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Sentenza

Tenente colonnello della Guardia di Finanza offende il prestigio e la dignità di...
Tenente colonnello della Guardia di Finanza offende il prestigio e la dignità di un tenente appellandolo, con tono di disprezzo e dileggio, «tenentino». Condannato.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 3 marzo – 22 maggio 2015, n. 21509
Presidente Di Tomassi – Relatore Posta

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 23.11.2013 La Corte militare di appello confermava la decisione con la quale il Tribunale militare di Verona condannava C.M.D.P., con le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione militare, con i doppi benefici, per il reato di ingiuria ad inferiore perché, nella qualità di tenente colonnello della Guardia di Finanza, in occasione della notifica dell'atto amministrativo di revoca della concessione dell'alloggio di servizio che aveva in uso, offendeva il prestigio e la dignità del tenente T.E. appellandolo, con tono di disprezzo e dileggio, «tenentino» )
2. Ha proposto ricorso per cassazione il D.P., a mezzo dei difensore di fiducia.
Con il primo motivo di ricorso denuncia il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della prova che l'imputato avesse pronunziato la frase in contestazione, tratta esclusivamente dalle dichiarazioni della persona offesa - che, peraltro, nel corso delle indagini aveva riferito circostanze parzialmente diverse in ordine al momento in cui la frase era stata pronunciata - e dalle circostanze riferite da due testimoni i quali hanno ammesso di trovarsi lontani dal punto in cui era avvenuta la discussione tra l'imputato ed il tenente. Di contro, non è stata adeguatamente valutata la deposizione dell'appuntato scelto T., testimone del tutto disinteressato, che ha decisamente escluso che l'imputato avesse pronunciato l'espressione contestata e che, diversamente da quanto ricostruito, si trovava nel posto in cui è accaduto il fatto, ossia all'interno del corpo di guardia o all'ingresso dello stesso.
Con il secondo motivo si contesta il vizio della motivazione avuto riguardo alla configurabilità del reato di ingiuria4dì inferiore con specifico riferimento alla mancata o insufficiente valutazione della condotta materiale posta in essere dalla persona offesa, tenente T.E., nei confronti dell'imputato all'atto della notifica del provvedimento amministrativo. La Corte ha erroneamente ritenuto legittime le modalità con le quali il tenente aveva proceduto alla notifica nei confronti del suo superiore, svalutando la condotta oggettivamente aggressiva e irriguardosa dello stesso. Questi, infatti, a fronte dei cortese ripetuto diniego frapposto dall'imputato a ricevere la notifica del provvedimento amministrativo, anziché limitarsi a procedere nei termini previsti dalle norme di procedura civile, redigendo la relazione di notifica attestante l'avvenuto diniego a seguito della quale la notifica del provvedimento raggiunge in ogni caso le finalità di legge, ha impedito addirittura al colonnello di uscire dalla caserma e lo ha inseguito all'interno del corpo di guardia reiterando la notifica verbale del provvedimento in maniera ossessiva ed assumendo, quindi, nei confronti del destinatario una condotta incomprensibilmente aggressiva e del tutto ingiustificata. Tali oggettive circostanze escludono sul piano dell'elemento materiale ed, ancor più, sul piano dell'elemento psicologico la qualificazione dell'espressione in contestazione come ingiuria ad inferiore. Non può oggettivamente ritenersi che l'imputato abbia inteso ledere, neppure a titolo di dolo generico, la dignità dei tenente, dovendosi, piuttosto, affermare che intendesse legittimamente riaffermare la propria dignità autorità a fronte di una condotta illegittima, in quanto travalicante le norme di procedura, del tenente che notificava l'atto.
Con l'ultimo motivo di ricorso il ricorrente denuncia il vizio di motivazione in
ordine alla congruità della pena irrogata, non tenuto in alcun conto il contesto nel quale si è verificato il fatto e, in particolare, la condotta tenuta dal tenente nei confronti del superiore al fine di notificare l'atto amministrativo, nonché la limitata portata offensiva dell'espressione utilizzata dall'imputato.

Considerato in diritto

Le censure dei ricorrente in relazione alla prova del fatto e alla configurabilità del reato contestato si sostanziano nella mera riproposizione dei rilievi contenuti nell'atto di appello sui quali il giudici di secondo grado hanno motivato in maniera compiuta, con discorso giustificativo immune dai dedotti vizi ed ancorato alle circostanze di fatto accertate nel processo; così che, il ricorso si pone evidentemente la finalità di una rivalutazione prevalentemente nel merito non consentita nel giudizio di legittimità.
La Corte d'appello ha evidenziato che il tenente T.E. si era adoperato per portare a compimento l'incarico di notificazione al D.P. dell'ordine di rilascio dell'alloggio di servizio che in precedenza l'imputato aveva eluso rifiutando di ricevere la notifica fatta al domicilio; quindi, avendo avuto notizia dei transito dell'ufficiale a bordo della sua autovettura, si era avvicinato per comunicargli il provvedimento. L'imputato era sceso dall'autovettura, si era allontanato di qualche metro ed aveva chiesto i nominativi dei militari presenti ed al T.E., che lo aveva invitato a fermarsi per consentirgli di procedere alla notifica, aveva urlato: «un tenentino vuol dire al colonnello cosa deve fare».
La Corte di merito ha dato atto che tale ricostruzione era stata confermata da due testimoni presenti, il N. ed il P. i quali avevano percepito distintamente la frase pronunciata dall'imputato, ed ha precisato che il testimone T. ha dichiarato di non ricordare l'espressione non avendo potuto ascoltare tutto perché si era allontanato per qualche momento. Pertanto, non emergeva alcun contrasto tra la ricostruzione fornita dalla persona offesa e quanto dichiarato dai testimoni anche in ordine alla circostanza che la frase fosse stata effettivamente pronunciata dall'imputato nel momento in cui il tenente notificava il provvedimento amministrativo.
Quanto alla ricostruzione dei luogo in cui è accaduto il fatto ed alla presenza nel momento in cui era stata pronunciata la frase del testimone T., il ricorrente deduce censure di merito facendo riferimento ad atti e a circostanze riferite dai testimoni che non sono stati allegati al ricorso, né specificamente indicati, con evidente carenza di autosufficienza sul punto.
La configurabilità del reato contestato è stata ritenuta con argomenti logici, valorizzando il contesto nel quale il fatto si è svolto ed il comportamento complessivo tenuto dall'imputato, anche nei giorni precedenti, conducente della valenza dispregiativa della frase pronunciata nei confronti dell'inferiore. Ed è stato, altresì, escluso che l'imputato avesse subìto comportamenti ingiusti o irriguardosi, avendo, invece, egli stesso tentato ripetutamente di sottrarsi alla notifica dell'atto amministrativo a fini dei tutto personali, creando imbarazzo ed oggettive difficoltà nell'attività dell'amministrazione militare.
Correttamente, invero, la Corte di appello ha ritenuto che, ai fini della sussistenza dei reato contestato, non è necessario che il soggetto verso il quale le espressioni sono state rivolte si sia sentito offeso, in quanto il reato si perfeziona nel momento in cui l'agente rivolge ad un militare di grado inferiore una frase lesiva dei decoro e dell'onore dello stesso, senza che sia necessaria la volontà di ingiuriare, trattandosi di delitto punibile a titolo di dolo generico e volto a tutelare sia la dignità morale della persona, sia il bene indisponibile della disciplina militare.
Sono manifestamente infondate le doglianze in ordine al trattamento sanzionatorio, atteso che la Corte di appello ha confermato la dosimetria della pena, ritenuta congrua in quanto prossima al minimo edittale e ridotta nella misura massima per le circostanze attenuanti generiche, dando atto dei deplorevole contegno tenuto dall'imputato in presenza di militari e degli atteggiamenti sgradevoli dei giorni precedenti.
Alle suddette valutazioni consegue l'inammissibilità dei ricorso che comporta per legge, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma ritenuta congrua di euro 1.000,00 (mille) in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.
Avv. Antonino Sugamele

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