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Sentenza

Avieri del 6° stormo offendono il prestigio, l'onore e la dignità di due appunta...
Avieri del 6° stormo offendono il prestigio, l'onore e la dignità di due appuntati dei carabinieri con le espressioni: Se ti togli questa cazzo di divisa, ti faccio a pezzi, ti spacco la faccia.
Cassazione penale, sez. I, 23/10/2013, (ud. 23/10/2013, dep.03/12/2013),  n. 48159
                        LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                        SEZIONE PRIMA PENALE                         
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
Dott. SIOTTO   Maria Cristina  -  Presidente   -                     
Dott. CAIAZZO  Luigi Pietro    -  Consigliere  -                     
Dott. ROMBOLA' Marcello        -  Consigliere  -                     
Dott. MAZZEI   Antonella  -  rel. Consigliere  -                     
Dott. ROCCHI   Giacomo         -  Consigliere  -                     
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                        
sul ricorso proposto da: 
             F.F., nato a (OMISSIS); 
avverso  la  sentenza in data 18 luglio 2012 della Corte militare  di 
appello di Roma nel proc. n. 47/2012; 
Letti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; 
sentita,  nella  pubblica udienza del 23 ottobre 2013,  la  relazione 
svolta dal Consigliere Dr. Antonella Patrizia Mazzei; 
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto 
Procuratore Generale Militare, Dott. Flamini Luigi Maria, il quale ha 
chiesto il rigetto del ricorso. 
udito   il   difensore  dell'imputato,  avvocato  Faiola  Franca   in 
sostituzione   dell'avvocato   Congedo   Carlo,   che   ha    chiesto 
l'accoglimento dei motivi di ricorso. 
                 


Fatto
RITENUTO IN FATTO

1. La Corte militare di appello, con sentenza del 18 luglio 2012, in parziale riforma della sentenza del Tribunale militare di Verona in data 10 novembre 2011, previa riqualificazione del fatto contestato come concorso nel reato di insubordinazione con ingiuria (e non di insubordinazione con minaccia secondo l'originaria imputazione avallata dal giudice di primo grado), ha ridotto la pena inflitta a F.F. e P.A., con le già riconosciute attenuanti generiche dichiarate prevalenti sull'aggravante del grado militare rivestito dagli imputati, a mesi uno e giorni undici di reclusione militare per ciascuno.

F.F. e P.A. sono stati ritenuti responsabili, nella loro qualità di avieri capo in servizio presso il 6 stormo dell'Aeronautica militare in (OMISSIS) (provincia di Brescia), del reato previsto dagli artt. 81 e 110 c.p., art. 189 c.p.m.p., comma 2, e art. 47 c.p.m.p., n. 2, perchè, in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e per cause non estranee al servizio e alla disciplina, offendevano il prestigio, l'onore e la dignità dell'appuntato scelto dei carabinieri, A.L., e dell'appuntato dei carabinieri, Pi.To., con le espressioni: "Se ti togli questa cazzo di divisa, ti faccio a pezzi, ti spacco la faccia" (pronunciata dall'aviere capo F. in direzione dell'appuntato Pi.);

"Sta cazzo di divisa, se non ce l'avevate addosso, vi faccio vedere io" (pronunciata dall'aviere capo P. in direzione sia dell'appuntato scelto A. che dell'appuntato Pi.);

"Questa cazzo di divisa se la togli per un secondo, ti faccio vedere io" (pronunciata dall'aviere capo F. in direzione dell'appuntato scelto A.); in (OMISSIS).

Per quanto rileva in questa sede, la Corte militare di appello ha, innanzitutto, respinto l'eccezione di nullità dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari e di tutti gli atti ad esso conseguenti, ivi compreso il decreto che aveva disposto il giudizio, e ha confermato, sul punto, la decisione del Tribunale militare di cui all'ordinanza del 10 novembre 2011, impugnata insieme alla sentenza.

Ad avviso della Corte, gli atti denunciati dalla difesa come illegittimamente acquisiti ai sensi dell'art. 430 c.p.p., ovvero la relazione di indagine del 1 agosto 2011 a firma del Capitano della stazione dei Carabinieri di Verolanuova; la relazione di intervento del 26 maggio 2009 a firma dei militari, A. e Pi., persone offese dal reato; e la relazione di intervento del 27 maggio 2009, a firma dei carabinieri, Pu. e C., chiamati in ausilio dai primi al momento del fatto; ebbene, tutti i predetti atti costituivano mere prove documentali, rappresentative degli accertamenti svolti, senza alcun contenuto di qualificazione e valutazione dei fatti rilevati e dei loro autori, e non integravano pertanto documentazione di attività investigativa disponibile anche prima della chiusura delle indagini preliminari, come sostenuto dalla difesa, la quale ne aveva eccepito l'illegittimo deposito come attività integrativa di indagine e l'illegittima acquisizione come documenti al fascicolo per il dibattimento, poichè gli imputati non erano stati messi nelle condizioni di valutarli tempestivamente anche ai fini dell'eventuale richiesta di riti alternativi, con lesione del loro diritto di difesa.

A sostegno, invece, della ritenuta legittimità dell'acquisizione delle predette relazioni, la Corte militare di appello ha anche richiamato il principio della ricerca della verità quale principale obiettivo del processo penale, indipendentemente dalle vicende processuali che potrebbero determinare la decadenza della parte dal diritto alla prova, come avvalorato dalla disciplina prevista dall'art. 507 c.p.p. che legittima l'acquisizione di atti che, altrimenti, in applicazione delle rigide regole in tema di decadenza, non potrebbero validamente entrare nel fascicolo dibattimentale.

Nel merito, la Corte militare di appello ha ritenuto che il reato non fosse stato commesso per causa estranea al servizio e alla disciplina militare.

Il fatto si era verificato nel frangente in cui il F. e il P., insieme ad altri due amici, a loro volta militari non in servizio, e ad una donna, erano seduti al bar "(OMISSIS)", in (OMISSIS); gli imputati, in stato di alterazione alcoolica, si esibivano in sberleffi e pernacchie, che furono percepiti dai Carabinieri, A. e Pi., in servizio di pattugliamento, i quali procedettero pertanto al controllo degli esagitati avventori; il F. e il P., irritati dal controllo subito, si qualificarono immediatamente come Avieri dell'Aeronautica militare e inveirono contro i Carabinieri, impegnati nella loro identificazione, con le espressioni offensive come sopra contestate.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il solo F. tramite il difensore, avvocato Carlo Congedo, il quale deduce due motivi di ricorso.

2.1. Con il primo denuncia, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), l'erronea applicazione della legge penale e, in particolare, dell'art. 189 c.p.m.p., comma 2, e art. 199 c.p.m.p., in relazione alla L. 11 luglio 1978, n. 382, art. 5 (Norme di principio sulla disciplina militare) e al D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, art. 8 (Approvazione del regolamento di disciplina militare), l'uno e l'altro abrogati dal D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento militare), il cui art. 1350 corrisponde alla predetta L. n. 382 del 1978, art. 5.

Ripercorrendo la giurisprudenza costituzionale in materia (richiamata ordinanza n. 367 del 2001 del Giudice delle leggi) e la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (sentenza n. 16413 del 2005) che ha riconosciuto la clausola di esclusione del reato, di cui all'art. 199 c.p.m.p., nel caso di un militare in licenza e in abiti civili che, in stato di ebbrezza alcoolica, aveva inveito all'indirizzo di appartenenti all'Arma dei carabinieri, intervenuti in un locale pubblico su segnalazione di alcuni avventori, il ricorrente ha sottolineato la sussistenza, anche nel caso di specie, degli elementi della causa estranea al servizio o alla disciplina militare, sottolineando, in particolare, che il documento esibito dal F., su richiesta dei carabinieri, fu la patente di guida e non il tesserino militare, al punto che i verbalizzanti ravvisarono, come da iniziale indicazione nel verbale di identificazione, il reato comune di cui all'art. 336 c.p., apprendendo solo il giorno successivo che il F. era un militare; l'intervento dei verbalizzanti presso il bar "(OMISSIS)" di (OMISSIS), inoltre, fu espressione delle loro ordinarie funzioni di garanzia dell'ordine pubblico, senza alcuna attinenza al rapporto gerarchico con l'imputato; le frasi contestate, semmai proferite, furono conseguenza del comportamento non conveniente dei militari dell'Arma, A. e Pi., e comunque dovevano considerarsi avulse da qualsiasi contesto militare e prive di collegamento con il rapporto gerarchico tra imputati e persone offese.

Illogica sarebbe l'attribuzione, in sentenza, di credibilità ai soli carabinieri offesi e non anche agli altri testimoni che erano in compagnia degli imputati al momento del fatto, le cui dichiarazioni sarebbero state ingiustamente definite come "lacunose e compiacenti";

in ogni caso, lo stesso A. avrebbe ammesso di non aver visto il tesserino militare del F., ma di averlo identificato sulla base della sola patente di guida; lo specchiato curriculum professionale dei militari offesi non sarebbe dissimile da quello del presunto autore del reato, F., militare in carriera dal 20 giugno 2002, con una condotta ineccepibile, sicchè il credito riconosciuto ai primi avrebbe dovuto essere attribuito anche al secondo.

2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), per l'illegittima equiparazione alle prove documentali delle relazioni di polizia, descrittive dell'attività di indagine svolta dai verbalizzanti, e la violazione dell'art. 430 c.p.p., in relazione all'art. 415 bis e art. 178, comma 1, lett. c): le predette relazioni non costituivano attività integrativa di indagine ed erano disponibili già prima della chiusura delle indagini preliminari, sicchè il loro omesso deposito e, ciononostante, la loro utilizzazione per la decisione integrerebbero violazione dei predetti art. 415 bis e art. 178, comma 1, lett. c), essendo stata preclusa all'imputato l'integrale conoscenza degli atti di indagini in tempo utile per l'eventuale richiesta di riti alternativi con la conseguente compromissione del suo diritto di difesa.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non merita accoglimento.

1.1. Va anteposto l'esame del secondo motivo, prioritario nell'ordine logico giuridico, perchè deduce la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e di tutti gli atti conseguenti, per omesso deposito integrale degli atti raccolti nelle indagini preliminari.

Come si è detto, il ricorrente assume che il mancato inserimento, nel fascicolo depositato a norma dell'art. 415 bis c.p.p., delle relazioni di servizio sull'attività espletata dai verbalizzanti, in occasione dell'accertamento dei reati denunciati e dell'identificazione dei loro presunti autori, avrebbe limitato il diritto di difesa e integrerebbe pertanto una nullità che si estenderebbe a tutti gli atti successivi.

La censura è infondata.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il mancato deposito, unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, di parte della documentazione relativa alle indagini espletate non è causa di nullità della richiesta stessa, ma comporta soltanto l'inutilizzabilità degli atti non trasmessi (Sez. 4, n. 47497 del 19/11/2008, dep. 22/12/2008, Giangrasso, Rv. 242762; conformi: n. 4108 del 1996 Rv. 204434, n. 4707 del 1999 Rv. 213025, n. 18362 del 2002 Rv. 221444, n. 33067 del 2003 Rv. 226651, n. 21376 del 2004 Rv.

228990).

Discende, nel caso in esame, che il preteso tardivo deposito delle relazioni di servizio, peraltro neppure specificate per data e contenuto, non è sanzionato dalla nullità di tutti gli atti successivi all'avviso previsto dall'art. 415 bis c.p.p., ma solo dalla inutilizzabilità di quelle relazioni; ma la lettura delle sentenze di merito rivela che la dichiarata responsabilità del F. non si fonda sul contenuto di quegli atti tardivamente depositati, bensì sulle testimonianze delle persone offese, i carabinieri A. e Pi., legittimamente acquisite in dibattimento nel contraddittorio delle parti, con la conseguenza che la denunciata inutilizzabilità è rimasta priva di alcuna incidenza sull'impianto probatorio a sostegno della pronunciata condanna.

1.2. Anche l'altro motivo di ricorso, articolato come primo dal ricorrente, è infondato.

Come emerge dal contenuto della sentenza impugnata, sul punto non contestata dal ricorrente, il F., pur libero dal servizio e in abiti civili, nel reagire irosamente, insieme al collega, P., al controllo degli appuntati dei Carabinieri, A. e Pi., si qualificò subito come militare, mostrandosi contrariato, anche per la propria qualifica immediatamente proclamata, dall'intervento degli appartenenti all'Arma, sicchè le espressioni ingiuriose da lui pronunciate si collocarono in un contesto connotato dalla qualità di militari di entrambi gli antagonisti - i controllori di rango gerarchico superiore e gli insofferenti controllati di rango gerarchico inferiore - da ritenersi, quindi, obiettivamente correlato alla tutela della disciplina e del prestigio degli appartenenti a corpi militari e, perciò, integrante il delitto correttamente individuato dai giudici del doppio grado del giudizio di merito in quello contestato di insubordinazione con ingiuria.

E ciò in conformità della giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il reato militare di insubordinazione con minaccia o ingiuria è punibile pur quando il soggetto agente commetta il fatto fuori dal servizio, ove si qualifichi come militare nei confronti dei superiori persone offese (Sez. 1, n. 14351 del 12/03/2008, dep. 07/04/2008, Spano, Rv. 240014).

La circostanza che, in sede di formale identificazione, il F. esibì la patente di guida e non il tesserino militare, e che la condotta degli avieri fu inizialmente qualificata dai verbalizzanti ai sensi dell'art. 336 c.p., non esclude il fatto storico, emerso dalle testimonianze delle persone offese, ritenute attendibili dai giudici di merito con motivato apprezzamento, che il F. si fosse già dichiarato "militare" al cospetto dei suoi controllori, manifestando, anche con l'esibizione di tale qualifica, la propria contrarietà al controllo, accompagnata dalle espressioni ingiuriose contestate.

2. Segue il rigetto del ricorso e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., comma 1, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
PQM
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2013
Avv. Antonino Sugamele

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