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Sentenza

Il Tribunale militare di Roma riteneva un caporalmaggiore scelto dell'esercito i...
Il Tribunale militare di Roma riteneva un caporalmaggiore scelto dell'esercito italiano, in servizio presso il sesto reggimento di manovra, colpevole del delitto di insubordinazione con ingiuria a superiore aggravata perchè avrebbe ripetutamente offeso il prestigio, l'onore e la dignità del superiore, un capitano, profferendo con l'uso della seconda persona singolare frasi allusive a discutibili costumi sessuali dell'interlocutore e della moglie. Condannato a 6 mesi di reclusione militare. La Cassazione annulla con rinvio.
Cassazione penale  sez. I   
Data:
    15/10/2014 ( ud. 15/10/2014 , dep.05/11/2014 ) 
Numero:
    45869

Classificazione

    REATI FINANZIARI e TRIBUTARI (in genere) - In genere

    Intestazione

                        LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                            SEZIONE PRIMA PENALE                         
    Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
    Dott. CORTESE   Arturo          -  Presidente   -                    
    Dott. LOCATELLI Giuseppe        -  Consigliere  -                    
    Dott. SANDRINI  Enrico Giuseppe -  Consigliere  -                    
    Dott. BONI      Monica     -  rel. Consigliere  -                    
    Dott. MAGI      Raffaello       -  Consigliere  -                    
    ha pronunciato la seguente:                                          
                         sentenza                                        
    sul ricorso proposto da: 
    PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI ROMA; 
    nei confronti di: 
             C.A. N. IL (OMISSIS); 
    avverso  la sentenza n. 161/2013 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA,  del 
    12/02/2014; 
    visti gli atti, la sentenza e il ricorso; 
    udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del 15/10/2014 la  relazione  fatta  dal 
    Consigliere Dott. MONICA BONI; 
    Udito  il  Procuratore Generale in persona del  Dott.  FLAMINI  Luigi 
    Maria  che  ha  concluso  per  l'inammissibilità  con  rinvio  della 
    sentenza impugnata. 
                     


    Fatto
    RITENUTO IN FATTO

    1. Con sentenza resa il 3 luglio 2013 il Tribunale militare di Roma affermava la responsabilità dell'imputato C.A., caporalmaggiore scelto dell'esercito italiano, in servizio presso il sesto reggimento di manovra in (OMISSIS), in ordine al delitto di insubordinazione con ingiuria a superiore aggravata (art. 190 c.p.m.p., n. 2, art. 189, c.p.m.p., comma 2), contestatogli per avere ripetutamente offeso il prestigio, l'onore e la dignità del superiore, capitano D.S.F., profferendo con l'uso della seconda persona singolare le frasi allusive a discutibili costumi sessuali dell'interlocutore e della moglie, secondo quanto indicato nell'imputazione ed assumendo un gesto minaccioso, fatti commessi in Pisa il 5 ottobre 2011 e, per l'effetto, lo condannava alla pena di mesi sei di reclusione militare, pena sospesa.

    2. Proposto appello da parte dell'imputato, la Corte militare di Appello con la sentenza emessa in data 3 luglio 2013 riformava quella di primo grado ed assolveva l'imputato perchè il fatto non costituisce reato, ritenendo che, nonostante la dimostrata verificazione dell'episodio dal quale era scaturita l'accusa e la pronuncia delle frasi contestate, non altrettanto certa era la ricorrenza dell'elemento soggettivo del dolo, in quanto l'imputato aveva utilizzato quelle espressioni sconvenienti per diffidare il superiore dal credere alle dicerie incontrollate. Riteneva quindi che il comportamento consistente nell'interloquire col superiore con l'uso della seconda persona singolare, condiviso con la persona offesa, a sua volta rivoltasi all'imputato nello stesso modo, nel contesto specifico costituisse un mero illecito disciplinare, privo di rilevanza penale.

    3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte militare d'appello, il quale ha lamentato mancanza e manifesta illogicità della motivazione. Secondo il ricorrente, la Corte militare non aveva considerato che la frase indicativa delle voci correnti tra la truppa su possibili deviazioni sessuali del superiore e della moglie era stata pronunciata in un contesto comunicativo, non di avvertimento a non dare ascolto a dicerie, quanto per contrastare l'azione di comando che il superiore stava esercitando mediante la richiesta di informazioni su comportamenti ed inclinazioni personali del sottoposto in ordine all'assunzione di alcolici, tali da influire sulla regolare prestazione del servizio. Inoltre, dalle deposizioni escusse era emerso che il dialogo si era svolto in un clima ostile e di tensione, sfociato nella smodata e violenta reazione dell'imputato, in stato di alterazione, e nell'uso di espressioni lesive della dignità e del prestigio del superiore quale manifestazione di disprezzo e di sottrazione alla sua autorità, tali essendo anche secondo il comune intendimento.

    Anche le considerazioni sull'utilizzo della seconda persona singolare non avevano tenuto conto che tale aspetto della vicenda, senza integrare rilievo penale in sè, era sintomatico dell'atteggiamento sprezzante tenuto dall'imputato, mentre la Corte militare non aveva affatto esaminato l'altra espressione, con la quale il C. aveva contestato al superiore che non poteva dargli ordini e che lui se ne sarebbe andato da solo, frase pronunciata col gesto di puntargli contro il dito con finalità intimidatorie ed un tono da pari grado incurante invece del vincolo gerarchico, integrante gli estremi dell'insubordinazione.

    4. Con memoria depositata in data 24 settembre 2014 la difesa dell'imputato ha chiesto il rigetto dell'impugnazione, il cui accoglimento era impedito dall'operata confusione tra il vizio di motivazione e l'interpretazione operata dai giudici di merito delle norme giuridiche, dalla corretta ricostruzione dei fatti avvenuti il 5/10/2011 e del contesto di commissione e dalla perfetta logicità e coerenza della motivazione della sentenza impugnata.
    Diritto
    CONSIDERATO IN DIRITTO

    Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

    1. Il Procuratore ricorrente contesta la decisione impugnata unicamente sotto il profilo della violazione di legge per avere escluso la Corte militare di Appello l'elemento soggettivo del delitto di ingiuria aggravata, ascritto all'imputato, sulla scorta di un percorso giustificativo illogico.

    1.1 La sentenza impugnata, premesso che non sussisteva alcun contrasto tra le parti circa la ricostruzione in punto di fatto della condotta materiale, perpetrata nel corso di un colloquio intercorso tra il cap. D.S. e l'imputato alla presenza dei testi D. P. e Di.Ma., che ne hanno riferito concordemente al dibattimento, ha ritenuto di dissentire dal giudizio di responsabilità, espresso dal Tribunale militare, e di escludere la volontarietà delle offese rivolte dal sottordinato al superiore per il contesto complessivo dello scambio di battute tra i due dialoganti, caratterizzate dall'intento del soggetto agente di richiamare l'attenzione dell'interlocutore sulla necessità di non prestare fede a voci imprecisate, perchè le stesse colpivano in modo indiscriminato anche la sua persona e quella della moglie con la diffusione di notizie pregiudizievoli. Secondo la Corte militare l'istruttoria compiuta restituirebbe un significato differente da quello apparente alla frase incriminata "ci sono voci che tu e tua moglie andate a prenderla in culo a (OMISSIS)", perchè preceduta dall'avvertimento a non dare peso alle voci correnti in caserma ed inserita in un ragionamento argomentativo per assurdo, secondo il quale non era da dicerie non verificate che poteva affermarsi la sua dedizione all'uso di alcolici perchè parimenti anche sul conto dello stesso capitano circolavano voci su comportamenti disdicevoli. Si era dunque trattato di una mera battuta, espressa in forma sconveniente, ma non animata dall'intento di offendere dignità e prestigio del superiore e della moglie. Sulla base di tali presupposti ha dunque espresso un ragionevole dubbio sulla ricorrenza dell'elemento soggettivo del dolo e, con riferimento all'utilizzo della seconda persona singolare nel corso della parte incriminata del colloquio col superiore, ne ha constatato l'inoffensività sul piano penale, sia perchè costituente al più illecito disciplinare, sia perchè tale comportamento era stato indotto dalla stessa parte lesa, che per prima si era rivolta al C. nello stesso modo.

    1.2 Ritiene questa Corte che la decisione impugnata non tenga adeguatamente conto della configurazione astratta della fattispecie di insubordinazione con ingiuria, prevista dall'art. 189 c.p.m.p., comma 2, quale reato plurioffensivo, perchè tutela la dignità e l'onore del "superiore", ma anche l'integrità e l'effettività del rapporto gerarchico, che è funzionale al mantenimento della compattezza e dell'efficienza delle forze armate, necessarie per il raggiungimento dei compiti loro affidati dall'ordinamento. Inoltre, il particolare rigore cui sono improntati i rapporti nel contesto militare, conduce a considerare offesa all'onore ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore, così come il ricorso ad espressioni dal tono arrogante, perchè contrari alle esigenze della disciplina militare, la quale impone come indispensabili norme penali di protezione dell'effettività della gerarchia e richiede che il superiore sia tutelato non solo nell'espressione della sua personalità umana, ma anche nell'ascendente morale che deve accompagnare l'esercizio dell'autorità corrispondente al grado e la funzione di comando (Cass. sez. 1^, n. 3971 del 28/11/2013, De Chiara, rv. 259013; sez. 1^, n. 7957 del 20/12/2006, Frantuma, rv.

    236355; sez. 1^, n. 1172 del 12/07/1989, Pesola, rv. 183159).

    La fattispecie in esame ripete poi dal reato comune di ingiuria le sue caratteristiche di delitto a dolo generico, che si realizza allorchè l'agente rivolga al destinatario, in questo caso un militare di grado superiore, una frase lesiva del decoro e dell'onore dello stesso, senza che sia necessaria la volontà di offendere o umiliare, trattandosi di delitto volto a tutelare, sia il patrimonio morale della persona, sia il bene indisponibile della disciplina militare. Pertanto, per la sua integrazione è sufficiente la cosciente volontà di pronunciare espressioni di univoco significato offensivo, perchè dispregiative, mortificanti ed avvilenti, senza che assumano rilievo eventuali moventi o finalità individuali di volta in volta perseguite (Cass. sez. 1^, n. 12997 del 10/02/2009, Ottaviano e altro, rv. 243545; sez. 1^, n. 42367 del 16/11/2006,, P.G. in proc. Toraldo, rv. 235569; sez. 1^, n. 58 del 16/11/2006, Rizzi, rv. 235335).

    1.3 Ebbene, nel caso in esame, il C., secondo quanto riportato nella stessa sentenza impugnata, non si è limitato ad un discorso ipotetico e per assurdo, a ricorrere con convinzione e forza dialettica ad argomenti capaci di convincere l'interlocutore; al contrario, indispettito per essere stato convocato a rapporto dopo un protratto servizio e prima di poter fruire del previsto riposo, dopo avere preteso la presenza di un militare di pari grado, alle richieste del capitano sull'eventuale uso di alcolici, ha replicato con locuzioni che la stessa Corte riconosce come sconvenienti ed inappropriate, lesive del prestigio e della dignità del superiore, siccome fatto oggetto di disprezzo, di scherno, di volgari illazioni, seppur riferite a dicerie diffuse tra la truppa. Se dunque sotto il profilo oggettivo è indubbio che tali espressioni abbiano pregiudicato l'autostima e l'onore del destinatario, sia come militare, che come persona, al tempo stesso non appare logico e coerente con le informazioni probatorie acquisite ignorare che le stesse hanno violano le regole di disciplina ed i principi che devono regolare i rapporti gerarchici in contesto militare.

    1.4 Inoltre, è fondata anche la doglianza che lamenta una lettura travisante delle risultanze probatorie in merito al dimostrato clima di tensione e di ostilità che si era creato sin dall'inizio del confronto tra il C. ed il cap. D.S.; le deposizioni riportate testualmente nel ricorso danno effettivamente conto di un confronto tra i due protagonisti che non si era svolto in modo sereno, confidenziale e collaborativo, ma di un marcato risentimento dell'imputato per la convocazione, ritenuta inappropriata nei tempi e nei modi, tanto da avere manifestato l'intenzione iniziale di non dare risposta alle domande che gli sarebbero state poste. In seguito, alle richieste del suo superiore sull'eventuale uso di alcolici, rivoltegli in modo informale ed a solo scopo conoscitivo, si era verificata la sua reazione aggressiva, offensiva e minacciosa, tradottasi, dapprima in negazioni, quindi in un atteggiamento verbale e gestuale provocatorio e sprezzante con l'uso della seconda persona singolare, con le allusioni a pratiche sessuali infamanti e con le rimostranze per la presunta persecuzione di cui era vittima da parte del cap. D.S. e del vice comandante di compagnia. L'episodio si era concluso con la frase "io vado da solo e tu non mi dai ordini", che era seguita all'offerta della parte lesa, visto lo stato di alterazione del sottordinato, di farlo accompagnare. La tensione e la conflittualità del dialogo informale tra i due militari ed il suo epilogo sono stati del tutto ignorati dalla Corte di merito e sembrano piuttosto coerenti con un atteggiamento doloso del soggetto agente per avere scelto di respingere le pur legittime domande postegli dal cap. D.S. con offese gratuite e volgari e con la manifestata intenzione di respingere gli ordini eventualmente impartitigli.

    1.5 La Corte militare ha poi rilevato che il mancato uso della terza persona singolare nel rapportarsi al superiore poteva integrare gli estremi dell'illecito disciplinare, ma ha valutato tale emergenza in modo del tutto svincolato dal contegno complessivo dell'imputato, ignorando che anche tale scelta espressiva sembra rivelare il disprezzo per il superiore e l'intenzione di rapportasi ad esso in condizioni di parità, negandone l'autorità ed il grado. Del pari, ha inspiegabilmente omesso, mancando qualsiasi analisi sul punto, di prendere in considerazione la frase sul rifiuto di accettare ordini dal D.S. ed il gesto del puntare il dito nella sua direzione in tono di sfida e di velata minaccia per poi abbandonare il luogo, atteggiamento complessivo anch'esso coerente con la tesi accusatoria, che vuole l'imputato insubordinato per avere aggredito verbalmente il superiore ed averne respinto l'autorità, la potestà di impartirgli ordini e la catena di comando espressa dal rapporto gerarchico mediante un comportamento di aperta ribellione.

    Sul punto la sentenza impugnata è incorsa in carenza di motivazione per non avere illustrato alcun argomento, dal quale desumere il dubbio sull'elemento soggettivo.

    La sentenza impugnata, per essere incorsa nei vizi denunciati, ossia per essere supportata da motivazione in parte illogica, in parte carente, va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte militare d'Appello per un nuovo giudizio.
    PQM
    P.Q.M.

    Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte militare d'Appello di Roma.

    Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2014.

    Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2014
Avv. Antonino Sugamele

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