Militare italiano all'estero uccide un cittadino straniero. 10 anni e 6 mesi di reclusione. Il Ministero della difesa deve risarcire i danni.
Cassazione penale sez. I Data:18/01/2011 ( ud. 18/01/2011 , dep.26/05/2011 )
Numero: 21195
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIEFFI Severo - Presidente -
Dott. TARDIO Angela - Consigliere -
Dott. BONITO Francesco M.S. - Consigliere -
Dott. CASSANO Margherita - Consigliere -
Dott. LA POSTA Lucia - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) MINISTERO DELLA DIFESA;
2) P.G., N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 5/2008 CORTE ASSISE APPELLO di TARANTO, del
12/06/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/01/2011 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCIA LA POSTA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Mazzotta Gabriele,
che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi;
udito, per la parte civile, Avv. Della Marra Tatiana, che ha chiesto
conferma delle statuizioni civili;
udito il difensore Avv.ra dello Stato G.P., De Figuriredo, che ha
chiesto l'accoglimento del ricorso e il difensore dell'imputato, avv.
Lombardo D., che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 6.6.2007 la Corte di Assise di Taranto dichiarava P.G. colpevole del reato di omicidio volontario in danno di un cittadino russo avvenuto in (OMISSIS), per aver colpito lo stesso con un coltello cagionandogli lesioni dalle quali derivava la morte, e lo condannava, con la concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni quattordici di reclusione e pene accessorie. Condannava, inoltre, il P. ed il responsabile civile Ministero della Difesa, in solido, al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separato giudizio, con la provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 60.000,00 e di Euro 15.000,00 per ciascuna delle parti civili, nonchè, alla refusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili, liquidate in Euro 12.000,00. Dichiarava, altresì, non doversi procedere nei confronti del P. e degli altri imputati in relazione al fatto contestato al capo B), diversamente qualificato nel reato di percosse, per mancanza di querela.
2. La Corte di Assise di Appello di Taranto con sentenza del 12.6.2009, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata dal P., dal responsabile civile e dalle parti civili, riconosceva all'imputato la circostanza attenuante della provocazione riducendo la pena ad anni dieci e mesi sei di reclusione; confermava nel resto la sentenza impugnata.
3. I fatti oggetto del processo si erano verificati nella tarda serata del (OMISSIS) nel porto di (OMISSIS), nel territorio della Federazione Russa - ove era ormeggiato l'incrociatore "(OMISSIS)" per una attività di addestramento - tra marinai italiani che rientravano dalla "franchigia" a bordo della nave e alcuni ragazzi russi, tra i quali il R., non ancora diciottenne, rimasto ferito mortalmente con una coltellata alla spalla.
3.2. Il responsabile civile, Ministero della Difesa, costituito tempestivamente nel giudizio di primo grado, aveva preliminarmente domandato la esclusione dal processo e formulato eccezione di incompetenza territoriale. Tali questioni venivano entrambi respinte con ordinanza della Corte di Assise, richiamata nella sentenza di primo grado; la questione della competenza territoriale veniva riproposta nei motivi di appello e ritenuta infondata dal giudice di secondo grado.
3.3. Quanto al merito, nelle sentenze si da conto di alcuni fatti verificatisi prima dell'omicidio che avevano contribuito a creare una situazione di tensione; in particolare, quello riferito dal comandante della nave relativo all'aggressione subita quattro giorni prima dal sergente D., percosso e rapinato in prossimità del porto. In detto contesto veniva ricostruito l'episodio omicidiario.
La responsabilità del P. veniva fondata - oltre che sui risultati degli accertamenti tecnici - sulla ammissione di aver colpito la vittima con un coltello fatta dal predetto al comandante della nave a pochi giorni dal fatto e ribadita al p.m. ed in dibattimento, sia pure riferendo nelle diverse occasioni particolari contrastanti della dinamica dello scontro, in particolare con riferimento alla circostanza che la vittima avesse assunto un comportamento aggressivo e avesse minacciato di aggredire l'imputato con una bottiglia. Tale ultima circostanza risultava, invece, smentita dalle ulteriori acquisizioni dibattimentali dalle quali emergeva che la vittima era stata colpita con il coltello mentre fuggiva dai suoi aggressori.
La Corte di assise di secondo grado - premessa l'inammissibilità di tutti i motivi dell'appello dell'imputato, per avervi lo stesso espressamente rinunciato, fatto salvo per quello relativo al riconoscimento dell'attenuante della provocazione - ha espressamente affermato di condividere le valutazioni (alle quali ha fatto rinvio) del giudice di primo grado in ordine alla accertata responsabilità del P. ed alla qualificazione giuridica del fatto di omicidio volontario. Confermando le valutazioni del primo giudice, ha escluso la configurabilità dell'esimente delle legittima difesa - oggetto dell'appello del responsabile civile - tenuto conto che, alla luce delle prove acquisite in dibattimento, è rimasto escluso che la vittima avesse minacciato l'imputato con una bottiglia ed rimasto provato che la vittima era stata colpita con il coltello mentre si dava alla fuga.
La Corte di secondo grado ha, invece, ritenuto configurabile l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 2 alla luce sia del contesto di conflittualità determinato dai fatti subiti dai marinai italiani nei giorni precedenti, sia dell'accertata circostanza che la vittima si trovava in stato di ubriachezza ed aveva urtato con la spalla il P. profferendo al suo indirizzo frasi ingiuriose ed offensive.
3.4. La responsabilità civile del Ministero della Difesa è stata affermata, ai sensi dell'art. 2049 c.c., nella sentenza di primo e di secondo grado sulla base dei richiamati principi dettati dalla Corte di legittimità in tema di responsabilità della P.A. per il fatto illecito del dipendente, ritenendo che il marinalo imbarcato sulla nave in missione all'estero e in "libera uscita" deve essere considerato in servizio.
3.5. Infondata è stata ritenuta la doglianza del responsabile civile in ordine al mancato riconoscimento del concorso di colpa della vittima. Premesso che l'attenuante della provocazione non ha incidenza sulla liquidazione del danno, la Corte ha evidenziato che detta liquidazione è stata rimessa al competente giudice civile.
4. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione l'imputato, personalmente, ed il Ministero della Difesa, a mezzo dell'Avvocatura dello Stato.
4.1. Il P., denuncia il vizio di motivazione per manifesta illogicità con riferimento alla valutazione della prova, lamentando che il giudice di secondo grado si è limitato a richiamare le argomentazioni della sentenza di primo grado omettendo qualsivoglia valutazione delle questioni poste con i motivi di appello ai quali solo parzialmente il ricorrente aveva rinunciato. Lamenta, altresì, la violazione di legge con riferimento all'applicazione dell'art. 192 c.p.p. non essendo gli elementi posti a fondamento della affermata responsabilità connotati dalla gravità, precisione e concordanza.
Infine, si duole della mancata motivazione in ordine alla determinazione della pena, non avendo la Corte di secondo grado operato la riduzione massima.
4.2. Il responsabile civile, Ministero della Difesa, articola quattro distinti motivi.
a) In primo luogo denuncia la violazione delle norme processuali con riferimento all'art. 10 c.p.p., comma 1 e 2 e art. 21 c.p.p., comma 2, avuto riguardo alla competenza della Corte di Taranto, affermando che, nella specie - dovendosi applicare il criterio di cui all'art. 10 c.p.p., comma 1, ultima parte, - giudice competente era la Corte di assise di Catania, atteso che due degli imputati del processo (ossia il maggior numero di quelli rinviati a giudizio) hanno residenza a Catania, mentre tutti gli altri sono residenti in luoghi diversi tra loro. Contesta, quindi, l'applicazione del criterio sussidiario di cui all'art. 10 c.p.p., comma 2, non essendovi ragione di fare ricorso a detto criterio.
Il ricorrente, inoltre, lamenta l'erronea applicazione della norma di cui all'art. 21 c.p.p., richiamato dalla Corte di secondo grado per ritenere che la competenza si era correttamente radicata dinanzi al Gup del tribunale di Taranto e, non essendo stata sollevata la relativa questione nei termini indicati all'art. 21 c.p.p., comma 2, restava privo di rilievo il fatto che alcuni imputati avessero definito la propria posizione con rito alternativo. Contesta, quindi, la preclusione della eccezione di competenza per quel che riguarda il responsabile civile che non aveva nè avrebbe potuto partecipare all'udienza preliminare nella quale le parti civili non si erano costituite ed aveva, invece, sollevato la eccezione di incompetenza entro il termine previsto dall'art. 491 c.p.p., comma 1.
Contesta, altresì, l'invocato principio della perpetuano iurisdictionis e competentiae, ovvero, della irrilevanza dell'esito dell'udienza preliminare, atteso che la posizione degli imputati per i quali era stato disposto il rinvio a giudizio era stata formalmente separata dagli altri imputati che avevano definito il processo con rito alternativo.
b) Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancato riconoscimento dell'esimente della legittima difesa, quanto meno putativa. In specie, lamenta la sinteticità della motivazione della sentenza impugnata sul punto e la contraddizione con le argomentazioni poste dalla Corte a fondamento del riconoscimento dell'attenuante della provocazione (stato di ubriachezza della vittima, frasi ingiuriose da questi profferite, altre liti verificatesi la stessa sera).
c) Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) con riferimento all'art. 2049 c.c., alla L. 11 luglio 1978, art. 5, comma 6; nonchè, la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione quanto alla ritenuta responsabilità del Ministero della Difesa, Ripropone, quindi, le questioni di cui ai motivi di appello e alla richiesta di esclusione formulata al giudice di primo grado, ribadendo che poichè i fatti erano stati commessi sulla terraferma mentre i marinai erano in "franchigia", la responsabilità del Ministero non era configurabile nè ai sensi dell'art. 2049 c.c., nè dell'art. 274 c.n.. Nella sentenza impugnata si confonde la "disponibilità a servizio" che il militare deve avere anche durante la libera uscita e "l'espletamento delle mansioni" con riferimento al quale deve sussistere il nesso di occasionalità con il fatto illecito del dipendente. Inoltre, ad avviso del ricorrente la Corte territoriale ha travisato le circostanze riferite dal comandante F..
d) Infine, denuncia violazione di legge avuto riguardo al mancato riconoscimento del concorso di colpa della vittima, nonostante sia stato ritenuto in fatto che la vittima si era avvicinata agli italiani con atteggiamenti minacciosi e benchè sia stata riconosciuta l'attenuante della provocazione.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Deve premettersi che, nella verifica della fondatezza dei rilievi critici mossi dai ricorrenti, la sentenza impugnata di secondo grado non può essere valutata isolatamente ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con quella di primo grado, sviluppandosi entrambe secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti. Di tal che - sulla base di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di questa Corte - deve ritenersi che la motivazione della prima si saldi con quella della seconda fino a formare un solo complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e inscindibile (S.U., 04/02/1992, Ballan; Sez. 1, 21/03/1997, Greco;
Sez. 1, 04/04/1997, Proietti).
1. Il ricorso proposto dall'imputato è inammissibile.
Va rilevato, in primo luogo, che - come si precisa nella sentenza impugnata - l'imputato aveva rinunciato a tutti i motivi di appello con la sola esclusione di quello relativo al riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione che la Corte di secondo grado ha riconosciuto. Infatti, ex art. 597 c.p.p., comma 1, l'effetto devolutivo dell'impugnazione circoscrive la cognizione del giudice del gravame ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti; pertanto, una volta che essi costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello prenderli in considerazione, nè può farlo il giudice di legittimità (Sez. 2, n. 3593, 03/12/2010, Izzo, rv. 249269).
Peraltro, il P. formula censure sulla motivazione della sentenza impugnata assolutamente generiche e relative a questioni di fatto che si sottraggono al giudizio di legittimità.
Manifestamente infondata deve ritenersi, altresì, la doglianza relativa alla quantificazione della pena, all'esito del riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione, operata nell'ambito del potere discrezionale sul quale la Corte ha motivato attraverso il richiamo ai criteri generali di cui all'art. 133 c.p..
2. I motivi del ricorso del responsabile civile sono in parte infondati ed in parte inammissibili per le valutazioni che seguono.
2.1. La questione della competenza territoriale - che nel caso di specie ha riguardo ai criteri ermeneutici per l'applicazione dell'art. 10 c.p.p. - deve essere risolta alla luce di principi affermati da questa Corte in tema di disciplina generale della competenza per territorio, in specie con riferimento da un lato all'applicazione dei criteri c.d. suppletivi ed dall'altro alla c.d.
perpetuatio iurisdictionis.
"La disciplina della incompetenza per territorio ha carattere meno rigido di quella che regola la incompetenza per materia o la incompetenza funzionale, considerato che l'esigenza di determinare ed assicurare una competenza ratione foci si fonda su motivi di opportunità, che non investono l'Intrinseca idoneità del giudice alla funzione, la sua capacità tecnico-professionale e non incidono, quindi, in modo decisivo sulla vicenda processuale.
La normativa di rito vigente consente di rilevare ed eccepire l'incompetenza per territorio non già in ogni stato e grado come quella per materia o funzionale, ma entro limiti temporali stabiliti a pena di decadenza, oltre i quali la questione rimane preclusa, e ciò a testimonianza, come si legge nella relazione al progetto preliminare del codice, della minore "preoccupazione" che detta questione desta nel legislatore, attento piuttosto a predisporre una disciplina improntata a mere "ragioni di celerità". I termini di decadenza sono differenziati a seconda che si instauri o meno l'udienza preliminare (art. 21 c.p.p., comma 2): nel primo caso, se è il giudice a rilevare l'incompetenza, la relativa declaratoria non potrà che essere oggetto del provvedimento conclusivo letto in udienza, mentre, se è la parte ad eccepirla, sarà la chiusura della discussione a segnare, per la parte medesima, il termine di decadenza; nel secondo caso, il termine per rilevare o eccepire l'incompetenza per territorio è quello indicato dall'art. 491 c.p.p., comma 1, cioè subito dopo che sia stato compiuto, per la prima volta, l'accertamento della regolare costituzione delle parti.
Entro quest'ultimo termine l'eccezione d'incompetenza, ritualmente sollevata ma respinta nel corso dell'udienza preliminare, può essere riproposta, al fine di permettere un "controllo sulle statuizioni del giudice dell'udienza preliminare da parte del giudice del giudizio", posto che la decisione di quest'ultimo, prevalendo su quella del primo, previene ed evita situazioni di conflitto formale, privilegiando ancora una volta l'interesse ad una sollecita definizione del processo (art. 28 c.p.p., comma 2).
Superati i detti limiti temporali, interviene la perpetuano jurisdictionis, per cui la cognizione della causa rimane attribuita al giudice procedente, anche nell'ipotesi che fatti eventualmente idonei a supportare la deducibilità del vizio d'incompetenza emergano nel corso dell'istruttoria dibattimentale. Non è casuale, infatti, che il legislatore - a differenza di quanto previsto dall'art. 439 c.p.p., comma 2, abrogato - non abbia inserito tra le questioni proponibili, oltre che in fase preliminare, anche nel corso del dibattimento se soltanto in questo sorgano (art. 491 c.p.p., comma 2), quella concernente il difetto di competenza per territorio, il che conferma l'operatività della preclusione conseguente al decorso dei precisi limiti temporali fissati dall'art. 21 c.p.p., comma 2.
D'altra parte, sarebbe incoerente la previsione di un meccanismo di rigorose preclusioni con quella di un permanente potere, officioso o su sollecitazione di parte, del giudice di occuparsi della questione di competenza, perchè si tradirebbe l'intento accelerativo che permea l'intera disciplina. Lo stesso giudice delle leggi, decidendo la questione di costituzionalità sull'obbligo di immediata deduzione dell'incompetenza per territorio, anche se la possibilità di eccepirla non sia ancora sorta allo spirare del termine e si manifesti successivamente, ha respinto l'eccezione, sottolineando che la norma di cui all'art. 491 c.p.p., comma 1 non contrasta con l'art. 25 Cost., comma 1, "sia perchè restano sempre chiaramente determinati in anticipo i criteri in base ai quali la competenza deve essere stabilita, in modo da dare all'interessato la certezza circa il giudice che lo deve giudicare, sia perchè l'imposizione di una disciplina particolarmente rigorosa per la proposizione dell'eccezione d'incompetenza territoriale corrisponde alla...peculiare natura della competenza in esame, per cui il legislatore può legittimamente ritenere, nella sua discrezionalità, di limitare la possibilità di rilevarne i vizi a vantaggio dell'interesse all'ordine e alla speditezza del processo", interesse che prevale rispetto anche all'esatta individuazione del giudice naturale (Corte cost, sent. n. 1/1965, n. 139/1971, n. 174/1975, n. 77/1077, ord. n. 521/1991, n. 280/1994, n. 130/1995).
E' insito nel sistema, così come delineato, il principio secondo cui la competenza territoriale deve essere dal giudice verificata, se - com'è accaduto nella specie - si celebra l'udienza preliminare, prima della conclusione di questa e la verifica non può che avvenire allo stato degli atti in quel momento disponibili, vale a dire sulla scorta della imputazione formulata dal P.M., di tutte le emergenze d'indagine presenti nel fascicolo del P.M. e posti a disposizione del giudice e delle parti private, delle prospettazioni formulate dalla parte interessata e della documentazione dalla medesima eventualmente prodotta. E' alla luce di tale materiale conoscitivo che la questione della competenza per territorio deve essere decisa e, in caso di rigetto, può essere riproposta entro il termine di cui all'art. 491 c.p.p., comma 1 dinanzi al giudice del dibattimento, che, in via preliminare, utilizzando lo stesso materiale, la rivaluta per radicare definitivamente presso di sè la cognizione del processo o per riconoscere la propria incompetenza ratione loci, senza alcuna possibilità di dare corso ad attività istruttoria finalizzata all'acquisizione di nuovi elementi idonei ad incidere su tale aspetto, tanto che la relativa decisione deve essere assunta "immediatamente". Ne consegue che, determinatasi, per effetto del previsto sbarramento cronologico e della preclusione ad esso connessa, la perpetualo jurisdictionis, l'affermata competenza per territorio rimane insensibile anche ad eventuali eventi istruttori o decisori successivi e di significato diverso da quello espresso dai dati in precedenza valutati. Ciò significa che la verifica della competenza territoriale, se ritualmente devoluta al giudice dell'impugnazione, deve essere da questo fatta con valutazione ex ante, ancorata cioè alle emergenze fattuali così come cristallizzate in sede di udienza preliminare o, in mancanza di questa, a quelle acquisite non oltre il termine di cui all'art. 491 c.p.p., comma 1, non potendo quanto di diverso eventualmente evidenziato dalla successiva dinamica dibattimentale essere preso in considerazione per tale verifica, che ha ad oggetto la correttezza o meno della soluzione adottata in ordine ad una questione preliminare, che, proprio perchè tale, non implica il confronto con gli esiti istruttori del dibattimento, anche perchè verrebbe così vanificato il richiamato principio della perpetuano jurisdictionis. Nè a diversa conclusione può portare la previsione di cui all'art. 23 c.p.p., secondo cui "se nel dibattimento di primo grado il giudice ritiene che il processo appartiene alla competenza di altro giudice, dichiara con sentenza la propria incompetenza per qualsiasi causa", considerato che, se vero che "ogni giudice...è anzitutto giudice della propria competenza", ciò non significa che il potere di dichiarare l'incompetenza per territorio non possa essere limitato e condizionato, per favorire la speditezza del processo, dalle preclusioni di cui all'art. 21 c.p.p., comma 2; in sostanza, la lettura del richiamato art. 23 c.p.p., va necessariamente coordinata, quanto all'incompetenza per territorio, con la disposizione di cui all'art. 21 c.p.p., comma 2, secondo la quale la detta incompetenza potrà essere dichiarata nel corso del dibattimento di primo grado soltanto non oltre l'accertamento per la prima volta della costituzione delle parti e sulla base, come si è precisato, della contestazione originaria e del materiale conoscitivo a disposizione, in tale fase iniziale, del giudice e delle parti processuali; la coerenza del sistema trova conferma anche nella previsione dell'art. 24 c.p.p., che regola il potere del giudice d'appello di rilevare l'incompetenza per territorio, con valutazione logicamente ex ante degli elementi originariamente disponibili, purchè la relativa questione sia stata eccepita con le modalità previste dall'art. 21 c.p.p., comma 2, ovvero nei termini previsti dall'art. 491 c.p.p., comma 1 e, respinta in primo grado, sia stata riproposta nei motivi di appello; la pronuncia con la quale il giudice di appello respinge, a sua volta, l'eccezione d'incompetenza per territorio è impugnabile con ricorso per cassazione e il conseguente sindacato di legittimità deve fare riferimento, onde non vanificare ex post gli effetti eventualmente consolidatisi della perpetuatici jurisdictionis, ai soli dati fattuali disponibili in sede di udienza preliminare o, in caso di citazione diretta a giudizio, nel momento immediatamente precedente la dichiarazione di apertura del dibattimento" (Sez. 6, n. 33435, del 04/05/2006, Battistella).
Alla luce di detti principi - che il Collegio condivide - correttamente la Corte di primo grado prima e quella di appello poi hanno ritenuto infondata l'eccezione di incompetenza territoriale formulata dal responsabile civile. Nella sentenza impugnata, infatti, si rileva che la competenza si era ritualmente radicata al momento dell'udienza preliminare dinanzi al Gup del Tribunale di Tarante, tenuto conto della residenza di tutti gli indagati e del criterio dettato dall'art. 10 c.p.p., comma 2 al quale si doveva fare ricorso non sussistendo i presupposti per applicare quelli previsti dal comma 1 della stessa norma. Quindi, evidenziava come per il principio della perpetuato iurisdictionis, la competenza territoriale restava radicata dinanzi al giudice di Taranto indipendentemente dai successivi eventi istruttori e decisori quali la richiesta da parte di alcuni imputati di definire il processo con riti alternativi, circostanza che rimaneva priva di rilevanza ai fini della già verificata competenza, come esattamente aveva ritenuto la Corte di primo grado nell'ordinanza del 18.10.2006.
La corretta lettura della motivazione sul punto consente di precisare che la Corte di assise di appello non ha richiamato lo sbarramento dell'udienza preliminare di cui all'art. 21 c.p.p., comma 2, per ritenere preclusa l'eccezione del responsabile civile - sulla quale, infatti, ha pronunciato nel merito - bensì per fondare il principio della perpetuatio iurisdictionis per il quale i fatti successivi a quel momento non rilevano ai fini della determinazione della competenza territoriale.
Il motivo di ricorso deve, pertanto, ritenersi infondato.
2.2. Il secondo motivo di gravame è manifestamente infondato e, quindi, inammissibile.
Il ricorrente propone censure in fatto che tendono ad una rilettura degli elementi probatori alternativa a quella operata dal giudice di merito con una valutazione che è stata esplicitata attraverso un iter argomentativo immune da vizi logici e giuridici. La Corte di merito ha per vero evidenziato che, alla luce delle prove acquisite nell'ampia istruttoria dibattimentale, è rimasto escluso che la vittima avesse minacciato l'imputato con una bottiglia,cosi che andava escluso che il P. avesse potuto in qualche modo avvertire l'esistenza di un pericolo attuale per la propria incolumità; d'altro canto, era risultato pacifico che la vittima era stata colpita con il coltello mentre si dava alla fuga. Tanto non consentiva di ritenere provata della sussistenza dell'invocata esimente della legittima difesa.
Nè, all'evidenza, la valutazione del giudice di merito sul punto entra in contraddizione con le argomentazioni poste a fondamento del riconoscimento dell'attenuante della provocazione. Come è noto, legittima difesa e provocazione si fondano su presupposti diversi:
mentre la legittima difesa si riferisce ad un'azione difensiva, la provocazione attiene ad un'azione offensiva; nella legittima difesa si tende ad eliminare un pericolo, si agisce perchè si vede in pericolo un proprio diritto, nel caso di provocazione si reagisce perchè si è in stato d'ira che spinge ad una azione illecita non determinata.
Non vi è, dunque, contraddizione tra diniego della scriminante della legittima difesa e la concessione dell'attenuante della provocazione, in quanto detta attenuante non richiede per la sua applicabilità l'attualità del fatto ingiusto altrui, essendo sufficiente che l'imputato sia stato spinto al reato da un impulso fisico psichico (stato d'ira) collegato all'altrui fatto ingiusto da un nesso di causalità determinante (Sez. 5, n. 4044, del 28/01/1975, Di Lucchio, rv. 129744).
2.3. Destituito di fondamento è il terzo motivo di ricorso.
Avuto riguardo alla condanna del responsabile civile, Ministero della Difesa, al risarcimento dei danni a favore delle costituite parti civili, ha osservato la Corte di primo grado che il fondamento di tale responsabilità va individuato nell'art. 2049 c.c., rifacendosi ai principi affermati da questa Corte di legittimità che si era espressa nel senso che "Ai fini dell'applicabilità dell'art. 2049 c.c., in tema di colpa presunta del datore di lavoro, non è necessario un rigoroso collegamento, come di causa ad effetto, tra espletamento delle mansioni e comportamento produttivo del danno, ma è sufficiente che sussista un nesso di occasionalità necessaria fra l'illecito ed il rapporto di subordinazione che lega l'autore di esso all'altro soggetto, nel senso che le incombenze o mansioni affidate al primo abbiano reso possibile o comunque agevolato quel comportamento dannoso" (Sez. 4, 16 ottobre 1984, Ferrini).
Il principio è stato costantemente ribadito in numerose sentenze, specificando che "al riguardo è sufficiente un collegamento funzionale o strumentale, anche marginale, fra il fatto illecito e l'espletamento dell'incarico ovvero l'esercizio delle mansioni affidate", e che la suddetta forma di responsabilità sussiste "pur se l'agente abbia operato autonomamente ed anche se abbia ecceduto od esorbitato dai limiti delle mansioni o delle incombenze affidategli", mentre essa rimane esclusa "solo quando il fatto illecito eziologicamente sia riferibile ad attività privata svolta nell'esercizio della personale autonomia dell'autore del danno" (Sez. 1, 10 gennaio 1986, Bruzzese; Sez. 2, 25 settembre 1989, Vitiello;
Sez. 2, 17 marzo 1988, Pallini).
Ancora, ricordava la Corte che alcune isolate pronunce avevano applicato il suddetto principio in maniera meno rigorosa, richiedendo che l'esercizio delle mansioni affidate al dipendente abbia agevolato "in modo decisivo" la realizzazione dell'illecito: "Ai fini dell'affermazione della responsabilità civile della p.a. per reato commesso dal dipendente, deve essere accertata l'esistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra il comportamento doloso posto in essere dall'agente e le incombenze affidategli, verificando che la condotta si innesti nel meccanismo dell'attività complessiva dell'ente e che l'espletamento delle mansioni inerenti al servizio prestato abbia costituito conditio sine qua non del fatto produttivo del danno per averne in modo decisivo agevolato la realizzazione" (Sez. 4, 20 giugno 2000, n. 13048, Occhipinti).
Nel complesso, perorala osservato il primo giudicerdeve ritenersi prevalente l'indirizzo secondo il quale è necessario e sufficiente il fatto che l'attività esercitata dal dipendente abbia semplicemente "reso possibile" la perpetrazione del reato: "la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per i danni derivanti dal fatto illecito, anche penale, dal dipendente, ai sensi dell'art. 2049 c.c., non richiede l'esistenza di un vero e proprio nesso di causalità tra le mansioni attribuite al medesimo dipendente e l'evento lesivo, dovendosi, al contrario, ritenere sufficiente l'esistenza di un rapporto di occasionalità necessaria, riconoscibile ogni qual volta l'attività esercitata dal dipendente abbia, nella sua estrinsecazione apparente, determinato una situazione tale da agevolare o rendere comunque possibile il fatto illecito ed il danno da esso derivato, ancorchè egli abbia operato oltre i limiti delle sue effettive incombenze, senza tuttavia esorbitare dal rapporto lavorativo al punto da configurare una condotta del tutto estranea ad esso" (Sez. 2, n. 694, 07/11/2000, Fedelini).
Nello stesso senso è stato affermato che "ai fini della responsabilità civile per fatto illecito commesso dal dipendente, è sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate dal dipendente, che ricorre quando l'illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti da questo svolti, anche se il dipendente ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti" (Sez. 3, 02/07/2002, n. 36503). E che "la p.a. deve essere ritenuta civilmente responsabile, in base al criterio della cosiddetta "occasionalità necessaria", degli illeciti penali commessi da propri dipendenti ogni qual volta la condotta di costoro non abbia assunto i caratteri dell'assoluta imprevedibilità ed eterogeneità rispetto ai loro compiti istituzionali, sì da non consentire il minimo collegamento con essi" (Sez. 3, 11 giugno 2003, n. 33562).
La responsabilità della P.A. è stata, quindi, esclusa soltanto in casi limite, relativi a fatti svoltisi realmente in un contesto del tutto privato e senza il benchè minimo collegamento, concreto e attuale, con l'attività svolta dal dipendente.
Ha, inoltre, rilevato il giudice del merito che non poteva essere condiviso l'assunto del responsabile civile secondo cui non erano applicabili i richiamati principi e la norma di cui all'art. 2049 c.c. perchè l'omicidio del cittadino russo era avvenuto mentre i militari della nave italiana si trovavano in "franchigia", ossia in libera uscita, e come tali dunque del tutto liberi dal servizio; il fatto illecito, in altri termini, non avrebbe, ad avviso della difesa erariale, alcun collegamento con l'attività dei militari e con le mansioni loro assegnate, essendosi verificato in una cornice spazio- temporale contrassegnata dall'esplicazione della vita privata dei marinai, e senza alcun nesso con l'attività istituzionale dell'ente.
Come ha replicato il primo giudice, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 4/1997, la "franchigia" del militare rimane distinta dalla licenza, in quanto la prima viene fruita, in base a quanto disposto dagli artt. 45 e 46 del regolamento di disciplina militare (D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545), secondo turni e orari stabiliti con atto generale da rendere pubblico nell'ambito di ciascuna forza o corpo armato, mentre la seconda è concessa ai singoli militari con apposito provvedimento autorizzativo. Da che il giudice delle leggi trae l'osservazione secondo cui una situazione più prossima ad una vera e propria sospensione del servizio si determina solo nel caso della licenza, mentre nel caso della libera uscita "si è in presenza di una semplice regolamentazione del servizio stesso", che continua a decorrere e che fa dunque sottostare il militare a tutti i relativi doveri. In altri termini "l'ordinamento militare, senza che la sua connotazione di sistema imperniato sul principio di autorità subisca alterazioni snaturanti, riconosce spazi di libertà individuale durante i quali i vincoli di disciplina si attenuano" e l'attività dei singoli sottosta alle regole della vita civile ed al principio di libertà che le ispira (ad esempio, attraverso le due importanti innovazioni di cui all L. 11 luglio 1978, n. 382, artt. 5 e 12 - contenente norme di principio sulla disciplina militare - riguardanti rispettivamente il consentire al militare l'uso dell'abito civile non solo nei periodi di permesso e di licenza, ma anche, salvo enumerate eccezioni, nella libera uscita; e il prevedere la possibilità per il militare in libera uscita di allontanarsi dalla sede di servizio senza limiti generali di distanza, se non "per imprescindibili esigenze di impiego"); ma, per l'appunto, come testualmente affermato dalla Consulta, i suddetti vincoli "si attenuano", non scompaiono del tutto, sicchè anche durante la libera uscita il militare è pur sempre considerato in servizio e resta soggetto a tutti i propri doveri (tanto più se in territorio estero, come nel caso di specie), per es. quello di astenersi da comportamenti che possano ledere il prestigio dell'istituzione di appartenenza (art. 10 del citato regolamento di disciplina militare) e dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro dell'arma (art. 36 del regolamento), potendo inoltre essere immediatamente e in qualunque momento richiamato in reparto, in caserma o a bordo della nave, per imprescindibili ed urgenti esigenze di servizio (art. 47 del regolamento).
Tali considerazioni risultavano ancor più avvalorate dalla testimonianza che aveva reso il comandante della nave, F., il quale nel definire il concetto di "franchigia" aveva infatti testualmente risposto che "l'orario della franchigia inizia quando si cessa l'orario di lavoro perchè appunto una cosa è il servizio ed una cosa è il lavoro; terminato l'orario di lavoro il personale franco, cioè che fa parte di una delle squadre della nave che viene considerata franca, cioè esente da guardie, può uscire e godere appunto della libera uscita. Nel prosieguo della deposizione il teste, dopo aver affermato che il marinaio in franchigia continua a far parte dell'equipaggio, anche se "non c'è un rapporto organico in quel momento", ha ammesso che il militare può essere punito per mancanze disciplinari anche in relazione a fatti avvenuti durante la franchigia.
A maggior ragione, dunque, nel caso di specie tutti i militari - che del resto potevano fruire della libera uscita in un contesto territoriale assolutamente limitato, in ragione dello sbarco in territorio estero - da un canto erano e dovevano considerarsi "in servizio" anche durante la libera uscita, e dall'altro dovevano perciò tenere anche durante le ore di franchigia un comportamento ancor più rigidamente irreprensibile, perfettamente conforme ai doveri inerenti lo status di militare (tenuto conto fra l'altro della natura anche diplomatica della missione, e della conseguente necessità di tenere alto il prestigio del nostro paese all'estero).
Facendo quindi applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, non poteva dubitarsi che nel caso di specie ricorressero gli estremi per l'applicazione della norma di cui all'art. 2049 c.c., per come interpretato dalle citate pronunce. Il fatto illecito giudicato, infatti, lungi dal collocarsi nell'ambito dell'attività totalmente privata dell'agente "svolta nell'esercizio della personale autonomia dell'autore del danno" e senza il benchè "minimo collegamento" con l'attività istituzionale dell'ente, ovvero essere caratterizzato da "assoluta imprevedibilità ed eterogeneità" rispetto alla suddetta attività, si inseriva nell'ambito di uno dei momenti più qualificanti della campagna di addestramento svolta a bordo del "(OMISSIS)" (ossia il contatto con le popolazioni locali, possibile per l'appunto pressochè esclusivamente attraverso la fruizione della libera uscita). Sicchè l'uscita in franchigia da parte del P. costituì un'estensione del servizio, e rappresentò al contempo la situazione che agevolò o rese comunque possibile - anzi addirittura "in modo decisivo" - la realizzazione dell'illecito.
Certamente - evidenziano i giudici di merito - non si trattò di un evento "assolutamente imprevedibile"; infatti, l'aggressione al sergente D. e gli altri episodi di molestia ai danni dei marinai italiani, accaduti nei giorni precedenti, e il conseguente clima di forte tensione creatosi fra i militari italiani ed i giovani russi del posto, lasciavano agevolmente prevedere la possibilità che alla minima occasione di contatto o alla minima "scintilla", gli italiani (fra l'altro per lo più ragazzi molto giovani e quindi maggiormente esuberanti) avrebbero reagito in modo violento.
Sussisteva, in definitiva, quel "nesso di occasionalità necessaria" fra il fatto dannoso e l'attività di servizio dell'agente, che giustificava l'applicazione del criterio di imputazione della responsabilità civile dei datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2049 c.c..
La valutazione operata dai giudici di merito, aderente alle risultanze processuali, ed i principi di diritto correttamente enucleati e richiamati escludono la fondatezza delle censure del ricorrente responsabile civile appuntate prevalentemente sul rilievo della mancanza di nesso causale tra la condotta illecita del P. e le mansioni svolte dallo stesso a bordo della nave come "panificatore". Tale rilievo, come è stato esattamente ritenuto dai giudici di merito, non assume valenza dirimente in presenza del nesso di occasionalità ed emergendo che non vi fosse imprevedibilità dell'evento.
2.4. E', infine, inammissibile l'ultimo motivo di ricorso.
Il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento del concorso di colpa della vittima ai fini della liquidazione del danno. Orbene, nella specie non si versa in ipotesi di accertamento di reato colposo nella quale il giudice penale può essere chiamato ad accertare la colpa concorrente della parte civile ai fini delle statuizioni civili.
Il giudice penale ha accertato in fatto la sussistenza della provocazione da parte della vittima del reato e - come ha sottolineato la Corte territoriale - non ha liquidato il danno in favore delle costituite parti civili, alle quali ha concesso soltanto una provvisionale, avendo rimesso tale liquidazione al giudice civile, dinanzi al quale il responsabile civile e l'imputato ben potranno far valere la ritenuta provocazione ai fini della determinazione dell'entità del risarcimento.
3. All'inammissibilità del ricorso proposto da P.G. consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del predetto ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 1.000 alla cassa delle ammende.
Il responsabile civile (Ministero della Difesa), a seguito del rigetto del ricorso, deve essere condannato al pagamento delle spese processuali. Come è stato in più occasioni affermato, la disposizione di cui all'art. 616 c.p.p. è applicabile per la soccombenza anche ove il ricorrente sia l'amministrazione statale (S.U. n. 34559, 15/10/2002; Sez. 3, n. 48484, 22/10/2003).
Entrambi i ricorrenti, P.G. e responsabile civile (Ministero della Difesa), devono essere condannati alla refusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che la Corte liquida nella somma complessiva di Euro 2.300,00 (duemilatrecento), oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
PQM
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto da P.G. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 1.000 alla cassa delle ammende.
Rigetta il ricorso proposto dal responsabile civile (Ministero della Difesa) che condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna i ricorrenti P.G. ed il responsabile civile alla refusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida nella somma complessiva di Euro 2.300,00 (duemilatrecento) oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2011.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2011
30-01-2014 22:52
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