Ufficiale dell'esercito gestore della mensa gestisce con scarsa diligenza l'erogazione dei buoni pasto con ciò causando un maggiorato rimborso del corrispettivo spettante alla ditta fornitrice del servizio mensa.
T.A.R. sez. I Roma , Lazio 14/04/2015 ( ud. 04/03/2015 , dep.14/04/2015 ) Numero: 5419
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3304 del 2011, proposto da:
Gi. Fo., rappresentato e difeso dagli avv. Carlo Guglielmo Izzo e
Adriano Izzo, con domicilio eletto presso l'avv. Carlo Guglielmo Izzo
in Roma, viale B. Buozzi, 47;
contro
Ministero della Difesa, rappresentato e difeso per legge
dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei
Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del decreto del 04.03.11 con il quale veniva irrogata al ricorrente
la sanzione disciplinare della sospensione dall'impiego per mesi
dieci.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 marzo 2015 il dott.
Salvatore Mezzacapo e uditi per le parti i difensori come specificato
nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
Fatto
FATTO e DIRITTO
Con foglio in data 27 maggio 2010 il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito ha ordinato nei confronti dell'odierno ricorrente, nonché di altri militari, l'inizio di una inchiesta formale disciplinare poiché avrebbero, in concorso tra loro, nelle rispettive qualità, percepito da rappresentanti di una ditta, che svolgeva il servizio di fornitura pasti, somme di denaro per compiere atti contrari ai doveri di ufficio e, specificatamente, perché avrebbero fatto risultare la consumazione, presso la mensa dei rispettivi reparti, di un numero di pasti, somministrati dalla ditta in questione, superiore a quello reale.
Il detto procedimento disciplinare traeva origine dal procedimento penale promosso dalla Procura della Repubblica di Verona a carico del ricorrente e degli altri militari per il reato di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio. Il procedimento penale si definiva per il ricorrente con sentenza del Tribunale di Roma in data 11 novembre 2009 con cui si dichiarava non doversi procedere a carico dello stesso per essersi il reato ascritto estinto per prescrizione.
L'inchiesta disciplinare si concludeva con proposta di deferimento del ricorrente al giudizio del Consiglio di disciplina il quale ha giudicato il ricorrente meritevole di conservare il grado. La Direzione generale per il personale militare ha quindi proposto la sanzione di 10 mesi di sospensione disciplinare dall'impiego del ricorrente.
Di qui, infine, il decreto del Direttore generale della detta Direzione generale con cui è disposta la sospensione disciplinare del ricorrente dall'impiego per mesi 10 con la seguente motivazione: "ufficiale dell'Esercito, in qualità di rappresentante dell'amministrazione militare presso la mensa dell'11° battaglione "Flaminia" in Roma, gestiva con scarsa diligenza l'erogazione dei buoni pasto, con ciò causando un maggiorato rimborso del corrispettivo spettante alla ditta fornitrice del servizio mensa. Tale comportamento è contrario ai principi che devono improntare l'agire di un ufficiale ed in particolare al senso di responsabilità, ai doveri attinenti al giuramento prestato, al grado rivestito nonché ai doveri di correttezza ed esemplarità propri dello status di ufficiale, manifestandosi, inoltre, lesivi del prestigio dell'istituzione".
Avverso la detta sanzione è dunque proposto il presente ricorso a sostegno del quale si deduce, innanzitutto, violazione di legge per essere stato il ricorrente sanzionato per un fatto diverso da quello contestato. Lamenta inoltre il ricorrente violazione del diritto di difesa per essere stato allo stesso assegnato un termine a difesa inferiore a quello prescritto. Ancora è censurata la scelta dell'amministrazione di aver inflitto una sanzione disciplinare di stato in luogo di una sanzione disciplinare di corpo. Si deduce quindi ulteriore profilo di violazione di legge ed eccesso di potere per essere state utilizzate fonti di prova inutilizzabili e, da ultimo, eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di motivazione e omesso esame delle prove dedotte dal ricorrente.
Si è costituita in giudizio l'intimata amministrazione affermando la infondatezza del proposto ricorso e concludendo perché lo stesso venga respinto.
Con ordinanza n. 2586 del 2011 veniva respinta da questa Sezione l'istanza cautelare proposta dal ricorrente.
Con ordinanza n. 4107 del 2011 la IV Sezione del Consiglio di Stato ha quindi respinto l'appello avverso l'ordinanza di primo grado.
Alla pubblica udienza del 4 marzo 2015 il ricorso viene ritenuto per la decisione.
Il ricorso non è fondato e va, pertanto, respinto.
Ad avviso del Collegio, infatti, la lettura della documentazione prodotta dalle parti permette di evidenziare la correttezza del percorso svolto dall'Amministrazione e che ha condotto alla decisione disciplinare qui impugnata, emergendo dunque l'infondatezza delle censure dedotte dal ricorrente.
Preliminarmente la Sezione deve ricordare che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione per discostarsi, nel procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti (ivi compreso il personale militare), l'Amministrazione è titolare di un'ampia discrezionalità in ordine alla valutazione dei fatti addebitati al dipendente, circa il convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e sulla conseguente sanzione da infliggere: ciò in considerazione degli interessi pubblici che devono essere - attraverso tale procedimento - tutelati. A ciò consegue che il provvedimento disciplinare sfugge ad un pieno sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, non potendo in nessun caso quest'ultimo sostituire le proprie valutazioni a quelle operate dall'Amministrazione, salvo che le valutazioni di questa siano inficiate da travisamento dei fatti ovvero il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14 febbraio 2008 n. 512, Sez. IV, 21 agosto 2006 n. 4841, 30 giugno 2005 n. 3544 e 16 gennaio 1990 n. 21) ovvero sia inficiato da palese irrazionalità (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30 gennaio 2005 n. 3544), il che non è nel caso di specie.
Non va poi sottaciuto che, atteso che l'odierno ricorrente è stato prosciolto per intervenuta prescrizione del reato di corruzione allo stesso contestato, l'art. 653, primo comma, c.p.p., nel testo emendato dall'art. 1 della legge n. 97 del 2001, afferma che "la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle Pubbliche autorità quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso". Ciò significa che una questione disciplinare non può essere posta soltanto quando, in sede penale, abbia avuto luogo un proscioglimento con formula ampia, cioè quando i fatti esaminati nella sentenza penale sono definiti come storicamente inesistenti oppure la sentenza ricostruisce la condotta materiale o l'elemento psicologico in modo tale da collocare con sicurezza gli episodi esaminati al di fuori delle fattispecie disciplinari. Lo stesso non può, evidentemente, dirsi nel caso in cui si verta su fatti oggetto di procedimenti penali archiviati, in quanto il decreto di archiviazione esprime sì valutazioni afferenti al profilo penale, ma ciò non ne preclude l'apprezzamento in sede disciplinare (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2005 n. 6944).
L'Amministrazione, quindi, ben può, come legittimamente ha fatto nel caso di specie, attivare un procedimento disciplinare nei confronti del proprio dipendente laddove il relativo processo penale si sia concluso con sentenza dichiarativa di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 giugno 2000 n. 3156) ed in sede disciplinare, l'accertamento amministrativo deve avvenire in maniera del tutto autonomo rispetto alle risultanze penali, procedendo, in particolare, autonomamente alla cognizione del fatto, alla sua qualificazione ed alla determinazione della sanzione disciplinare (cfr., ex multis, T.A.R. Lazio, Sez. II, 20 ottobre 2004 n. 12431).
È appena da osservare, poi, che l'Amministrazione procedente è sì tenuta, in sede disciplinare, ad un autonomo accertamento dei fatti, ma ben può tener conto delle risultanze processuali acquisite nel giudizio penale in modo da modulare sulle stesse l'istruttoria amministrativa, sì da evitare accertamenti non giustificati, perché già provati, alla luce del principio d'economia del procedimento (cfr., per tutti, Cons. Stato, Sez. VI, 6 ottobre 2005 n. 5420).
Del resto, è bene ricordarlo, nella sentenza che nella specie dichiara la estinzione del reato perché prescritto, il Tribunale di Roma osserva che "senza l'audizione dei testi, senza le giustificazioni degli imputati, in assenza di elementi di fatto idonei a dimostrare in modo inequivocabile la correttezza dei prevenuti e/o quanto meno l'irrilevanza penale del loro operato, non è possibile ricavare dai soli frammentari atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento la "prova evidente" che gli odierni imputati non abbiano commesso i fatti loro scritti o che gli stessi non sussistano o ancora che gli stessi non costituiscano reato.".
Quanto sopra rilevato consente quindi di ritenere innanzitutto legittima la stessa determinazione dell'amministrazione di avviare un sia pur autonomo procedimento disciplinare a carico del ricorrente per quanto incontestabilmente "originato", sul piano fattuale, dal procedimento penale citato, sia pure definito con proscioglimento per prescrizione del reato ascritto.
In altri termini, ben poteva l'amministrazione, muovendo quale antecedente logico dal richiamato procedimento penale, promuovere il procedimento disciplinare quindi conducente alla sanzione in questa sede avversata.
Quanto sopra rilevato, peraltro, consente di ritenere insussistenti le doglianze di parte ricorrente che, sia pure da ultime formulate in sede di ricorso (quarto e quinto motivo di ricorso), investono la sanzione avversata per avere la resistente amministrazione comunque utilizzato nel procedimento disciplinare di cui è questione gli atti del procedimento penale e segnatamente la sentenza di prescrizione del Tribunale di Roma e le ordinanze cautelari del Tribunale di Verona e del Tribunale in sede di riesame di Venezia. Va, di contro, osservato che legittimamente l'amministrazione ha nella specie proceduto all'autonomo e distinto apprezzamento di fatti e circostanze nella comunque dovuta considerazione (sia pure non in termini di meccanicistica consequenzialità) di quanto emerso in sede di procedimento penale. Del resto, la decisione finale in esito al procedimento disciplinare risulta fondarsi anche sugli atti propri di detto procedimento, in primis la verbalizzazione delle dichiarazioni assunte agli atti dell'inchiesta dall'ufficiale inquirente. E le stesse considerazioni di cui sopra consentono anche di ritenere non illogica e non irrazionale la sanzione in concreto irrogata, alla cui determinazione ha indubbiamente concorso la valutazione di quanto rappresentato dall'incolpato, il quale non a caso è stato preliminarmente ritenuto meritevole di conservare il grado e al quale la sanzione della sospensione è stata inflitta comunque per mesi 10 rispetto ad un massimo teorico di mesi 12. Non può che ribadirsi allora l'assunto di base per cui in sede disciplinare, posto che l'Amministrazione dispone di un ampio potere discrezionale nell'apprezzare autonomamente la rilevanza dei fatti contestati, il sindacato giurisdizionale sul provvedimento adottato deve essere limitato alla legittimità dell'azione amministrativa, attraverso la verifica se il procedimento sia supportato da adeguata motivazione ed approfondimento dei risvolti emersi in sede disciplinare. Motivazione e approfondimento che, nella specie, risultano pienamente sussistenti. Del resto, il provvedimento disciplinare è adeguatamente motivato per relationem con richiamo all'iter di formazione della volontà e alle conclusioni del consiglio di disciplina nella relativa deliberazione; pertanto, non è necessario esternare anche le specifiche ragioni che hanno indotto l'Autorità procedente ad aderire alla suddetta deliberazione qualora la stessa precisi nel provvedimento di non ravvisare ragioni per discostarsene. E comunque la proporzionalità della sanzione avuto riguardo ai fatti addebitati e accertati in capo al dipendente è frutto di una valutazione discrezionale suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici, nella specie - in ragione di quanto già osservato - non ricorrenti.
Delineato il complessivo quadro di riferimento, osserva il Collegio, con riferimento ora ai motivi di ricorso che investono profili più specifici e puntuali e in particolare con riferimento al primo motivo di ricorso con cui in sostanza il ricorrente lamenta di essere stato sanzionato per condotte diverse da quelle oggetto della contestazione di addebito, che, in tema di procedimento disciplinare, premesso che l'Amministrazione deve contestare con immediatezza tutti i fatti di cui sia a conoscenza, la stessa, una volta instaurato il procedimento, può contestare fatti nuovi prima non conosciuti (notificando un nuovo atto di contestazione degli addebiti), ovvero dare ai fatti già contestati una diversa qualificazione, anche qualora tale nuova qualificazione possa portare all'applicazione di una sanzione più grave rispetto a quella inizialmente ipotizzata dall'organo che ha attivato il procedimento, ovviamente garantendo sempre all'incolpato la possibilità di utilizzare in sede procedimentale adeguati strumenti di difesa (cfr. T.A.R. Milano, Sez. III, 27 febbraio 2012 n. 630).
Ciò premesso, va rilevato che, nella specie, l'atto di contestazione degli addebiti riguarda l'ipotizzata percezione da parte del ricorrente di somme di denaro per compiere atti contrari ai propri doversi di ufficio (in particolare facendo risultare la consumazione di un numero di pasti superiore a quello reale), mentre il provvedimento con il quale viene disposta l'irrogazione al ricorrente della sanzione disciplinare della sospensione dall'impiego si basa sulla ritenuta contrarietà ai principi che governano l'agire di un ufficiale della condotta da questi tenuta nel gestire con scarsa diligenza l'erogazione dei buoni pasto, con ciò causando un maggiorato rimborso del corrispettivo spettante alla dotta fornitrice del servizio mensa.
Ponendo a raffronto i fatti contenuti nella formale contestazione degli addebiti con quelli posti a fondamento dell'irrogazione della sanzione disciplinare della censura, non si ravvisa, contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente, alcuna violazione del principio di necessaria corrispondenza tra la contestazione e i fatti sanzionati.
Principio, questo, che va inteso nella sua corretta accezione, riguardando il principio di corrispondenza tra i fatti contestati e quelli sanzionati (che assume rilievo primario nel procedimento disciplinare e comporta, a garanzia del diritto dell'incolpato al contraddittorio difensivo, che questi non possa essere punito per mancanze non previamente contestate) solo il quadro fattuale, non essendo l'Amministrazione procedente vincolata alla qualificazione giuridica ed al rilievo disciplinare degli addebiti operata in sede di avvio del procedimento disciplinare (Consiglio Stato - Sez. IV - 10 agosto 2007, n. 4393 nonché T.A.R. Lazio, Sez. I, 8 novembre 2010 n. 33260).
Ciò premesso, dal raffronto tra la parte motiva del provvedimento con il quale viene stabilita l'irrogazione al ricorrente della sanzione della sospensione e gli addebiti contenuti nell'atto di contestazione, si evince come la sanzione sia stata irrogata in puntuale connessione con il nucleo dei fatti a suo tempo contestati al ricorrente, il quale è stato comunque sanzionato in relazione a comportamenti ben individuati nell'atto di contestazione e a cui specificamente si riferisce la comminata sanzione.
Deve conseguentemente escludersi che la sanzione si fondi su circostanze e condotte del ricorrente estranee a quelle prese in considerazione in fase di addebito, dovendo peraltro ribadirsi che il principio di specifica contestazione preventiva degli addebiti e quello di necessaria corrispondenza fra fatti contestati e quelli addotti a sostegno della sanzione disciplinare, posti in funzione di garanzia dell'incolpato, non escludono modificazioni dei fatti contestati concernenti circostanze non configuranti una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella addebitata.
E infatti, nella specie, la denunciata modificazione non è stata in peius, quanto piuttosto in direzione di addebiti (poi ritenuti effettivamente sussistenti) meno gravi, sul piano della qualificazione giuridica, rispetto all'impostazione originaria di cui alla formale e iniziale contestazione.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione del diritto di difesa dell'incolpato per essere stati concessi al ricorrente solo due giorni per predisporre ulteriori memorie e poter presentare ulteriori documenti, in luogo dei dieci previsti dalle procedure vigenti in ambito militare. La censura è infondata in punto di fatto dovendosi rilevare, ripercorrendo sul punto lo stesso motivo di ricorso in esame, che in data 19 maggio 2010 l'ufficiale inquirente - nel dichiarare chiusa l'istruttoria formale - invitata gli inquisiti a "prendere nuovamente visione degli atti entro il 19 luglio 2010 ed a produrre, entro il 21 luglio 2010, le proprie ulteriori argomentazioni a discolpa...". È stata quindi assegnato un ben più largo termine agli inquisiti (dal 19 maggio al 19 luglio 2010, quindi 60 giorni) per poter prendere nuovamente visione degli atti e un termine ancor più lungo (il 21 luglio, dunque ancora due giorni in più) per produrre ulteriori argomentazioni. Quindi, prestando attenzione al meccanismo delineato, non si tratta dell'assegnazione di soli due giorni per produrre deduzioni difensive finali, ma di ben 62 giorni per detto eventuale adempimento di interesse dell'incolpato, essendo evidente che nessuno obbligava l'inquisito a prendere visione degli atti l'ultimo giorno utile così residuando due soli giorni per le deduzioni, laddove una condotta minimamente diligente avrebbe consigliato (per come peraltro avvenuto) all'inquisito di provvedere (nel suo interesse) quanto prima alla consentita visione degli atti per poi operare deduzioni difensive ulteriori. Peraltro, giova anche osservare che trattasi della cd. seconda visione degli atti dell'inchiesta.
Del pari infondato è il terzo motivo di ricorso con cui il ricorrente lamenta l'adozione, nella specie, di una sanzione di stato laddove avrebbe dovuto essere irrogata una sanzione di corpo.
Va osservato che la potestà sanzionatoria disciplinare è una, con la conseguenza che una medesima condotta non può essere sanzionata, in cumulo, da una sanzione di corpo e da una di stato, dovendovi essere tra le due sanzioni un rapporto di necessaria alternatività. Ciò posto, le sanzioni di corpo sono legittimamente irrogabili soltanto con riferimento a condotte per le quali, per la loro tenue gravità e circoscritta risonanza, si possa con tutta certezza escludere la punibilità con una sanzione di stato. In altri termini, le sanzioni di corpo devono essere irrogate esclusivamente per fatti la cui rilevanza disciplinare rimanga interna all'istituzione militare, laddove le sanzioni di stato rispondono ad interessi più generali dello Stato-comunità. Ne consegue che a queste ultime deve farsi ricorso ogniqualvolta il fatto abbia un rilievo, come nella specie, anche esterno all'istituzione,
tale da inficiare il rapporto di fiducia sul quale è fondato il rapporto d'impiego/servizio del militare.
Non a caso nel provvedimento impugnato è espressamente detto che la sanzione di stato è nella specie giustificata dal grave disvalore disciplinare rivestito dal comportamento tenuto dal ricorrente.
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il ricorso in esame va respinto siccome infondato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
PQM
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore della resistente amministrazione che liquida in euro 1.500,00 (millecinquecento/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 marzo 2015 con l'intervento dei magistrati:
Silvio Ignazio Silvestri, Presidente
Salvatore Mezzacapo, Consigliere, Estensore
Floriana Rizzetto, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 14 APR. 2015.
07-09-2015 15:26
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