 giorni predetto. Anche l'adozione di atti endoprocedimentali interni costituisce idonea modalità di interruzione del termine di novanta giorni fra gli atti della procedura, di cui all'art. 120 del T.U. n. 3 cit.). Non sono pertanto applicabili i due termini individuati dal ricorrente con conseguente rigetto del motivo di impugnazione proposto.

Si rappresenta in ogni caso che il termine complessivo di durata del procedimento disciplinare, in caso di sentenza penale, si ricava dal combinato disposto degli artt. 97 e 120 del D.P.R. n. 3 del 1957, sommando al termine di 180 giorni imposto per l'inizio del procedimento disciplinare, decorrente dalla notizia della sentenza definitiva divenuta irrevocabile, quello dei successivi 90 giorni imposto appunto per la conclusione del procedimento disciplinare (Cons. Stato, Sez. III, 16 marzo 2015, n.1359). Sulla questione si è, infatti, pronunciata anche l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con le decisioni numero 4, 5 e 7 del 25 gennaio 2000, ha chiarito che il termine di 90 giorni decorre dalla "scadenza virtuale" del primo termine, sicché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di 270 giorni (180 + 90) desumibile dalla legge. La giurisprudenza ha anche precisato che il termine per l'instaurazione del procedimento disciplinare decorre dalla comunicazione della sentenza irrevocabile di condanna all'Amministrazione e che tale soluzione risponde alla duplice esigenza di non procrastinare eccessivamente il potere disciplinare dell'Amministrazione, così tutelando il diritto del lavoratore, nonché di evitare che il termine decorra anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza ed all'avvenuta conoscenza, da parte dell'Amministrazione medesima, dell'irrevocabilità della condanna del proprio dipendente, così evitando che il termine decorra in un periodo nel quale l'Amministrazione sia oggettivamente impossibilitata ad esercitare ogni valutazione in ordine alla instaurazione della procedura disciplinare (Consiglio di Stato, Sez. III, 27 agosto 2014 n.4350). In tal modo si vuole evitare che l'Amministrazione eserciti l'iniziativa disciplinare prima che la situazione di irrevocabilità della condanna penale si sia manifestata e comunque comunicata, eventualmente a cura dello stesso dipendente, all'Amministrazione al fine di impedire una situazione di incertezza per lui pregiudizievole.

4. Con il primo ricorso per motivi aggiunti parte ricorrente impugnava il D.M. n. 63/bis del 30 gennaio 2014 mediante il quale era respinta la domanda inoltrata dal ricorrente per la riapertura del procedimento disciplinare di cui al D.M. n. 626 del 2009.

Occorre premettere l'inapplicabilità dell'istituto del silenzio assenso al procedimento di cui all'art. 121 del D.P.R. n. 3 del 1957, trattandosi di una figura espressamente disciplinata dal legislatore, di carattere discrezionale e diretta a sollecitare un provvedimento in autotutela dell'amministrazione in relazione al quale non è dato riscontrare un dovere di provvedere da parte dell'amministrazione.

In ogni caso, la richiesta di riapertura del procedimento disciplinare, poi riformulata dal ricorrente, è stata rigettata espressamente dall'amministrazione due volte (e i provvedimenti di rigetto sono stati entrambi impugnati con i ricorsi per motivi aggiunti).

Il procedimento di revisione dell'iter disciplinare costituisce un mezzo straordinario di riapertura del procedimento che può essere richiesto dal dipendente o dal coniuge superstite o dai figli, in presenza di nuove prove, tali da poter condurre o al proscioglimento dagli addebiti, ovvero all'irrogazione di una sanzione di minore entità.

Tale norma contenuta all'art. 121 del D.P.R. n. 3 del 1957 - testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato - prevede che il procedimento disciplinare può essere riaperto se l'impiegato cui è stata inflitta la sanzione, ovvero la vedova o i figli minorenni che possono avere diritto al trattamento di quiescenza, adducano nuove prove tali da far ritenere che sia applicabile una sanzione minore o possa essere dichiarato il proscioglimento dall'addebito.

I presupposti per poter chiedere la riapertura sono dunque costituiti dalla "novità" e "decisività" delle prove.

Occorre infatti considerare che la riapertura del procedimento disciplinare ricalca la ratio della revisione del processo penale ed è possibile solo quando siano emersi - dopo la conclusione del procedimento disciplinare - nuovi elementi di prova che ove fosse stato possibile dedurre tempestivamente avrebbero sovvertito l'esito del procedimento.

Per ragioni di certezza giuridica non è possibile ottenere la riapertura del procedimento disciplinare adducendo come nuove prove elementi già in possesso dell'interessato, o che comunque potevano essere acquisiti al momento del procedimento disciplinare ed in quella sede utilizzati.

Secondo un principio consolidato, non sussiste in capo all'Amministrazione l'obbligo di pronunciarsi in modo esplicito sulla richiesta dell'interessato che sia essenzialmente diretta ad ottenere un riesame in autotutela del precedente provvedimento sfavorevole (cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 ottobre 2012 n. 5199; Id., sez. VI, 16 dicembre 2008 n. 6234).

Nel caso di specie, in ogni caso, l'amministrazione ha adeguatamente argomentato e descritto i motivi che hanno spinto alla reiezione della richiesta di riapertura del procedimento amministrativo formulata dal ricorrente.

L'amministrazione ha infatti valutato le risultanze del procedimento penale instaurato per i medesimi fatti oggetto del disciplinare e conclusosi con sentenza n. 20941 del 2012 di condanna del ricorrente e ha ritenuto le motivazioni addotte nel procedimento disciplinare manifestamente infondate, evidenziando che anche in sede giurisdizionale erano stati confermati gli addebiti nei confronti del ricorrente.

Per quanto concerne la mancata comunicazione dell'avvio del procedimento di rigetto della istanza di riapertura, trattandosi di una speciale forma di autotutela devono ritenersi insussistenti i relativi presupposti applicativi, non emergendo una doverosità sull'apertura del relativo procedimento anche in considerazione dell'utilizzo dell'enunciato linguistico "può". In ogni caso, parte ricorrente non ha rappresentato adeguati elementi che avrebbero potuto condurre a una diverso esito procedimentale.

Per quanto concerne la allegata violazione dell'art. 117 del D.P.R. n. 3 del 1957, la disposizione prevede la sospensione del procedimento penale in pendenza del giudizio penale. Nel dettaglio, la disposizione prevede che "Qualora per il fatto addebitato all'impiegato sia stata iniziata azione penale il procedimento disciplinare non può essere promosso fino al termine di quello penale e, se già iniziato, deve essere sospeso". Nel caso di specie, la sanzione della destituzione è stata prevista con D.M. n. 626 del 13 marzo 2009, mentre il procedimento penale è formalmente iniziato con la richiesta di rinvio a giudizio del 7.7.2009. Occorre infatti considerare che l'inizio dell'azione penale, che determina la sospensione del procedimento disciplinare, si verifica al momento in cui il soggetto indagato assume, a seguito della richiesta da parte del p.m. del rinvio a giudizio, la veste di imputato. Sul punto, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 1 del 2009) ha espressamente evidenziato che, nei casi in cui il procedimento disciplinare è iniziato ed è portato a conclusione prima dell'esercizio dell'azione penale sorgerebbe l'obbligo per l'amministrazione di ricorrere all'autotutela per porre in essere i necessari provvedimenti riparatori.

Nel caso di specie, posta la conclusione del procedimento disciplinare anteriormente all'inizio dell'azione penale, non sussistono elementi per ritenere che il provvedimento adottato sia viziato. L'amministrazione, infatti, all'esito del procedimento penale ha esaminato gli elementi ivi esaminati concludendo nel senso della insussistenza dei presupposti per riaprire il procedimento disciplinare e confermando pertanto l'esito del giudizio disciplinare.

Le conclusioni descritte comportano il rigetto anche del motivo di ricorso n. IV del primo ricorso per motivi aggiunti, non sussistendo elementi per ritenere applicabili le disposizioni dirette a disciplinare la riapertura del procedimento disciplinare.

Parte ricorrente contesta ancora l'omessa o inadeguata motivazione del provvedimento di rigetto. L'amministrazione risulta aver esaurientemente trattato le questioni sottoposte alla sua attenzione descrivendo le ragioni che hanno spinto la stessa a non modificare le conclusioni istruttorie alle quali era pervenuta. Sul punto, deve osservarsi che il ricorrente non ha allegato nel proprio ricorso per motivi aggiunti le specifiche argomentazioni sulle quali sarebbe stata insufficiente o carente la risposta fornita dall'amministrazione. Con riferimento alla mancata introduzione del procedimento di revoca dei visti irregolarmente concessi è sufficiente rilevare che si tratta di due procedimenti autonomi e differenti e la mancata introduzione dell'uno è inidonea a incidere sui presupposti del secondo. In ogni caso, le risultanze istruttorie acquisite in sede procedimentale sono state ritenute sufficienti a ritenere esistenti gli illeciti disciplinari contestati al ricorrente.

Il riferimento ai precedenti giudiziari, anche se non definitivi o di carattere cautelare, è inidoneo a determinare l'invalidità del provvedimento. Il fatto cioè che vengano richiamati i citati provvedimenti giudiziari non costituisce un fatto idoneo a determinare l'invalidità del provvedimento di rigetto adottato.

L'irrilevanza o la pertinenza, così come la superfluità, costituiscono parametri di valutazione delle istanze e degli elementi forniti dal ricorrente ai fini della riapertura del procedimento disciplinare. Parte ricorrente si limita a contestare l'idoneità di tale parametro a rigettare l'istanza senza spiegare nel ricorso per motivi aggiunti le ragioni per le quali tale fatto avrebbe dovuto condurre a un diverso esito provvedimentale. Tale conclusione deve essere adottata anche con riferimento alla sigla del visto dell'ambasciata e all'ordine di servizio n. 4 del 2006 che non fanno venire meno le violazioni descritte nel provvedimento di destituzione.

5. Con un secondo ricorso per motivi aggiunti parte ricorrente impugna la nota del Mae del 9.3.2016 con la quale è stata dichiarata improcedibile e comunque manifestamente infondata l'istanza proposta dal ricorrente ai sensi dell'art. 121 del D.P.R. n. 3 del 1957 di riapertura del procedimento disciplinare.

5.1. Parte ricorrente impugna il provvedimento in oggetto per violazione dell'art. 117 del D.P.R. n. 3 del 1957 (motivi I e II del secondo ricorso per motivi aggiunti).

I motivi di censura, oltre quanto già evidenziato al punto 4 della motivazione della presente sentenza, devono essere dichiarati inammissibili, in quanto si tratta di vizi che il ricorrente attribuirebbe al provvedimento di destituzione, conclusivo del procedimento disciplinare, e non alla mancata riapertura dello stesso. In sostanza, l'eventuale vizio sarebbe rappresentato dalla conclusione del procedimento disciplinare pur in pendenza del procedimento penale e non dalla sua mancata riapertura e sospensione per pendenza del procedimento penale.

Ne discende che i motivi di ricorso devono essere dichiarati inammissibili nella parte in cui riguardano il provvedimento di destituzione e rigettati nella parte in cui sono diretti a ritenere applicabile l'art. 117 a un procedimento disciplinare già concluso.

5.2. Con il terzo motivo dei secondi ricorsi per motivi aggiunti parte ricorrente contesta la forma del provvedimento adottato in quanto dovrebbe assumere la forma del decreto del Ministro e non una comunicazione semplificata. Il provvedimento adottato risulta, tuttavia, coerente con le forme semplificate previste dall'art. 2, comma 1, della L. n. 241 del 1990 che consente, in caso di istanze manifestamente inammissibili o infondate di rigettarle in forma semplificata.

5.3. Nelle memorie conclusionali le parti variamente argomento sul procedimento penale e sugli effetti del giudicato penale sullo stesso.

Sul punto deve osservarsi che con sentenza n. 20941 del 3.12.2012 il Tribunale di Roma riteneva il ricorrente colpevole del delitto di concorso in corruzione continuata e aggravata per un atto contrario ai doveri di ufficio perché in esecuzione del medesimo disegno criminoso e nella qualità di primo segretario presso l'Ambasciata Italiana D. nonché di capo della cancelleria consolare, in concorso con persone non identificate, in più occasioni riceveva denaro, in quantità non determinabile, ma comunque ammontante a decine di migliaia di Euro, e che veniva versato su conti bancari propri o della propria moglie, e sui quali lo stesso aveva delega ad operare, per compiere atti contrari ai doveri di ufficio, in particolare per rilasciare visti di ingresso in Italia, in violazione delle norme che ne regolavano il rilascio e di calunnia, e negategli le generiche, lo condannava alla pena di anni quattro di reclusione, oltre alle spese processuali. Seguivano le statuizioni civili ai sensi dell'art. 538 c.p.p. con condanna del ricorrente al risarcimento del danno in favore delle costituite parte civili da liquidarsi dal giudice civile in separato giudizio.

Con la sentenza della Corte di Appello di Roma, datata 22.11.2017, si dichiarava di non doversi procedere nei confronti dello stesso ed in ordine alle imputazioni ascrittegli, qualificato il fatto di cui al capo A), come delitto di cui all'art. 323 c.p., per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione. La Corte confermava le statuizioni civili disposte in sentenza.

Ai sensi dell'art. 653 c.p.p. la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso. Ne discende che alcun effetto giuridico scriminante può essere attribuito all'accertamento compiuto nella sentenza in oggetto con cui è stato dichiarato prescritto il reato commesso.

In merito, il Consiglio di Stato, sez. III, nella sentenza del 02 luglio 2014, n. 3324, si è così pronunciato " ... ai sensi dell'art. 653 c.p.p., per escludere la veridicità dei fatti assunti a fondamento del procedimento disciplinare occorre un giudicato assolutorio circa l'insussistenza del fatto o la mancata commissione dello stesso da parte del dipendente pubblico, mentre nelle rimanenti ipotesi di conclusione del giudizio, per le quali non si giunga ad una condanna, in conseguenza dell'intervento di cause di prescrizione o di altre cause di estinzione del reato, non si ha un giudicato sulla commissione dei fatti di carattere assolutorio, e l'Amministrazione può legittimamente utilizzare a fini istruttori gli accertamenti effettuati nella sede penale senza doverli ripetere ...". Pertanto l'Amministrazione, quando il soggetto non sia stato assolto nel merito, ben può operare una valutazione autonoma circa i fatti oggetto di giudizio, anche se da questi non è derivata una condanna in sede penale, alla loro qualificazione e alla determinazione da adottare nell'ambito delle sue facoltà (Nello stesso senso, si riportano le sentenze Tar Lazio, sez. II, 08 gennaio 2015, n. 146, Tar Lazio, sez. I, 14 aprile 2015, n. 5149, Tar Campania, sez. I, 07 gennaio 2013, n. 1). Ne discende che correttamente l'amministrazione ha fatto riferimento ai fatti accertati in sede disciplinare.

6. Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

7. In considerazione della complessità del giudizio e delle questioni giuridiche ad esso sottese devono ritenersi sussistenti eccezionali motivi per compensare le spese di lite tra le parti.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Stralcio), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare Antonio Trinchese e gli altri soggetti menzionati nella decisione.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 marzo 2019 con l'intervento dei magistrati:

Vincenzo Blanda, Presidente

Achille Sinatra, Consigliere

Raffaele Tuccillo, Primo Referendario, Estensore
Avv. Antonino Sugamele

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