Capitano dei Carabinieri imputato di violenza aggravata ad inferiore. Il Gup presso il Tribunale Militare di Roma dichiara il non luogo a procedere perchè già giudicato dalla Corte Militare di Appello. La Cassazione respinge il ricorso della parte civile e del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte militare di appello. .
SENTENZA sui ricorsi proposti: 1) dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte militare di appello, 2) dalla parte civile G. R., nato a G.il ......., avverso la sentenza emessa in data 15/10/2015 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale militare di Roma, nei confronti di B.S., nato a F.il .. Visti gli atti, la sentenza impugnata, i ricorsi; sentita la relazione svolta dal consigliere M.Stefania Di Tomassi; udito il Pubblico Ministero, in persona del Procuratore generale militare, Luigi Maria Flamini, che ha concluso chiedendo la declaratoria d'inammissibilità del ricorso della parte civile e, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al G.u.p. del Tribunale militare di Roma per nuovo esame; udito l'avvocato Remo Pannain per l'imputato, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi. 1 RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale militare di Roma dichiarava non luogo a procedere nei confronti di S. B., imputato del reato di violenza aggravata ad inferiore, ai sensi degli artt. 195, comma primo, e 47, comma primo, nn. 2, 3 e 4, cod. pen. mil . pace, commesso il 15 maggio 2013, per essere stato già giudicato con sentenza della Corte militare di appello in data 15 aprile 2015, irrevocabile il 31 maggio 2015, per il medesimo fatto. Osservava, a ragione, che la contestazione in esame si riferiva alla condotta tenuta dal Capitano B. allorché alle ore 8,15 del 15 maggio 2013, presso gli uffici del Reparto Anticrimine - Raggruppamento operativo speciale Carabinieri di Roma - «dopo essersi avvicinato con fare minaccioso al M.Ilo capo G.R.o, suo inferiore in grado, usava violenza nei confronti dello stesso tentando di spingerlo in dietro con la testa, afferrandolo poi per il collo e schiaffeggiandolo». La stessa vicenda era stata tuttavia oggetto della condanna a sei mesi di reclusione militare inflitta al Bovio, a seguito di giudizio abbreviato, con la sentenza della Corte militare di appello, del 15 aprile 2015, prima richiamata, anche se in quella sede la contestazione era riferita al reato di minaccia ed ingiuria ad inferiore, ai sensi degli artt. 196, commi primo e secondo, cod. pen. mil. pace. In quella sede il B. era stato, difatti, imputato e condannato per avere, nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, pronunciato parole offensive e di contenuto minaccioso nei confronti del G. ed essersi a lui avvicinato «con fare minaccioso per poi continuare ponendoglisi di fronte e tentando di spingerlo con la testa, afferrandolo per il collo». E a prescindere dalla mancata formale evocazione nel capo d'imputazione anche dell'episodio finale dello schiaffo e dalla qualificazione formale della condotta ai sensi dell'art. 196 anziché dell'art. 195 cod. pen. mil . pace, non solo la precedente contestazione già si riferiva a comportamenti violenti, ma la componente violenta della condotta era stata compiutamente esaminata dai precedenti giudici, che pure avevano riferito del «fatto che il B. riuscì ad attingere l'inferiore con uno schiaffo». Inoltre, già in quel giudizio la parte civile aveva chiesto al P.m. e al G.u.p. di procedere alla contestazione del reato concorrente di cui all'art. 195 cod. pen. mil . pace o di disporre l'integrazione delle indagini per tale motivo, e la richiesta era stata respinta senza alcuna iniziativa volta all'apertura di nuovo procedimento. Nessuna analoga iniziativa aveva, quindi, assunto la Corte militare di appello, avverso la cui decisione non era stato proposta impugnazione dalla Procura generale né dalla parte civile. Mentre non poteva di certo incidere la circostanza che, presentata dalla parte civile richiesta di avocazione alla Procura generale per la contestazione del reato di cui all'art. 195 cod. pen. mil . pace, la Procura generale avesse invitato il P.m. a procedere anche, separatamente, per detto reato. 2 2. Hanno proposto ricorso il Procuratore generale presso la Corte militare di appello e la persona offesa, costituita parte civile, Roberto Guerra, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. 3. Il Procuratore generale denunzia violazione dell'art. 649 cod. proc. pen. e del principio ne bis in idem, nonché vizi della motivazione, evidenziando che: - i due procedimenti avviati nei confronti del Bovio (all'esito delle sollecitazioni della parte civile) avevano ad oggetto illeciti diversi per condotta, evento, nesso causale, e oggetto giuridico, i primi non comprendendo l'azione violenta consistita nello schiaffo ed essendo lesivi esclusivamente del patrimonio morale della persona offesa; i secondi includendo lo schiaffo e riferendosi quindi ad azione violenta lesiva della integrità fisica; - la stessa precedente sentenza della Corte di appello che aveva confermato la condanna del Bovio per il reato di ingiuria e minaccia aveva inequivocabilmente definito l'ambito del proprio giudizio e, quindi, del giudicato, evidenziando, a pag. 40, che «il Bovio riuscì ad attingere l'inferiore con uno schiaffo (condotta, questa, non confluita, però, nell'imputazione)»; - anche ammettendo che il capo d'imputazione per cui si procedeva comprendesse condotte oggetto del primo giudizio, quali lo spintonamento con la testa e la presa per il collo, era indubbio che l'azione di schiaffeggiannento, mai prima contestata, si poneva rispetto ad esse come diversa ed ulteriore, e bastava, da sola, ad integrare il reato di violenza ad inferiore, sicché il G.u.p. sarebbe semmai potuto intervenire sulla formulazione inadeguata del capo d'imputazione, ma non sottrarre al vaglio dibattimentale la imputazione per la diversa condotta in argomento; - manifestamente illogici e non conferenti erano i rilievi in ordine alla mancata impugnazione delle sentenze di merito che si erano limitate a condannare il Bovio per il reato di cui all'art. 196 cod. pen. mil . pace, atteso, se non altro, che la Procura generale nulla poteva sapere della ulteriore condotta aggressiva posta in essere dallo stesso prima della sollecitazione all'avocazione avanzata dalla parte civile. 4. Doglianze in massima parte analoghe articola nella sostanza la parte civile, dopo ampia premessa in fatto, in cui illustra nel dettaglio la vicenda di merito movendo larghe critiche all'operato del primo P.m. - che aveva ignorato la denunciata condotta violenta del B. esercitando l'azione penale solo per il reato di minaccia e ingiuria ad inferiore - ed evidenziando come proprio a causa di tale omissione il 28 ottobre 2014 [successivamente alla sentenza di condanna emessa dal G.u.p. a seguito di giudizio abbreviato, in data 19 giugno 2014] la parte civile aveva avanzato richiesta di avocazione alla Procura generale, cui era seguita la nuova imputazione. Denunzia, in particolare, violazione dell'art. 649 cod. pen. e del divieto di bis in 3 idem, perché: - i fatti oggetto del primo e del secondo procedimento non potevano considerarsi i medesimi, il secondo riferendosi a una condotta di schiaffeggiamento non esaminata nel primo, di cui neppure parlava la sentenza di primo grado e che era riportata in quella di appello nei soli termini già evidenziati nel ricorso del P.g.; tale condotta era idonea ad integrare un reato concorrente (si richiama la giurisprudenza che afferma come il divieto di bis in idem non impedisca al giudice di esaminare la stessa vicenda o lo stesso fatto storico al fine di valutarli in relazione a diverso reato in concorso formale con il precedente giudicato); - era per tali ragioni non rilevante che le diverse condotte si fossero realizzate nelle stesse circostante di tempo e luogo; le contestazioni si riferivano a reati non solo nominalmente differenti ma diversi nei loro elementi essenziali, sicché non ostava alla procedibilità per il reato ora contestato neppure l'art. 4 del prot. 7 CEDU, che si riferisce al medesimo reato e non al medesimo fatto storico (si citano Corte EDU sent. Garretta c/Francia del 4 marzo 2008 n. 2529/04 e Zolotukhin c/ Russia del 2009); - avendo avuto il precedente giudizio ad oggetto il solo reato di ingiurie e minacce, non solo lo stesso non si era esteso alla condotta di schiaffeggiamento, ma aveva solo incidentalmente "conosciuto" le condotte materialmente violente, di spintonamento e presa per il collo, poste in essere dal Bovio, che neppure potevano perciò dirsi oggetto di accertamento "diretto"; - peraltro, anche ad ammettere che la violenza fosse stata già vagliata nel precedente giudizio, nulla avrebbe impedito di rivalutarla come elemento costitutivo di un diverso reato, diverso per il bene giuridico tutelato; - nessun rilievo aveva, infine, il riferimento alla omessa impugnazione delle precedenti sentenze di merito per non avere le stesse provveduto su altro reato risultante dagli atti, giacché l'inspiegabile iniziativa del P.m. di limitare la contestazione alle ingiurie e minacce impediva di muovere doglianze nei confronti di decisioni rispettose del principio di corrispondenza tra "chiesto e pronunciato". CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Osserva il Collegio che i ricorsi appaiono nel complesso infondati. 2. La sentenza impugnata si fonda sulla considerazione che si procedeva per lo stesso fatto storico, già oggetto di valutazione nella precedente sentenza irrevocabile di condanna, diversamente qualificato per il titolo di reato, osservando, in particolare: che vi era corrispondenza storico-naturalistica tra i due fatti, le fattispecie concrete commesse dallo stesso imputato ai danni della medesima persona offesa nelle stesse circostanze di tempo e luogo essendo riferite ad eguali condotte, evento (naturalistico) e nesso causale; che i comportamenti aggressivi e le percosse, costituite dalla spinta 4 dell'inferiore in grado con la testa e la sua presa per il collo, seppure considerati quali mere manifestazioni di minaccia piuttosto che alla stregua di atti di vera e propria violenza, erano stati già oggetto di contestazione e condanna nel precedente giudizio; che la sola contestazione dell'ulteriore frammento dell'azione realizzata (anche) con lo schiaffo, ovvero di una ulteriore manifestazione aggressiva, questa volta qualificata alla stregua di violenza, della cui esistenza si era comunque discusso nell'ambito del precedente giudizio, non poteva integrare un fatto diverso idoneo a legittimare il superamento del divieto posto dall'art. 649 cod. proc. pen. Si tratta di rilievi che riposano su una lettura dei fatti e del significato ad essi annesso nel precedente giudizio più che plausibile ed assolutamente corretti in diritto. 3. Non vi è dubbio, infatti, che con la sentenza oramai definitiva il Bovio era stato condannato per una condotta consistita non solo nella pronunzia di frasi oltraggiose e minacciose, ma realizzata anche mediante azioni materiali in senso lato aggressive, quali lo spintonamento e la presa per il collo del denunciante. In tale ambito le richieste avanzate dalla parte civile di diversa qualificazione del fatto, ovvero di integrazione della contestazione, avevano indotto i giudici di merito a prendere atto della circostanza che la condotta del Bovio si era sviluppata anche mediante un'ulteriore manifestazione aggressiva, il cosiddetto schiaffo, ma questo non aveva prodotto nessuna modifica della contestazione formale né determinazioni ai sensi dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. (per l'accertata diversità del fatto). Trattandosi di pronunzia coperta da giudicato, non è questa la sede per valutare la correttezza della decisione, ma, se non altro al fine di confermare l'assoluta plausibilità dell'interpretazione del precedente giudicato ad opera della sentenza impugnata, vale ricordare che nella giurisprudenza di legittimità riferita ai reati comuni è consolidato l'orientamento secondo cui, in tema di minaccia o ingiuria, non può escludersi che la condotta offensiva venga realizzata anche mediante comportamenti "reali", ovverosia mediante manifestazioni di aggressività fisica se le stesse non sono idonee ad integrare anche autonomi fatti di percosse o lesioni perché la violenza esercitata non supera la soglia della "avvertibile entità " (tra molte, Sez. 6, n. 24630 del 15/05/2012, Fiorillo, Rv. 253108). E tali criteri interpretativi, espressione del principio di offensività , appaiono pacificamente esportabili alle previsioni del codice militare di pace, specie ove neppure ricorra la necessità di chiarire la portata dell'art. 43 cod. pen. mil. pace, non risultando che sia stata mai ipotizzato che la condotta complessivamente tenuta dal Bovio fosse riconducibile alla nozione di "maltrattamenti". 4. Sott'altro aspetto, va quindi rilevato che tutte le figure criminose (ingiurie, minaccia, violenza, percosse, lesioni) alle quali si discute sarebbero riconducibili i fatti in esame (Le. la fattispecie concreta), consistono pacificamente in fattispecie 5 (astratte) a condotta solo eventualmente "unisussistente", sicuramente realizzabili (e in concreto certamente per lo più realizzate) anche attraverso una pluralità di atti, in relazione ai quali l'unitarietà del reato dipende esclusivamente dall'essere la condotta, non importa se realizzata con uno o più manifestazioni offensive o aggressive, rivolta, nel medesimo contesto di tempo e spazio, nei confronti della medesima persona offesa. Ne discende, anzitutto, che la tesi della parte civile secondo cui il frammento della condotta offensiva posta in essere nel medesimo contesto dall'imputato sarebbe idonea ad integrare un ulteriore e diverso fatto-reato, è manifestamente infondata. 5. Ma infondata deve ritenersi anche la tesi, sostenuta dal Procuratore ricorrente e dalla stessa parte civile, che a fronte della valorizzazione di un ulteriore frammento di condotta, non sussisterebbe bis in idem perché il fatto-reato successivamente contestato sarebbe da porre in concorso formale con il precedente già giudicato. 5.1. Il fatto che rileva, ai fini del divieto di bis in idem, deve intendersi quello storico-naturalistico, ovverosia l'accadimento materiale che, benché assunto (e conosciuto) secondo una selezione degli elementi che, necessariamente, risponde a criteri normativi, prescinde dall'inquadramento giuridico che di esso si è dato. Militano in tale senso non solo (e non tanto) le pronunzie della Corte EDU a cui, con opposti risultati interpretativi e intenti, fanno riferimento le parti; quanto, e soprattutto, il rispetto dei principi che regolano il nostro ordinamento. 5.2. Con riguardo alle prime, è sufficiente ricordare che la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia (intervenuta a seguito di contrasti manifestatisi tra le sezioni della stessa Corte EDU, sulla portata dell'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU) ha consolidato la giurisprudenza europea nel senso che la medesimezza del fatto si apprezza alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate, nel tempo e nello spazio, alla realizzazione di una certa condotta avente un medesimo oggetto materiale, così superando la tesi, pure sporadicamente affermata, che la "infrazione" sia da ritenere la stessa solo se medesima è anche la fattispecie astratta contestata. Dallo sviluppo successivo della giurisprudenza della Corte EDU non possono trarsi elementi univoci per affermare o negare che nella nozione di bis in idem rientri anche l'evento, sempre, tuttavia, da considerare nella sua esclusiva dimensione materiale. Può, in ogni caso, senz'altro dirsi che, allo stato, la Convenzione EDU impone (soltanto) di riferire il divieto di bis in idem al fatto assunto secondo una concezione naturalistica. Sicché un'interpretazione dell'art. 649 cod. proc. pen. nel senso di assegnare rilievo all'idem legale, ovvero a profili attinenti alla qualificazione giuridica del fatto sarebbe convenzionalmente e costituzionalmente insostenibile perché in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU e, perciò, nel contempo in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. 6 5.3. Tale interpretazione, contrastante con la CEDU, sarebbe, tuttavia, prima ancora in contrasto con i principi fondanti l'ordinamento processuale e con quelli del giusto processo. Vive, difatti, nell'ordinamento interno «il principio di civiltà giuridica, oltre che di generalissima applicazione, in forza del quale chi è stato prosciolto o condannato con sentenza divenuta irrevocabile non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene qualificato diversamente per il titolo, per il grado o per le circostanze» (Corte cost. n. 150 del 1999), a cui offre forma normativa, appunto, l'art. 649 cod. proc. pen. Corte costituzionale (sentenza n. 129 del 2008) e Corte di cassazione (Sez. un. n. 34655 del 28/06/2005, Donelli, Rv. 231799) hanno già dato atto che l'identità del "fatto" sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato: considerato dunque il fatto-reato nei suoi elementi costitutivi di condotta, nesso causale ed evento, sempre ed esclusivamente intesi in senso naturalistico, e con riguardo alle medesime circostanze di tempo, di luogo e di persona. Sicché la scomposizione in differenti reati di un unico fatto non può dipendere né da una esplicita differente qualificazione giuridica del titolo di imputazione della responsabilità penale né dal diverso rilievo dato alla consistenza e direzione dell'offesa e alle sue effettive conseguenze lesive, se tali elementi, già realizzati, erano stati, nella loro materialità , già complessivamente apprezzati e valutati - non interessa se correttamente o non - in termini di effettiva lesività . 5.4. Non rileva, di conseguenza, in questa sede, quell'orientamento della giurisprudenza di legittimità che ritiene in genere non confligente con il divieto di bis in idem il successivo giudizio in relazione al medesimo fatto storico ove a venire in rilievo sia un evento diverso, idoneo ad integrare una differente fattispecie astratta, da ascrivere al paradigma del concorso formale. Ritiene, infatti, il Collegio che la diversità dell'evento che è possibile prendere in considerazione ai fini del superamento del divieto di bis in idem non può dipendere esclusivamente dal diverso apprezzamento in termini giuridici delle conseguenze del reato già versate - e dibattute - nel precedente procedimento: pena la elusione del principio che vieta di procedere una seconda volta per il medesimo fatto storico, e dunque per la medesima condotta e per la medesima offesa intese nella loro "dimensione empirica", e l'adesione a una interpretazione in contrasto con i principi convenzionali e costituzionali prima richiamati. Tanto a prescindere dal rilievo che siffatta lettura pare all'evidenza avvalorata da Corte cost. n. 200 del 2016, che, successivamente alla presente decisione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui - secondo il qui non condiviso diritto vivente orientato in senso formalistico - esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra 7 il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. 6. I ricorsi non possono, in conclusione, che essere rigettati. I canoni di causalità e di soccombenza impongono la condanna della parte civile al pagamento delle spese processuali. Rigetta i ricorsi e condanna la parte civile ricorrente, G. R., al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 15 marzo 2016 Il consigliere tensore Il Presidente
26-11-2016 14:33
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