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Sentenza

Condannato ten. col. dell'esercito per aver rimproverato immotivatamente un sott...
Condannato ten. col. dell'esercito per aver rimproverato immotivatamente un sottoposto, rivolgendogli frasi offensive e gratuitamente denigratorie del tipo ... che cazzo fai... tu non capisci un cazzo...non conosci l'inglese... non riesci neanche a compilare un cazzo di rapportino.
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 15-03-2016) 23-09-2016, n. 39712
 REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE 
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VECCHIO Massimo - Presidente -
Dott. DI TOMASSI Maria Stefani - Consigliere -
Dott. SARACENO Rosa Ann - rel. Consigliere -
Dott. MANCUSO Luigi Fabrizi - Consigliere -
Dott. MINCHELLA Antonio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
R.M., N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 60/2015 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA del 30/09/2015;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 15/03/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROSA ANNA SARACENO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FLAMINI Luigi Maria, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
Udito il difensore avv. Costantini Marco che ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata.

Svolgimento del processo

1. Il 21 gennaio 2015 il Tribunale militare di Roma dichiarava R.M., all'epoca dei fatti tenente colonnello dell'Esercito Italiano in servizio presso il (OMISSIS), colpevole dei delitti di ingiuria e minaccia ad inferiore in continuazione (art. 81 c.p., comma 2, art. 47 c.p.m.p., n. 2 e 5 e art. 196 c.p.m.p.) e, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche dichiarate equivalenti alle contestate aggravanti, lo condannava alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi nove di reclusione militare.
Il R. era accusato di avere, in un contesto di servizio e anche alla presenza di militari di Forze   Armate straniere, minacciato un danno ingiusto ed offeso il prestigio, l'onore e la dignità del maresciallo P.F., pronunciando al suo indirizzo e in sua presenza frasi del tipo " non capisci un cazzo... chiamerò la tua Task Force e gli dirò che non capisci un cazzo....ti distruggerò con le note", prospettandogli gravi conseguenze e ritorsioni sul piano lavorativo e personale sia prima che dopo aver appreso della volontà del P. di essere assegnato ad altro incarico.
Il Tribunale rilevava la sicura sussistenza dei motivi attinenti al servizio e alla disciplina, trovando i fatti dedotti in contestazione la loro occasione e motivazione in esclusive circostanze di servizio e l'esistenza di un rapporto gerarchico tra imputato e parte lesa.
Riteneva obiettivamente offensive le frasi pronunziate "con patologica frequenza" dal R. all'indirizzo del P. e riconosceva valenza intimidatoria alle altre espressioni rivolte alla parte lesa, idonee a minare la libertà psichica del destinatario con particolare riferimento alla frase "te la farò pagare, non mi sfuggirai", resa ancora più minacciosa dalla non compiuta descrizione di ciò che il sottufficiale avrebbe dovuto aspettarsi dal R..
2. Il 30 settembre 2015 la Corte d'appello militare, investita dell'impugnazione dell'imputato, in parziale riforma della decisione di primo grado, esclusa l'aggravante di cui all'art. 47 c.p.m.p., n. 2, già compresa nel reato ascritto, dichiarata la prevalenza delle concesse attenuanti generiche sulla contrapposta, residua aggravante, riduceva a mesi sei di reclusione militare la pena inflitta al R., confermando nel resto la sentenza gravata.
La Corte perveniva a tali conclusioni, ritenendo la versione dei fatti offerta dalla parte lesa affatto congrua e coerente, priva di incertezze e contraddizioni, sufficientemente precisa tenuto conto della ripetitività delle condotte, scevra da intenti ritorsivi, logicamente confermata dalla richiesta di destinazione ad altro incarico e riscontrata dalle dichiarazioni del teste Pi., il quale aveva confermato di aver personalmente sentito il R., solito far uso di un linguaggio scurrile, rivolgersi al P. dicendogli "non capisci un cazzo" e di aver direttamente constatato lo stato di avvilimento in cui il versava il maresciallo.
Riteneva del tutto ininfluente la mancata emersione del movente delle condotte illecite, rimarcando, d'altro canto, che l'imputato aveva già riportato condanna, irrevocabile, per violazioni omogenee in danno di altro militare, nei cui confronti aveva assunto analoghi atteggiamenti intimidatori, non mancando di rimarcare "di aver fatto fuori in Afghanistan quattro marescialli".
3. Avverso la ridetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, con il ministero del difensore di fiducia avvocato Marco Costantini, il quale ne chiede l'annullamento, deducendo mancanza e manifesta illogicità della motivazione nonchè violazione dei canoni di valutazione probatoria con riguardo alla deposizione della parte offesa.
La Corte di appello ha riconosciuto piena attendibilità alle dichiarazioni della parte lesa, senza scrutinarne l'affidabilità attraverso una rigorosa e critica valutazione della narrazione offerta, tanto più necessaria nel caso in esame, essendo stata la condanna fondata esclusivamente sulle ridette dichiarazioni accusatorie, non rafforzate nè corroborate da ulteriori testimonianze. Inoltre, avrebbe dovuto interrogarsi sul movente, rimasto indimostrato, che ha ispirato l'asserita condotta vessatoria ed offensiva e, viceversa, considerare la probabile natura strumentale dell'accusa, essendosi il P. giovato della pretesa incompatibilità con il proprio superiore per richiedere ed ottenere una diversa e più comoda assegnazione. 

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.
1. Giova ribadire che il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che all'inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile l'iter logico seguito dal giudice di merito ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (Sez. Un. 28 maggio 2003, Pellegrino, rv. 224611).
Il vizio della illogicità manifesta consegue alla violazione dei principi della logica formale o dei canoni normativi di valutazione della prova ai sensi dell'art. 192 c.p.p., come pure alla scorrettezza dell'argomentazione per carenza della connessione o di ogni plausibile nesso di inferenza tra le premesse e la conclusione (v., per tutte, da ultima: Sez. Un. n. 20804 del 29/11/2012 -dep. 2013, Aquilina, non massimata sul punto).
Va, ancora, osservato che le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3, non trovano applicazione relativamente alle dichiarazioni della parte offesa: queste ultime possono essere legittimamente poste da sole a base dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della loro credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca del racconto. Il vaglio positivo dell'attendibilità del dichiarante deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, di talchè tale deposizione può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva. Può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell'imputato (v., per tutte, Sez. Un. n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214).
Costituisce, infine, principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (cfr. ex plurimis e ultimo, Sez. 2 n. 41505 del 24/09/2013 -dep. 2013, Terrusa Rv. 257241).
2. Tanto premesso, la tenuta del costrutto motivazionale della sentenza impugnata supera indenne la verifica del giudizio di legittimità, risultando pienamente aderente ai canoni di valutazione della prova stabiliti dalle disposizioni dell'art. 192 c.p.p. e immune da violazioni di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice.
I giudici di merito - tenendo doverosamente ed accuratamente conto di tutti gli elementi emersi nel corso del processo - hanno spiegato, con iter argomentativo esaustivo, logico, correttamente sviluppato e saldamente ancorato all'esame delle singole emergenze processuali, le ragioni per le quali le dichiarazioni rese dalla parte offesa P. sono da ritenere soggettivamente e oggettivamente attendibili. Nella valutazione della prova orale, il positivo scrutinio risulta ancorato all'assenza di incertezze o di contraddizioni inficianti la narrazione, alla precisione degli accadimenti e dei fatti evocati, collocati in un periodo sufficientemente determinato, da marzo sino ai primi giorni del mese di (OMISSIS), all'assenza di "memorizzazioni inusuali" e al difetto di elementi oggettivi, indizianti una prospettazione strumentale della vicenda diretta al conseguimento di un qualche profitto.
La Corte di appello non ha mancato di rilevare come le dichiarazioni dell'offeso abbiano trovato univoci e significativi elementi di convergenza negli altri elementi probatori acquisiti e, in particolare, nella deposizione del teste Pi., il quale, a differenza dei testi R. e T. che hanno indugiato sullo stato di profonda prostrazione della parte lesa, ha riferito di aver personalmente assistito ad episodi in cui l'imputato rimproverava immotivatamente il sottoposto, rivolgendogli frasi offensive e gratuitamente denigratorie del tipo "che cazzo fai... tu non capisci un cazzo...non conosci l'inglese... non riesci neanche a compilare un cazzo di rapportino".
Nient'affatto illogica o implausibile è la rilevanza attribuita anche al fatto che, non appena P. ha chiesto di essere destinato ad altro incarico, sia stato tempestivamente accontentato, a riprova del credito riscosso dalla sua versione all'interno del reparto e presso i superiori che ne hanno disposto la diversa assegnazione.
In conclusione, le censure difensive, al limite dell'ammissibilità, non criticano, in realtà, l'iter logico argomentativo della sentenza impugnata e le regole seguite dai giudici nella valutazione delle prove, bensì sollecitano una non consentita lettura alternativa delle emergenze probatorie, univocamente indicative, al contrario, della volontà dell'imputato di ingiuriare e minacciare, nel contesto del servizio, un ufficiale a lui subordinato e ciò a prescindere dai motivi, processualmente ininfluenti, che abbiano determinato la condotta aggressiva e intimidatoria, obiettivamente realizzata.
3. Al rigetto del ricorso di R.M. consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese cessuali.
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2016
Avv. Antonino Sugamele

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