Criminale affiliato alla sacra Corona Unita e appartenenti all'Arma dei Carabinieri, tra cui un capitano, un tenente, un maresciallo e alcuni carabinieri, coimputati di diverse fattispecie.
Cassazione penale, sez. V, 20/11/2014, (ud. 20/11/2014, dep.25/03/2015), n. 12697
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDI Alfredo - Presidente -
Dott. LAPALORCIA Grazia - Consigliere -
Dott. MICCOLI Grazia - Consigliere -
Dott. GUARDIANO Alfredo - rel. Consigliere -
Dott. LIGNOLA Ferdinando - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.M., nato a (OMISSIS);
D.S.C.D., nato a (OMISSIS);
F.V., nato a (OMISSIS);
M.V., nato a (OMISSIS);
D.M.S., nato a (OMISSIS);
B.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza pronunciata in data 13.12.2012 dalla corte di
appello di Lecce;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. FIMIANI Pasquale, che ha concluso per
l'inammissibilità del ricorso presentato dallo S.; per
l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con riferimento
al reato di cui al capo B), perchè il fatto non è previsto dalla
legge come reato, al reato di cui al capo D), limitatamente alla
circostanza aggravante ex art. 61 c.p., n. 9, ed al reato di cui alla
L. n. 895 del 1967, art. 2, contestato al capo F); quanto alle
residue imputazioni, per l'annullamento con rinvio, limitatamente al
trattamento sanzionatorio, per l'inammissibilità degli altri motivi
prospettati con i ricorsi di D.M., B., M. e
F., nonchè per il rigetto degli altri motivi prospettati nel
ricorso D.S., con contestuale dichiarazione, nei confronti
di tali ricorrenti, della irrevocabilità dell'affermazione di
responsabilità, ex art. 624 c.p.p.;
uditi per le parti civili costituite, l'avv. Giuseppe Graziano, del
Foro di Roma, in qualità di sostituto processuale del difensore di
L.M., avv. Donato Epifani, del Foro di Brindisi, e l'avv.
Gianvito Lillo, del Foro di Brindisi, che hanno concluso per il
rigetto del ricorso, depositando conclusioni e nota spese;
uditi per i ricorrenti l'avv. Pantaleone Mercurio, del Foro di Roma,
difensore di F.V., anche in sostituzione del
codifensore, avv. Grazia Volo, del Foro di Roma; l'avv. Sambati
Andrea, del Foro di Lecce, difensore dello S.M.;
l'avv. Alberto Sardano, del Foro di Bari, difensore di D.M.
S. e di B.G.; l'avv. Domenico Mariani, del Foro
di Roma, e l'avv. Carlo Di Casola, del Foro di Napoli, difensori di
D.S.C.D.; l'avv. Giuseppe Martino, del Foro di
Lecce, difensore di M.V., che hanno tutti concluso per
l'accoglimento dei rispettivi ricorsi.
Fatto
FATTO E DIRITTO
1. Con sentenza pronunciata il 13 dicembre del 2012 la corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Brindisi, in data 7.4.2011, aveva condannato alle pene ritenute di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato S.M.; D.S.C.D., F. V., M.V., D.M.S., B. G., imputati, 1) lo S., dei reati di cui all'art. 110 c.p., L. n. 895 del 1967, artt. 1, 2 e 4, (capo A); artt. 110 e 648 c.p., art. 61 c.p., n. 9, L. n. 895 del 1967, art. 2, art. 4, comma 2, L. n. 110 del 1975, art. 23, comma 3, (capo B); 2) il D. S. dei reati di cui agli artt. 110 e 648 c.p., art. 61 c.p., n. 9, (capo B); art. 110 c.p., art. 328 c.p., comma 1, (capo C); art. 110 c.p., art. 476 c.p., comma 2, art. 479 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo D); artt. 110 e 368 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo E); art. 110 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, L. n. 895 del 1967, art. 2 e art. 4, comma 2, (capo F); artt. 110, 606 e 609 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo G); 3) il F. dei reati di cui agli artt. 110 e 648 c.p., art. 61 c.p., n. 9 (capo B); art. 110 c.p., art. 328 c.p., comma 1, (capo C); art. 110 c.p., art. 476 c.p., comma 2, art. 479 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo D); artt. 110 e 368 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo E); art. 110 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, L. n. 895 del 1967, art. 2 e art. 4, comma 2, (capo F); artt, 110, 606 e 609 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1 (capo G); 4) il M. dei reati di cui agli artt. 110 e 648 c.p., art. 61 c.p., n. 9, (capo B); art. 110 c.p., art. 328 c.p., comma 1, (capo C); art. 110 c.p., art. 476 c.p., comma 2, art. 479 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo D); artt. 110 e 368 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo E); art. 110 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, L. n. 895 del 1967, art. 2 e art. 4, comma 2, (capo F); artt. 110, 606 e 609 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo G); 5) il D.M.S. dei reati di cui all'art. 110 c.p., art. 476 c.p., comma 2, art. 479 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo D); artt. 110 e 368 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1 (capo E); art. 110 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, L. n. 895 del 1967, art. 2 e art. 4, comma 2, (capo F); artt. 110, 606 e 609 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo G); 6) il B. dei reati di cui all'art. 110 c.p., art. 476 c.p., comma 2, art. 479 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo D); artt. 110 e 368 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo E); art. 110 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, L. n. 895 del 1967, art. 2 e art. 4, comma 2, (capo F); artt. 110, 606 e 609 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., n. 1, (capo G), assolveva lo S. dal reato L. n. 895 del 1967, ex artt. 4 e 7 di cui al capo B), per non aver commesso il fatto; dichiarava non doversi procedere nei confronti dello S., del M., del D.S. e del F. per i reati L. n. 895 del 1967, ex artt. 2 e 7, L. n. 110 del 1975, art. 23, comma 3, loro rispettivamente contestati al capo B), perchè estinti per prescrizione; dichiarava, infine, non doversi procedere nei confronti di M., D.S., F., D.M. e B., in relazione ai reati di cui ai capi C); E) e G), perchè estinti per prescrizione, con conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio nei confronti dello S., del D.S., del F. e del M., confermando, nel resto, l'impugnata sentenza.
1.1 I reati per cui si è proceduto attengono a due vicende strettamente collegate, che vedono come protagonisti da un lato S.M., esponente della criminalità pugliese, affiliato alla sacra Corona Unita, e dall'altro gli appartenenti all'Arma dei Carabinieri, capitano D.S., tenente F., maresciallo M., il D.M. ed il B., anch'essi Carabinieri, che nell'esercizio delle loro funzioni, secondo l'assunto accusatorio, hanno commesso i reati innanzi indicati.
Una prima vicenda riguarda la consegna di una pistola clandestina da parte dello S. al tenente F., arma che quest'ultimo, per ordine del capitano D.S., suo diretto superiore, non sequestrava, senza nemmeno procedere all'arresto dello S., della cui collaborazione i carabinieri intendevano avvalersi, in attesa di trovare il modo di ottenere per lui l'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, obiettivo che non veniva raggiunto per il rifiuto opposto dal pubblico ministero competente alla richiesta dei Carabinieri (a tale vicenda si collegano i reati di cui al capo B, in tema di ricettazione, detenzione, porto in luogo pubblico dell'arma clandestina, contestati allo S., al D.S., al F. ed al M., nonchè quello di rifiuto d'atti di ufficio (capo C, contestato sempre in concorso al D.S., al F. ed al M.).
La seconda vicenda, più complessa, che coinvolge oltre ai predetti imputati anche il D.M. ed il B., ruota intorno al tentativo dei prevenuti di attribuire ad un esponente della criminalità pugliese e alla sua compagna, il V. e la L., collegati allo S., la detenzione di due bombe a mano, facenti parte, in realtà, di una partita di quattro, tutte precedentemente detenute dallo S., in modo da arrestarli illegalmente, all'esito di una perquisizione, del pari illegale, presso la loro abitazione, compiuta dai suddetti Carabinieri, che, avvalendosi della fondamentale collaborazione dello S., avvertiti da quest'ultimo della progettazione di un attentato ad opera del V. contro il maresciallo M., lo convinsero a prelevare le bombe a mano e portarle a casa del V., dove, per l'appunto, le forze dell'ordine fecero irruzione di notte, previo distacco dell'energia elettrica per evitare l'attivazione degli strumenti di controllo esterno, nel corso di un'operazione di polizia già programmata, con il nome in codice "(OMISSIS)", procedendo, nell'occasione, al sequestro delle due bombe, artatamente ivi collocate dallo S. e, successivamente, al recupero delle altre due bombe e della pistola clandestina, originariamente consegnata al F., custodite in altro luogo (reati di cui ai capi D; E; F; G). La sentenza ha proceduto ad una dettagliata analisi del materiale probatorio con riferimento alle singole scansioni temporali degli avvenimenti, confermando l'attendibilità dello S. in relazione ai singoli eventi e l'inattendibilità delle dichiarazioni degli imputati, peraltro modificate nel corso del dibattimento rispetto a quelle iniziali, di parziale ammissione dei fatti. Gli imputati, in particolare, avevano cercato di accreditare la tesi secondo la quale la pistola a suo tempo consegnata al F. era una pistola giocattolo; negato l'esistenza di un accordo con lo S. finalizzato a creare false prove a carico del V. e della L. e sostenuto che le successive operazioni di perquisizione e arresto si inserivano nella più vasta operazione di polizia contro la criminalità organizzata denominata (OMISSIS). Con la sentenza impugnata sono state rigettate le eccezioni in rito con le quali la difesa del D.S. aveva dedotto 1) l'inutilizzabilità dell'incidente probatorio relativo all'esame dello S. per non avere avuto a disposizione prima dell'atto la versione integrale dell'interrogatorio di garanzia reso dal collaborante, il supporto magnetofonico dello stesso ed altro materiale processuale (cfr. pp. 7-16); 2) l'inammissibilità dell'incidente probatorio, non rientrando il testimone assistito ex art. 197 bis c.p.p. in nessuna delle categorie per le quali è previsto tale mezzo istruttorie (cfr. pp. 16 - 19); 3) l'inutilizzabilità dell'intercettazione ambientale effettuata nella casa circondariale di Lecce l'8/5/2004, per mancanza del verbale delle operazioni di captazione (cfr. pp. 19-23); 5) la inutilizzabilità dell'esame reso dal M. nell'incidente probatorio del 28/2/2005 (cfr. pp. 25-27); 6) l'inutilizzabilità delle spontanee dichiarazioni rese dal D.S. il 23/5/2005 (cfr. pp. 27-29); 7) la nullità della sentenza di primo grado per violazione del diritto dell'imputato ad interloquire per ultimo (cfr.
pp. 29-33); 8) la nullità dell'ordinanza di revoca di due testimoni (cfr. pp. 33-35); 9) la nullità della richiesta di rinvio a giudizio (cfr. pp. 35-36); 10) l'incompetenza funzionale ex art. 11 c.p.p. in relazione a procedimenti a carico di magistrati inviati a Potenza (cfr. pp. 36-40); 12) la nullità o l'inutilizzabilità dell'incidente probatorio relativo al M. (cfr. p. 40).
La corte territoriale ha, invece, accolto le eccezioni volte a far valere l'inutilizzabilità delle spontanee dichiarazioni rese dal M. e l'illegittimità della produzione da parte del pubblico ministero del verbale di informazioni rese dal sostituto procuratore della Repubblica, dott. D.C. al pubblico ministero di Brindisi, dott. N..
1.2 All'esito del giudizio di appello, dunque, la corte territoriale, come già detto, assolveva lo S. dal reato di detenzione e porto della pistola di cui al capo B) per non avere commesso il fatto; ha dichiarato non doversi procedere per prescrizione nei confronti dello S., del M., del D.S. e del F. in ordine ai reati di detenzione e porto della pistola di cui al capo B); ha dichiarato non doversi procedere per prescrizione nei confronti di M., D.S., F., D.M. e B. in ordine ai reati di cui ai capi C) (rifiuto di atti d'ufficio, contestato ai soli M., F. e D.S.), E) (calunnia) e G) (arresto e perquisizione illegale), contestati a M., F., D.S., B. e D.M., confermando le statuizioni civili della sentenza.
La corte territoriale ha, invece, confermato la condanna: 1) dello S. per il reato di cui al capo A) (detenzione e porto di armi da guerra, originariamente contestatogli in concorso con il V., che, successivamente, veniva assolto da tale reato) e per quello di ricettazione della pistola di cui al capo B); 2) del D. S. per i reati di cui ai capi B) (ricettazione della pistola); D) (falso in atto pubblico fidefaciente), F) (detenzione e porto delle quattro bombe a mano); 3) del F. per i reati di cui ai capi B), D) ed F); 4) del M. per i reati di cui ai capi B), D) ed F); 5) del D.M. e del B. per i reati di cui ai capi D) ed F). Per tutti i predetti imputati, in sede di determinazione del trattamento sanzionatorio, è stato ritenuto più grave il reato di cui al capo D).
2. Avverso la sentenza della corte di appello di Lecce hanno proposto autonomi ricorsi per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, i predetti imputati, articolando autonomi motivi di impugnazione.
In particolare, nel ricorso presentato nell'interesse dello S., il ricorrente: 1) deduce violazione di legge e vizi di motivazione con riferimento al reato di cui al capo A) (si sostiene, al riguardo, da un lato che l'imputato ha portato le bombe a mano su incarico dei CC, per cui non poteva essere consapevole dell'illiceità del fatto, dall'altro che lo S. avrebbe dovuto rispondere di trasporto e non di porto delle predette bombe, non avendo la possibilità di fare uso immediato delle predette armi;
2) denuncia vizi di motivazione in ordine al reato di cui all'art. 648 c.p. e contraddittorietà tra parte motiva della sentenza e dispositivo in ordine all'eventuale aumento per la continuazione per detto reato; 3) lamenta il mancato accoglimento della richiesta di patteggiamento presentata in primo grado; 4) deduce vizi di motivazione sulla misura della pena.
Il D.S., nel ricorso a firma dell'avv. Mariani: 1) ripropone estesamente l'eccezione di nullità dell'incidente probatorio del 25/2/2005 relativo all'esame dello S., per l'omesso deposito del verbale di interrogatorio reso da quest'ultimo in data 9/3/2004 in sede di convalida dell'arresto nella sua versione integrale, senza gli "omissis", nonchè per la mancata allegazione al fascicolo del pubblico ministero delle cassette contenenti la registrazione di detto interrogatorio; 2) denuncia la nullità della richiesta di rinvio a giudizio per non essere stato consentito all'imputato di ottenere copia dell'intero fascicolo del pubblico ministero prima del deposito della richiesta in questione, eccezione alla quale, tuttavia, il ricorrente rinuncia, riconoscendone l'infondatezza, per inferirne, comunque, la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo S. il 9/3/2004;
3) reitera l'eccezione di inutilizzabilità dell'incidente probatorio, espletato, ad avviso del ricorrente, al di fuori dei casi consentiti, in quanto lo S., a seguito dell'avviso di cui all'art. 64 c.p.p., rivoltogli nell'interrogatorio di convalida, aveva assunto la qualità di testimone assistito, potendo, l'incidente probatorio, essere disposto solo nelle ipotesi di cui all'art. 392 c.p.p., comma 1, lett. a) e b), che non comprendono l'escussione del testimone assistito;
4) lamenta l'omessa ammissione della richiesta di riapertura dell'istruzione per sentire lo S.; 5) ripropone l'eccezione di inutilizzabilità derivata dell'incidente probatorio relativo all'esame del M., per l'inutilizzabilità ex art. 430 bis, c.p.p., dell'interrogatorio cui lo stesso era stato sottoposto dal pubblico ministero, dopo che aveva formulato la richiesta di incidente probatorio, inutilizzabilità, quest'ultima, riconosciuta dalla stessa sentenza; 6) lamenta che la corte di appello, dopo aver dichiarato l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal M. al pubblico ministero, le ha dichiarate, invece, utilizzabili per le contestazioni in dibattimento da parte del pubblico ministero, in quanto ritualmente acquisite; 7) ripropone l'eccezione di nullità dell'incidente probatorio del M. per non essere stata messa a disposizione della difesa la cassetta delle dichiarazioni rese dallo stesso al pubblico ministero; 8) reitera l'eccezione di inutilizzabilità dell'incidente probatorio per essere lo stesso consentito ai sensi dell'art. 392 c.p.p., lett. c), solo per raccogliere dichiarazioni eteroaccusatorie e non anche autoaccusatorie; 9) lamenta l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal D.S. al pubblico ministero, per non essere stato dato l'avviso di cui all'art. 64 c.p.p., sostenendo, al riguardo che l'avviso non risulta dalla registrazione, ma dal solo verbale che avrebbe una funzione sussidiaria; 10) ripropone l'eccezione di nullità ex art. 523 c.p.p., comma 5, per non essere stato consentito al D.S. di interloquire per ultimo nel dibattimento; 11) reitera l'eccezione di nullità dell'ordinanza che ha revocato l'ammissione di due testi; 11) denuncia vizi di motivazione e travisamento della prova, sostenendo la tesi della inattendibilità delle dichiarazioni dello S. allorchè avrebbe riferito di avere confidato ai CC, nel gennaio del 2004, di essere in possesso delle quattro granate dal dicembre del 2003, in quanto, in realtà, le avrebbe ricevute da tale Se.Pa., sottufficiale della Marina Militare, nel febbraio del 2004; 12) formula ulteriori censure in ordine alla pistola che lo S. avrebbe consegnato al tenente F., in quanto la stessa non era un'arma vera, ma si identificherebbe con la pistola scacciacani trovata e sequestrata nella scrivania dell'imputato; 13) evidenzia, riportando le dichiarazioni rese dal M. in dibattimento e altre deposizioni, dirette a dimostrare il clima di intimidazione ed induzione che aveva preceduto l'incidente probatorio, l'attendibilità delle dichiarazioni dibattimentali, con le quali sono state ritrattate le dichiarazioni eteroaccusatorie rese in sede di incidente probatorio, denunciando vizi di motivazione sul punto;
14) denuncia vizi di motivazione e la mancata disposizione di una perizia in ordine alla identificazione del luogo o dei luoghi in cui erano nascoste le prime due bombe e le altre due successivamente recuperate, sostenendo, al riguardo, facendo riferimento ai rilievi riguardanti le celle agganciate dai cellulari dei CC. e dello S., che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, non vi sarebbe identità dei luoghi; 15) denuncia violazione di legge con riferimento al reato di falso, evidenziando l'applicabilità della scriminante di cui all'art. 51 c.p., in quanto le omissioni contenute nei verbali e costituenti il falso avrebbero avuto natura autoincriminante; 16) sostiene, altresì, che l'imputato avrebbe dovuto eventualmente rispondere del reato di cui all'art. 328 c.p., comunque non punibile ai sensi dell'art. 51 c.p., contestando, al tempo stesso, la sussistenza dell'elemento psicologico del reato; 17) lamenta violazione di legge con riferimento all'imputazione di cui al capo B), in relazione alla quale deduce l'insussistenza dell'elemento psicologico del reato, sia perchè l'imputato non poteva essere a conoscenza della clandestinità della pistola, sia perchè ne avrebbe avuto consapevolezza dopo che il reato era stato commesso, trattandosi di reato istantaneo, evidenziando anche che, eventualmente, potevano essere configurati altri reati, quali l'omissione di atti di ufficio o il favoreggiamento; 18) insiste nella tesi della configurabilità di un'ipotesi di mero trasporto, punito ai sensi della L. n. 110 del 1985, art. 18, delle bombe e non di porto, deducendo, altresì, che l'imputato avrebbe al più dovuto rispondere del reato ai sensi dell'art. 116 c.p.; 19) lamenta vizi di motivazione e violazione di legge con riferimento alla conferma delle statuizioni civili in relazione ai capi E) e G); 20) lamenta vizi di motivazione e violazione di legge, con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Sempre il D.S., nel ricorso a firma dell'avv. Di Casola: 1) ripropone la questione della nullità degli incidenti probatori dello S. e del M. per il mancato deposito nel fascicolo del pubblico ministero della fonoregistrazione delle dichiarazioni rese in precedenza dagli stessi; 2) propone nuovamente la questione di nullità del giudizio di primo grado per non essere stato concesso al D.S. di interloquire per ultimo; 3) con riferimento ai reati di cui al capo B), deduce che l'imputato avrebbe appreso i fatti dopo la commissione degli stessi, nè poteva essere a conoscenza della circostanza che la pistola aveva la matricola abrasa, aggiungendo che la detenzione risulta assorbita dal porto; 4) formula ulteriori argomentazioni a sostegno della estraneità dell'imputato alla detenzione, porto e ricettazione della pistola mediante il riferimento al carattere autonomo delle condotte del F. e del M.; 5) ripropone la questione della non configurabilità del concorso del D.S. nel reato di ricettazione, essendo avvenuta l'adesione dell'imputato alla condotta dei correi allorchè il reato, che è istantaneo, risultava già consumato 6) deduce violazione di legge e vizi di motivazione in ordine ai reati di detenzione e porto di armi da guerra per il breve lasso di tempo in cui sarebbero stati commessi, sicchè il fatto dovrebbe essere ricondotto all'ipotesi di reato di omissione di atti di ufficio; 7) ripropone deduzioni in ordine all'assorbimento del reato di detenzione di armi in quello di porto stante la contemporaneità delle condotte; 8) propone nuovamente censure in ordine alla configurabilità del trasporto di armi e non del porto;
9) ripropone rilievi in ordine alla non immediata utilizzabilità delle bombe per la complessità dell'operazione di innesco degli accenditori; 10) reitera censure fondate sulla circostanza che l'imputato non sottoscrisse i verbali di arresto, pur avendo partecipato all'operazione, sicchè la sua condotta sarebbe caratterizzata dalla mera omissione di un atto che per sua natura sarebbe risultato illecito, con la conseguente applicabilità del principio nemo tenetur se detegere; 11) deduce che, seppure vi fosse prova del concorso del D.S. nella ideazione dell'operazione delittuosa ai danni del V. e della L., manca in ogni caso la prova del concorso materiale dell'imputato nella redazione dei falsi contenuti dei verbali di perquisizione, sequestro ed arresto, sicchè la sua condotta dovrebbe essere ricondotta alla ipotesi della mera connivenza; 12) formula censure con riferimento all'orientamento maggioritario che esclude l'applicabilità dell'art. 51 c.p. in relazione ai reati di falso in atto pubblico, deducendo la non conformità di tale orientamento con la previsione dell'art. 6 CEDU, che secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia Europea, garantisce all'imputato il diritto di non porre in essere condotte auto-incriminanti 13) ripropone rilievi in ordine al carattere meramente omissivo della mancata verbalizzazione dei fatti che avrebbero preceduto le operazioni di perquisizione, sequestro ed arresto, con la conseguente applicabilità della scriminante invocata; 14) deduce che la mera omissione della descrizione di fatti nell'atto pubblico non integrerebbe il reato di falso ideologico per il principio di tipicità delle condotte descritte dall'art. 479 c.p.; 15) lamenta che l'imputato sarebbe responsabile solo della lettera di trasmissione dei verbali di arresto; 16) contesta la natura fidefaciente del verbale di arresto o delle parti enunciative dei motivi che lo hanno determinato 17) lamenta violazione di legge in ordine agli aumenti di pena per le circostanze aggravanti, di cui all'art. 61 c.p., nn. 2 e 9, art. 112 c.p., comma 1, nn. 1 e 4, e mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza di tali circostanze, anche con riferimento all'elemento psicologico; 19) contesta la configurabilità della circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9, deducendo che la stessa non è configurabile quando la qualità di pubblico ufficiale è elemento costitutivo del reato, nonchè dell'aggravante della induzione dei sottoposti a commettere reati; 20) censura il diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Con motivi aggiunti depositati il 3.4.2014, l'avv. Mariani, a sostegno delle argomentazioni svolte in relazione al reato di cui al capo D), evidenzia come lo stesso giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Brindisi, nell'ordinanza di applicazione della misura cautelare che raggiunse il D.S., di cui riporta un passaggio, ebbe a sottolineare come "gli atti di p.g. di cui in imputazione...con evidente premeditato calcolo non sono stati sottoscritti dallo stesso ufficiale".
Il F.: 1) ripropone l'eccezione di incompetenza funzionale dei giudici del distretto di Lecce ai sensi degli artt. 11 e 11 bis c.p.p..
Al riguardo il ricorrente afferma l'esistenza di una connessione ex art. 12 c.p.p. tra i procedimenti sorti in relazione alle ipotesi di reato di cui all'art. 328 c.p. a carico del sostituto procuratore N. e del sostituto procuratore D.C., trasmessi all'autorità giudiziaria di Potenza, a nulla rilevando la conclusione dei medesimi con decreto di archiviazione: in particolare, con riferimento alla posizione del D.C., nei confronti del quale il reato di omissione di atti di ufficio era stato ipotizzato, per non avere ordinato il sequestro della pistola di cui era in possesso lo S., si deduce l'esistenza sia della connessione di cui all'art. 12 c.p.p., lett. a) che alla lett. c), del medesimo art., stante la connessione teleologia dei reati, evidenziandosi anche che il D.C. sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Potenza; 2) deduce l'erronea applicazione degli artt. 51 e 59 c.p. e vizi di motivazione, riproponendo la tesi dell'adempimento di un dovere, sia pure nella forma putativa, stante il convincimento del F. che l'operazione fosse stata ordinata dal colonnello Sq. e avallata dal sostituto procuratore D.C.; 3) lamenta violazione di legge e vizi di motivazione in ordine alla inutilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie rese erga alios dai coimputati nel corso delle indagini preliminari; 4) deduce vizi di motivazione con riferimento alle censure formulate nei motivi di appello; 5) lamenta vizi di motivazione e violazione di legge con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio.
Il M.: 1) ripropone l'eccezione di incompetenza funzionale dei giudici del distretto di Lecce ai sensi degli artt. 11 e 11 bis c.p.p.; 2) reitera l'eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo S. in sede di incidente probatorio per non essere stati messi a disposizione dei difensori i verbali di interrogatorio dell'imputato in forma integrale; 3) lamenta l'inutilizzabilità dell'incidente probatorio dello S., trattandosi di testimone assistito; 4) deduce l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato in sede di indagini preliminari; 5) ripropone l'eccezione di nullità del giudizio di primo grado per non essergli stato consentito di interloquire per ultimo; 6) ripropone la tesi dell'errata applicazione dell'art. 51 c.p.; 7) lamenta violazione di legge e vizi di motivazione, evidenziando che, espunte le dichiarazioni predibattimentali degli altri imputati, non sussisterebbero elementi di riscontro a quelle accusatorie dello S.; 8) deduce vizi di motivazione e travisamento del fatto in ordine alla individuazione del luogo o dei luoghi in cui lo S. aveva nascosto le bombe; 10) lamenta vizi di motivazione e violazione di legge con riferimento al diniego delle generiche e al trattamento sanzionatorio.
Nel suo ricorso, invece, il D.M., dopo avere riportato l'atto di appello, che contiene solo deduzioni fattuali a sostegno della inconsapevolezza dell'imputato, lamenta: 1) la nullità del dibattimento di primo grado per non essere stato disposto il rinvio per impedimento per malattia del difensore; 2) l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato in dibattimento per non essergli stato dato l'avviso ex art. 64 c.p.p., comma 3; 3) la violazione dell'art. 43 c.p., deducendo vizi di motivazione con riferimento all'elemento psicologico dei reati; 4) vizi di motivazione e violazione di legge con riferimento al reato di cui al capo D); 5) la violazione dell'art. 597 c.p.p., per essere stata confermata la misura della pena applicata al D.M. malgrado la declaratoria di prescrizione dei reati di cui ai capi E) e G). Il B., dal suo canto, dopo aver riportato l'atto di appello che contiene solo deduzioni fattuali a sostegno della inattendibilità dello S. e della inconsapevolezza dell'imputato, ripropone le censure di cui ai punti 2), 3) e 5) del ricorso D.M..
3. Preliminarmente va dichiarata l'estinzione del reato di ricettazione di cui al capo B) dell'imputazione, per compiuto decorso del relativo termine di prescrizione, nella sua massima estensione.
Di conseguenza, in ossequio al principio della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità sancito dall'art. 129 c.p.p., trattandosi di una causa di estinzione del reato verificatasi dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado e non ricorrendo, al tempo stesso, alcuna causa di inammissibilità dei ricorsi presentati nell'interesse degli imputati (incentrati prevalentemente su questioni di diritto non manifestamente infondate), essa va rilevata in questa sede, non ricorrendo, peraltro (essendo pacifica la provenienza delittuosa dell'arma clandestina oggetto di ricettazione e la detenzione della stessa, in momenti diversi da parte degli imputati), nessuna delle ipotesi, che, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2, imporrebbero una pronuncia più favorevole nei confronti dei ricorrenti. Come affermato, infatti, dalla giurisprudenza dominante in sede di legittimità, il principio della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità sancito dall'art. 129 c.p.p., impone che nel giudizio di cassazione, qualora ricorrano contestualmente una causa estintiva del reato e una nullità processuale anche assoluta e insanabile, si dia prevalenza alla prima, salvo che l'operatività della causa estintiva non presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, nel qual caso (non ricorrente nella fattispecie in esame) assume rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 6, 26.3.2008, n. 21459, P., rv. 240066).
Logico corollario di tale affermazione sulla piena operatività dell'art. 129 c.p.p., è che anche nel giudizio di legittimità sussiste l'obbligo di dichiarare una più favorevole causa di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., comma 2, pur ove risulti l'esistenza della causa estintiva della prescrizione, obbligo che, tuttavia, in considerazione dei caratteri tipici del giudizio innanzi la Corte di Cassazione, sussiste nei limiti del controllo del provvedimento impugnato, in relazione alla natura dei vizi denunciati (cfr. Cass., sez. 1, 18/04/2012, n. 35627, rv. 253458).
Il sindacato di legittimità che, pertanto, si richiede alla corte in questo caso deve essere circoscritto all'accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire a una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte dall'art. 129 c.p.p., comma 2: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità a esso dell'imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini e ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l'operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall'art. 129 c.p.p., l'esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all'imputato, deve prevalere l'esigenza della definizione immediata del processo (cfr. Cass., sez. 4, 05/11/2009, n. 43958, F.).
In presenza di una causa di estinzione del reato, infatti, la formula di proscioglimento nel merito (art. 129 c.p.p., comma 2) può essere adottata solo quando dagli atti risulti "evidente" la prova dell'innocenza dell'imputato, sicchè la valutazione che in proposito deve essere compiuta appartiene più al concetto di "constatazione" che di "apprezzamento" (cfr. Cass., sez. 2, 11/03/2009, n. 24495, G.), circostanza che, come risulta dalla stessa articolata esposizione dei motivi posti a fondamento dei ricorsi presentati dai suddetti imputati, in relazione all'intervenuta condanna per il delitto di cui al capo B), non può ritenersi sussistente nel caso in esame.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata nei confronti degli imputati S., D.S., F. e M., limitatamente al reato di ricettazione di cui al capo B), perchè estinto per prescrizione, rimanendo in tale statuizione risolta ogni ulteriore doglianza difensiva al riguardo, con le conseguenze che verranno indicate in prosieguo.
4. Ciò posto i ricorsi degli imputati devono ritenersi solo parzialmente fondati e vanno accolti nei limitati termini che seguono, essendo la maggior parte delle questioni proposte infondate ovvero, in parte, inammissibili.
Appare, altresì, opportuno segnalare che, nell'esame dei motivi ricorso, andrà osservato il principio generale fissato dall'art. 619 c.p.p., secondo cui la Corte di Cassazione, rimanendo nell'ambito della sua funzione istituzionale e nel rispetto del fatto come ritenuto dal giudice di merito, può ovviare a errori di diritto, insufficienze motivazionali o cadute di attenzione da parte del giudice "a quo", lasciando inalterato l'essenziale del contesto decisorio assunto con la sentenza esaminata (cfr. Cass., sez. U., 24.6.1998, n. 9973, rv. 211072).
5. Iniziando ad esaminare la posizione dello S. si osserva, preliminarmente, che, nelle sue doglianze, il ricorrente omette di considerare che la contestazione elevata a suo carico, riconosciuta fondata dai giudici di merito in entrambi i gradi di giudizio, comprende non solo il porto in luogo pubblico delle quattro granate (con i relativi meccanismi di accensione), specificamente indicate nel capo a) dell'imputazione, ma anche la detenzione e l'occultamento in luogo pubblico delle suddette armi da guerra, che lo S., dopo essersene procurata la disponibilità, nascondeva, prima in agro di Ostuni e di San Michele Salentino, e, successivamente, in agro di Carovigno, per cederle, infine, al V. nella notte tra il 5 ed il 6 marzo del 2004. Appare, dunque, evidente da un lato, come lo S. si sia reso responsabile dei reati di detenzione e porto delle armi da guerra di cui si discute in relazione alla condotta serbata, in occasione della detenzione e del trasferimento delle armi dall'uno all'altro nascondiglio, sino al momento in cui non vennero consegnate al V. e recuperate dalle forze dell'ordine;
dall'altro, come la piena consapevolezza dell'illecita detenzione, in quanto non giustificata da alcun valido titolo, da parte dello S., non possa che estendersi anche al porto delle quattro granate, stante l'evidente irrilevanza dell'ordine impartitogli al riguardo dagli altri imputati appartenenti all'Arma dei Carabinieri, ai fini della (invocata) insussistenza del delitto di porto di armi da guerra.
Conformemente a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, deve, infatti, ritenersi che l'avverbio "illegalmente", che figura nei precetti contenuti nella L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 4 così come sostituiti dalla L. n. 494 del 1974, artt. 10 e 12, pur integrando la fattispecie, nel senso di delimitarne l'estensione rispetto ai casi di detenzione e porto autorizzati, e quindi leciti, non rientra nel fatto incriminato, ma è un dato esterno ad esso, una sua qualificazione giuridica e, quindi un'entità normativa.
Pertanto, la sua conoscenza da parte dell'agente (peraltro, nel caso in esame, in re ipsa), al pari della antigiuridicità in generale, non è necessaria al fine della sussistenza dell'elemento psicologico del reato, e, quindi, del reato stesso, in virtù dell'art. 5 c.p. (cfr. Cass., sez. 1, 15/12/1983, Romeo).
Del resto, dalla detenzione illegale delle granate, di cui l'imputato risponde ai sensi della L. n. 895 del 1967, art. 2, così come sostituito dalla L. n. 494 del 1974, art. 10, non può che derivare, come logica e diretta conseguenza della detenzione contra legem, l'illiceità del porto in luogo pubblico delle armi in questione da parte dello stesso imputato, ai sensi dell'art. 4 del medesimo testo normativo (cfr., in questo senso, Cass., sez. 1, 25/10/1983, Montesanto), non essendosi sanata medio tempore cioè nel periodo compreso tra la detenzione ed il porto, l'originaria illiceità della detenzione. Nè la condotta dello S. appare riconducibile all'ipotesi di semplice trasporto, piuttosto che di porto, delle bombe a mano, in considerazione della possibilità che delle granate si potesse fare un uso quasi immediato, mediante applicazione dei relativi dispositivi di innesco, detenuti e portati, insieme con le armi. Come affermato, infatti dal condivisibile orientamento, prevalente nella giurisprudenza di legittimità, il criterio distintivo fra porto e trasporto di arma non è di carattere obiettivo, ma va ravvisato nella possibilità, o non, dell'utilizzazione immediata della stessa, sicchè è configurabile il reato di porto illegale di arma, quando questa, pur non essendo addosso al soggetto, si trovi nella sua pronta disponibilità per un uso immediato o quasi immediato, come nel caso in esame, mentre ricorre l'ipotesi del trasporto quando l'arma è oggetto inerte di un'operazione di trasferimento da luogo a luogo, senza essere suscettibile di pronta utilizzazione (cfr. Cass., sez. 1, 06/12/1999, n. 395; Cass., sez. 4, 16/05/2013, n. 23702, rv. 256205; Cass., sez. 1, 22/05/2008, n. 24686, rv. 240589; Cass., sez. 1, 16/03/1994, Di Stefano e altro). Fondata, invece, deve ritenersi la censura innanzi indicata sub n. 2).
Al riguardo occorre rilevare che esiste un evidente contrasto nella sentenza oggetto di ricorso tra motivazione e dispositivo: nella motivazione, infatti, la pena detentiva viene fissata in tre anni di reclusione, in uno con quella pecuniaria di 1200,00 Euro di multa, con riferimento ai soli reati di detenzione e di porto delle bombe a mano di cui al capo A) dell'imputazione, venendo, in tal modo, "ripristinata" la medesima pena irrogata dal giudice di primo grado per le indicate condotte di detenzione e porto, che la corte di appello riteneva "congrua" (cfr. p. 118).
Tuttavia nel dispositivo (cfr. p. 122), ferma restando l'entità della multa, la pena detentiva veniva fissata nella misura di anni tre e mesi due di reclusione.
Siffatta pena, tenuto conto dell'oggetto dell'imputazione, deve ritenersi riferita sia ai suddetti reati in materia di armi di cui al capo A), posto che per i diversi delitti di detenzione e porto di arma clandestina, di cui al capo B), la stessa corte territoriale pronunciava sentenza di assoluzione in favore dello S., con la formula per non aver commesso il fatto, sia al diverso reato di ricettazione di cui al capo B), per il quale la corte di appello confermava la sentenza di primo grado (cfr. p. 59). Appare, dunque, evidente, che all'interno della pena complessivamente irrogata allo S. nel dispositivo (che, come è noto, in caso di contrasto, prevale sulla motivazione: cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5, 23/03/2011, n. 22736, rv. 250400), i due mesi di reclusione inflitti devono imputarsi a titolo di aumento per la continuazione con il reato di ricettazione, per cui, a prescindere dall'assenza di motivazione su questo specifico punto del trattamento sanzionatorio, essendo tale reato estinto per prescrizione, occorre procedere in questa sede alla eliminazione di tale pena, che, per il resto, rimane, dunque, quella fissata dalla corte territoriale nella misura di anni tre di reclusione ed Euro 1200,00 di multa.
Infondato deve ritenersi anche il rilievo sub n. 3). La corte territoriale, infatti, ha specificamente indicato le ragioni per le quali ha ritenuto giustificato il rifiuto del pubblico ministero di prestare il consenso alla richiesta dello S. di definire la propria posizione con l'applicazione della pena finale di nove mesi di reclusione ed Euro 250,00 di multa, ritenendola non adeguata alla gravità della condotta posta in essere dall'imputato, desunta dalla estrema pericolosità degli ordigni oggetto di detenzione e porto.
In tal modo il giudice di secondo grado si è mosso nell'ambito di un corretto esercizio del potere riconosciutogli dall'art. 448 c.p.p., di accogliere la richiesta dell'imputato di applicazione di pena concordata, rigettata nel giudizio di primo grado, ritenendo ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, che presuppone pur sempre una manifestazione di dissenso dell'organo della pubblica accusa non sorretta da adeguata motivazione o non giustificata sotto il profilo della congruità della pena proposta (cfr. Cass., sez. 3, 20/06/2013, n. 37378, rv. 256855; Cass., sez. 4, 28/11/2007, n. 877).
Esauriente motivazione ha reso la corte di appello anche in relazione all'entità della pena comminata allo S., facendo riferimento ai parametri indicati dall'art. 133 c.p., ed, in particolare, alla gravità dei fatti ed alla capacità a delinquere dell'imputato, desunta anche dal suo inserimento in pericolosi ambienti criminali, ragione per la quale la doglianza difensiva sul punto deve ritenersi inammissibile, perchè con essa, in definitiva, si sollecita una diversa valutazione sulla adeguatezza del trattamento sanzionatorio imposto, che implica un giudizio di merito, non consentito in sede di legittimità.
6. Passando ad affrontare la posizione del D.S., andranno affrontate per prime le questioni proposte nel ricorso a firma dell'avv. Mariani, innanzi sintetizzate nei punti ricompresi dalla lett. A) alla lett. M), in larga parte ripetitive delle doglianze prospettate in sede di appello.
Orbene, infondato deve ritenersi, innanzitutto, il motivo di ricorso sub A), in quanto, versandosi nel caso in esame, al di fuori dell'ipotesi prevista dall'art. 392 c.p.p., comma 1 bis, il preteso vizio invocato dal ricorrente non risulta configurabile, trattandosi, per l'appunto, di una sanzione processuale non prevista dall'ordinamento.
Come evidenziato, infatti, da una condivisibile giurisprudenza del Supremo Collegio, nel ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 c.p.p. e art. 398 c.p.p., comma 3 bis, nella parte in cui non prevedono, per i reati diversi da quelli considerati nell'art. dell'art. 392, comma 1 bis, l'obbligo del pubblico ministero di depositare previamente tutti gli atti di indagine compiuti, la piena "discovery" è imposta dall'art. 393 c.p.p., comma 2-bis, solo" per il solo caso in cui nell'incidente probatorio si debba procedere all'esame di minore infrasedicenne in relazione a determinate fattispecie di reato, trovando tale previsione la sua ragion d'essere nel fatto che, in tal caso, ai sensi dell'art. 190 bis c.p.p., comma 1 bis, le dichiarazioni acquisite sono utilizzabili come prova senza che sia necessario procedere preliminarmente all'esame dibattimentale del soggetto, come invece previsto in via generale dall'art. 511 c.p.p., comma 2, (cfr. Cass., sez. 2, 28.11.2012, n. 12989, rv. 255526). Non da luogo, pertanto, a nullità, come affermato in altro condivisibile arresto del Supremo Collegio, l'omesso deposito degli atti d'indagine, prescritto dall'art. 393 c.p.p., comma 2 bis, qualora si sia proceduto all'incidente probatorio di cui all'art. 392 c.p.p., comma 1 bis, in relazione ad un reato diverso da quelli a sfondo sessuale previsti dalla norma citata (cfr. Cass., sez. 6, 11.3.2008, n. n. 23705, rv. 240321).
Del pari non coglie nel segno la doglianza difensiva sulla nullità della richiesta di rinvio a giudizio, già formulata in appello, in quanto non preceduta dal rilascio in favore dell'imputato della copia integrale del fascicolo del pubblico ministero.
Invero lo stesso ricorrente, consapevole dell'esistenza di un consolidato orientamento di segno contrario della giurisprudenza di legittimità, ha rinunciato a riproporre in questa sede la medesima questione di diritto, che, tuttavia, ha, per così dire, "adattato" ai principi affermati dalla richiamata giurisprudenza del Supremo Collegio, sostenendo l'inutilizzabilità, ai fini probatori, delle dichiarazioni rese dallo S. al pubblico ministero il 5.4.2004 in sede di interrogatorio, in conseguenza del mancato deposito, agli atti del fascicolo del pubblico ministero, della riproduzione integrale delle dichiarazioni fono-registrate, non potendo ritenersi sufficiente, al riguardo, il solo verbale in forma riassuntiva.
Anche in questa versione, tuttavia, la prospettiva difensiva non può essere accolta.
Come chiarito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, infatti, il mancato deposito, unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, di parte della documentazione relativa alle indagini espletate (come, ad esempio, bobine e trascrizioni integrali degli interrogatori dei collaboratori di giustizia), non è causa di nullità della richiesta stessa, comportando esclusivamente l'inutilizzabilità, ma ai soli fini del rinvio, degli atti non trasmessi (cfr. Cass., sez. 1, 15/01/2010, n. 19511 rv 247192), per cui dalla mancata trasmissione dei supporti magnetici contenenti la registrazione dell'interrogatorio non può farsi derivare la sanzione processuale, non prevista dall'ordinamento, della inutilizzabilità del contenuto dell'interrogatorio, come consacrato nel verbale riassuntivo, atteso che l'unica inutilizzabilità astrattamente configurabile in subiecta materia, come correttamente evidenziato dalla corte territoriale, è quella derivante dallo svolgimento dell'interrogatorio, senza procedere alla registrazione. Ed invero, come affermato dal prevalente e condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di documentazione dell'interrogatorio di persona detenuta, la sanzione di inutilizzabilità ex art. 141 bis c.p.p., consegue alla mancata riproduzione fonografica o audiovisiva dell'atto, ovvero all'ipotesi in cui, pure avvenuta tale riproduzione, manchi sia la sua trascrizione che la redazione del verbale in forma riassuntiva (cfr. Cass., sez. 1, 15/12/2006, n. 4359).
Ai fini dell'utilizzabilità del contenuto delle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio da imputato detenuto, dunque, quando si sia proceduto alla particolare forma di documentazione rappresentata dalla riproduzione fonografica o audiovisiva dell'atto, è sufficiente il verbale riassuntivo, il quale è dotato di pieno valore probatorio almeno fino al momento in cui, su richiesta di parte, non venga trascritta la riproduzione integrale (cfr. Cass., sez. 1, 02/07/2004, n. 3185), non essendo prevista, lo si ribadisce, alcuna forma di inutilizzabilità del contenuto delle dichiarazioni rese dal soggetto interrogato, come conseguenza della mancata trasmissione delle riproduzioni fonografiche o audiovisive dell'interrogatorio (cfr. Cass., sez. 1, 18/04/2002, n. 20250, Della Medaglia).
Del pari è infondata l'ulteriore eccezione formulata sub A), in quanto la tesi difensiva, secondo cui lo S., avendo assunto la qualità di testimone assistito, a seguito dell'avviso di cui all'art. 64 c.p.p., rivoltogli nell'interrogatorio cui venne sottoposto in sede di convalida, poteva essere sentito solo in presenza delle condizioni previste dall'art. 392, comma 1, lett. a) e b), non è condivisibile.
Lo stesso art. 392 c.p.p., comma 1, lett. c), infatti, come modificato dalla L. 7 agosto 1997, n. 267, art. 4, comma 1, prevede che l'incidente probatorio può avere ad oggetto anche l'esame della persona sottoposta ad indagini (quale appunto era lo S. quando venne sentito) su fatti concernenti la responsabilità di altri, senza richiedere, al riguardo, la necessaria sussistenza delle particolari circostanze che, invece, giustificano l'assunzione di una testimonianza, ai sensi dell'art. 392, comma 1, lett. a) e b), originariamente previste anche per l'esame della persona sottoposta ad indagini prima dell'intervento riformatore operato dal Legislatore nel 1997.
Disposizione dello stesso tenore, del resto, è contenuta nell'art. 392 c.p.p., comma 1, lett. d), in relazione all'esame delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., cioè delle persone imputate in un procedimento connesso.
Tale assetto normativo non risulta influenzato dalla nuova disciplina contenuta nella L. 1 marzo 2001, n. 63, di attuazione dei principi del giusto processo, che, nel modificare le disposizioni relative all'esame degli imputati in un procedimento connesso, come evidenziato dal Supremo Collegio, non ha implicitamente abrogato la disciplina delle speciali ipotesi di incidente probatorio prevista dall'art. 392 c.p.p., comma 1, lett. c) e d), (cfr. Cass., sez. 6, 28/01/2010, n. 28102), per cui nessuna violazione dell'art. 191, c.p.p., è ravvisabile in ordine all'esame cui lo S. è stato sottoposto in sede di incidente probatorio. Le considerazioni svolte rendono del tutto superflua ogni ulteriore considerazione sulla doglianza relativa all'omessa ammissione della richiesta di riapertura dell'istruzione per sentire lo S., che presuppone la fondatezza del rilievo sulla inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo stesso in sede di incidente probatorio.
Passando alle censure raggruppate sub B), va rilevata l'infondatezza del primo motivo in tale sede esposto. Dalla inutilizzabilità delle "dichiarazioni spontanee" rese dal M. al pubblico ministero il 15.2.2005, rilevata dalla corte territoriale, per violazione del disposto dell'art. 430 bis c.p.p., trattandosi, in realtà, di vere e proprie informazioni illegittimamente acquisite quando il M. era già stato indicato nella richiesta di incidente probatorio, ammesso dal giudice per le indagini preliminari l'11.2.2005, quindi prima dell'assunzione delle informazioni, non può farsi derivare la nullità dell'incidente probatorio al quale ha partecipato lo stesso M. ed in cui tali dichiarazioni sono state utilizzate per le contestazioni del pubblico ministero.
Non può, infatti, non rilevarsi come, ancora una volta, la sanzione processuale invocata dal ricorrente non è prevista dal vigente ordinamento processuale, in cui, come è noto, vige il principio della tassatività delle nullità (art. 177 c.p.). Nè può trovare applicazione "analogica" il disposto dell'art. 185 c.p.p., secondo cui la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo, in quanto difetta il presupposto di tale postulato, vale a dire l'esistenza di un atto nullo, appartenendo le informazioni assunte in violazione di quanto disposto dall'art. 430 bis c.p.p., comma 1, alla diversa categoria degli atti inutilizzabili, ai sensi del comma 2 della medesima disposizione normativa.
Da tempo, peraltro, la giurisprudenza di legittimità, esaminando fattispecie analoghe, in tema di deposizione testimoniale del verbalizzante che abbia utilizzato per la consultazione, ex art. 499 c.p.p., una relazione di servizio priva di sottoscrizione ovvero di intercettazioni disposte all'esito di intercettazioni inutilizzabili, si è attestata sul condivisibile principio, richiamato dalla corte territoriale, secondo cui il principio di nullità derivata non trova applicazione in materia di inutilizzabilità (cfr. Cass., sez. 5, 11/03/2011, n. 21047, rv. 250415; Cass., sez. 5, 05/11/2010, n. 4951, rv 249240).
Sulla stessa linea si colloca altra recente decisione, richiamata dalla corte territoriale, secondo cui il divieto di utilizzazione in dibattimento delle dichiarazioni rese dall'indagato, senza assistenza difensiva, alla polizia giudiziaria, non si comunica al successivo interrogatorio cui il pubblico ministero, edotto di tali dichiarazioni, sottoponga l'indagato, ritualmente assistito dal difensore (cfr. Cass., sez. 1, 10/02/2009, n. 8632, rv 242847). Può, dunque, affermarsi, in conclusione, sul punto che l'eventuale inutilizzabilità di un atto non produce nessun effetto, nè in termini di inutilizzabilità derivata, nè in termini di nullità derivata, sulle prove la cui assunzione, svoltasi nel rispetto del regime che ne disciplina l'acquisizione, dipenda o sia comunque influenzata dal precedente compimento dell'atto inutilizzabile. Ciò in quanto, da un lato l'inutilizzabilità riguarda solo le prove illegittimamente acquisite e non altre la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite (cfr. Cass., sez. 2, 29.11.2011, n. 44877, rv. 251361), dall'altro l'inutilizzabilità dell'atto presupposto non può determinare la (dall'ordinamento non prevista) nullità o l'inutilizzabilità derivata dell'atto consecutivo.
Non appare, invece, condivisibile, perchè viziato da contraddittorietà, il percorso motivazionale seguito dalla corte territoriale nella parte in cui si afferma che il contenuto del verbale di spontanee dichiarazioni rese dal M. il 15.2.2005, pur essendo inutilizzabile, ai sensi dell'art. 430 bis c.p.p., comma 1, all'interno della fase anticipatrice del dibattimento rappresentata dall'incidente probatorio, debba ritenersi, invece, legittimamente utilizzabile ai fini delle contestazioni in dibattimento, trattandosi di "atto legittimamente acquisito", in quanto preceduto dagli avvisi ex art. 64 c.p.p., rivolti dal pubblico ministero al M. (cfr. p. 50 della sentenza impugnata). Ed infatti, una volta considerate, dallo stesso giudice di secondo grado, le "spontanee dichiarazioni" rese dal M. il 15.2.2005 alla stregua di un vero e proprio interrogatorio, preceduto dall'avviso formulato dal pubblico ministero ex art. 64 c.p.p., non è possibile affermarne la piena utilizzabilità in dibattimento, facendo leva, con argomento a contrario, sulla previsione del citato art. 64 c.p.p., comma 3 bis che, per l'appunto, sancisce l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona interrogata, in difetto dell'avviso previsto dal comma 3, medesimo art..
Ciò in quanto la disposizione del secondo periodo dell'art. 430 bis c.p.p., comma 1, prevede una specifica causa di inutilizzabilità del tutto autonoma, che, in quanto norma speciale, prevale sulla causa di inutilizzabilità prevista dall'art. 64 c.p.p., comma 3 bis, operando anche quando le informazioni fornite dalla persona indicata nella richiesta di incidente probatorio siano state assunte dal pubblico ministero nel rispetto delle formalità previste dall'art. 64 c.p.p., comma 3.
Lo stesso tenore letterale della disposizione normativa di cui al secondo periodo dell'art. 430 bis c.p.p. ("Le informazioni assunte in violazione del divieto sono inutilizzabili"), depone nel senso di una inutilizzabilità assoluta, apparendo, peraltro, del tutto irrazionale limitare l'inutilizzabilità delle informazioni assunte in violazione del menzionato divieto al solo incidente probatorio, senza estenderla anche alla fase dibattimentale, rispetto alla quale, come è noto, l'incidente probatorio rappresenta una semplice anticipazione.
Siffatte conclusioni non incidono, tuttavia, sull'epilogo decisorio relativo alla posizione del D.S., in considerazione della marginale utilizzazione, rispetto al materiale probatorio acquisito, che è stata fatta delle informazioni fornite dal M. al pubblico ministero il 15.2.2005, impiegate, peraltro parzialmente, solo per contestare le nuove dichiarazioni rese dal suddetto M. in dibattimento sulla pretesa natura di arma-giocattolo della pistola oggetto della contestazione di cui al capo B).
L'inutilizzabilità delle suddette informazioni, difatti, non intacca nè il nucleo principale del contributo fornito dal M. all'impianto accusatorio, rappresentato dalle dichiarazioni da quest'ultimo rese in sede di incidente probatorio, che coincidono con la ricostruzione dei fatti fornita dallo S., nè la valutazione operata dal giudice di secondo grado sulle dichiarazioni dibattimentali dello stesso M. sulla pretesa natura di arma-giocattolo della pistola fatta recuperare dallo S., che la corte territoriale ha ritenuto inattendibili, sulla base di un'articolata motivazione, immune da vizi logici, fondata su di una serie di elementi (tra cui il contenuto della deposizione resa dal M. in sede di incidente probatorio il 28.2.2005;
l'inverosimiglianza delle affermazioni del maresciallo di non aver esaminato l'arma nel momento in cui lo S. la fece recuperare e di avere voluto assecondare le aspettative del pubblico ministero nel riferire che si trattava di un'arma vera), rispetto ai quali il contenuto delle "spontanee dichiarazioni" rese il 15.2.2005, assume un ruolo di ulteriore conferma di quanto già esaurientemente dimostrato in ordine alla effettiva natura di "arma" della pistola di cui si discute (cfr. pp. 45-58 della sentenza oggetto di ricorso).
Infondato, per le ragioni già esposte nelle pagine precedenti a proposito delle dichiarazioni rese dallo S. nell'interrogatorio innanzi al pubblico ministero, deve ritenersi il rilievo difensivo volto a riproporre l'eccezione di nullità dell'incidente probatorio del M. per non essere stato messo a disposizione della difesa il supporto magnetico contenente la registrazione delle dichiarazioni rese da quest'ultimo al pubblico ministero.
Ineccepibile appare, inoltre, la motivazione della corte territoriale nella parte in cui, replicando ad un'osservazione difensiva sul punto, evidenzia come la circostanza che il M., in sede di incidente probatorio, abbia reso dichiarazioni riguardanti non solo la responsabilità altrui, ma anche la propria, non può inficiare la validità dell'incidente probatorio del M.. Risulta, infatti, del tutto arbitrario e non conforme ad alcuna previsione normativa, far discendere la nullità dell'atto assunto in sede di incidente probatorio (nella specie l'esame del M.), dalla circostanza che la persona sottoposta ad indagini, oltre a rendere dichiarazioni riguardanti la responsabilità altrui, conformemente a quanto stabilito dall'art. 392 c.p.p., comma 1, lett. c), abbia reso anche dichiarazioni attinenti alla propria responsabilità.
L'estensione della portata dichiarativa della prova ad assunzione anticipata, non può certo determinare, in assenza di una disposizione che lo preveda, alcuna sanzione processuale che renda invalido o inutilizzabile il contenuto della prova medesima espletata in stretta aderenza alla previsione del citato art. 392 c.p.p., comma 1, lett. c).
Si tratterà piuttosto, come correttamente evidenziato dalla corte territoriale, di verificare se le dichiarazioni rese nell'incidente probatorio dalla persona sottoposta ad indagini su fatti riguardanti la propria responsabilità, possano o meno essere utilizzate a suo carico, ai sensi dell'art. 403 c.p.p., comma 1, questione, tuttavia, del tutto diversa da quella prospettata dal D.S., che, peraltro, non sarebbe nemmeno legittimato a proporla, per evidente difetto di interesse.
Passando alle doglianze sintetizzate sub C), non appare revocabile in dubbio che dalla mancata registrazione, nella riproduzione fonografica relativa al verbale delle dichiarazioni rese dal D. S. al pubblico ministero in data 23.3.2005, dell'avviso dato ai sensi dell'art. 64 c.p.p., non è lecito desumere che tale avviso sia stato omesso, in quanto risulta dal contenuto del verbale riassuntivo che tale adempimento è stato effettuato. L'evidenziato contrasto rilevato nel contenuto delle diverse forme di documentazione dell'atto, non può certo risolversi facendo necessariamente prevalere la fonoregistrazione sul verbale riassuntivo, al quale, nella prospettiva del difensore del ricorrente, che non ne contesta nello specifico il contenuto, trattandosi, invero, di atto corredato delle firme di tutti i presenti al suo espletamento, non potrebbe attribuirsi nessun valore probatorio. Tale assunto costituisce un vero e proprio errore di diritto. Invero, come già chiarito nelle pagine precedenti, al verbale riassuntivo non può disconoscersi una piena funzione probatoria di quanto in esso rappresentato, che non viene meno sol perchè la forma principale e privilegiata di documentazione dell'interrogatorio di persona che si trovi in stato di detenzione e che non si svolga in udienza, imposta dall'art. 141 bis c.p.p., consiste nella riproduzione fonografica o audiovisiva.
Numerose, infatti, sono le decisioni della Suprema Corte in cui viene ribadito il valore probatorio del verbale riassuntivo di cui si discute, che resta integro pur in presenza della riproduzione fonografica o audiovisiva dell'atto (la cui mancanza è causa di inutilizzabilità dell'atto stesso, ai sensi dell'art. 141 bis c.p.p.) ovvero della trascrizione integrale della riproduzione effettuata su richiesta delle parti, la cui mancanza, invece, non importa alcun vizio processuale, nè in termini di inutilizzabilità nè di nullità (cfr. Cass., sez. 6, 20/10/2010, n. 39376, rv 248799;
Cass., sez. U., 16/07/2009, n. 39061, rv. 244327; Cass., sez. 1, 15/12/2006, n. 4359; Cass., sez. 5, 31.1.2000, n. 617, rv. 215970;
Cass., sez. 1, 02/07/2004, n. 3185; Cass., sez. 1, 18/04/2002, n. 20250). La corte territoriale, pertanto, nel risolvere l'indicata discrasia tra la fonoregistrazione ed il verbale riassuntivo, ritenendo che "l'avviso sia stato rivolto quando l'apparecchio per la ripresa audio non era ancora stato acceso o era stato per qualche motivo spento" (cfr. p. 28 della sentenza impugnata), ha operato una valutazione del contenuto di due atti dotati del medesimo valore probatorio, secondo un criterio logicamente coerente, in quanto tale non sindacabile in sede di legittimità, in applicazione di un criterio assolutamente conforme a quanto indicato dalla stessa giurisprudenza di legittimità ogni qualvolta si debba risolvere un contrasto tra verbale redatto in forma riassuntiva e registrazione fonografica (cfr. Cass., sez. 6, 21.10.1998, n. 1167, rv. 213332).
Con riferimento alle censure sintetizzate sub D), non può non rilevarsi l'infondatezza dell'eccezione di nullità ex art. 523 c.p.p., comma 5, sollevata dal ricorrente.
Da un attento esame degli atti processuali, consentito in questa sede, essendo stato dedotto un error in procedendo, si evince che nel corso del dibattimento di primo grado non si è verificata nessuna violazione dell'art. 525 c.p.p., comma 3, che, nel disciplinare lo svolgimento della discussione delle parti, una volta esaurita l'assunzione delle prove, riconosce all'imputato e al difensore, a pena di nullità, il diritto di avere la parola per ultimi, se lo domandano.
Ed invero, pur avendo il difensore del ricorrente già concluso la sua discussione all'udienza del 10.2.2011 e depositato una memoria difensiva il successivo 11.2.2011, al D.S. è stato consentito di prendere la parola, esponendo la sua replica a quanto affermato dal pubblico ministero, già nel corso dell'udienza del 31.3.2011, a discussione, quindi, ormai conclusa. In tale sede, dunque, come sottolineato anche dalla minuziosissima ricostruzione operata dalla corte territoriale, l'imputato era stato messo in condizione di replicare diffusamente all'impianto accusatorio del pubblico ministero (cfr. pp. 29-30 della sentenza oggetto di ricorso), sino a quando il presidente del collegio giudicante, nel momento in cui il D.S. si accingeva a confutare la tesi dell'accusa, secondo cui "il luogo in cui la notte tra il 5 e il 6 marzo 2004 erano state prelevate le due bombe coincideva con quello nel quale, la mattina del 6, i carabinieri avevano rinvenuto e sequestrato le altre due granate e la pistola", su richiesta del pubblico ministero di togliere la parola all'imputato, invitava quest'ultimo a depositare una memoria, rilevando, nel contempo, che "su questa ricostruzione delle celle il tribunale ritiene che non sono dichiarazioni spontanee" (cfr. p. 30 della sentenza di secondo grado).
Nella stessa udienza del 31.3.2011, il tribunale rinviava alla successiva ed ultima udienza del 7.4.2011, per "dichiarazioni spontanee di D.S. e M., eventuale replica e discussione", alla quale, tuttavia, il D.S. non partecipava, provvedendo il suo difensore, avv. Mariani, a depositare una nuova memoria in cui si affermava, tra l'altro, che l'imputato D. S. aveva "deciso di non comparire personalmente in aula come forma di protesta ufficiale verso quanto è avvenuto all'ultima udienza , nel corso della quale si è assistito alla pubblica negazione del diritto di difesa in tutte le sue forme di legittima manifestazione".
Avendo il pubblico ministero rinunciato alla replica che si era riservato, il tribunale aveva, infine, dichiarato chiusa l'istruttoria dibattimentale, ritirandosi in camera di consiglio per la decisione. Tanto premesso, va osservato che correttamente la corte territoriale ha precisato come nel caso in esame non si verta nell'ambito delle spontanee dichiarazioni dell'imputato previste dall'art. 494 c.p.p., avendo il D.S. interloquito per ultimo, vale a dire dopo la discussione del pubblico ministero e di tutti i difensori degli imputati, ivi compreso il suo difensore. Al riguardo si osserva come la giurisprudenza di legittimità, con orientamento assolutamente dominante, ha da tempo chiarito la differenza tra il diritto dell'imputato di rendere dichiarazioni spontanee, previsto dall'art. 494 c.p.p. - il cui esercizio è consentito sino a quando non sia conclusa l'istruttoria dibattimentale, come si evince anche dallo stesso testo dell'art. 494 c.p.p., comma 1, che consente all'imputato di rendere dichiarazioni spontanee nel corso del dibattimento, a condizione non solo che tali dichiarazioni riguardino l'oggetto dell'imputazione, ma a anche che esse non intralcino l'istruzione dibattimentale - dal diritto di avere la parola per ultimo, se lo richiede.
La facoltà dell'imputato di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, infatti, va coordinata con le norme dettate dall'art. 523 c.p.p., che disciplinano lo svolgimento della discussione finale e, segnatamente, con il comma sesto di tale art., in base al quale l'interruzione della discussione può essere giustificata solo dall'assoluta necessità di assunzione di nuove prove. Ne consegue che, in detta fase, non essendo assimilabili le dichiarazioni spontanee dell'imputato a nuove prove, deve considerarsi insussistente la facoltà dello stesso imputato di rendere dette dichiarazioni, fermo restando il suo diritto, come si è detto, di chiedere ed ottenere di avere la parola per ultimo (cfr.
Cass., sez. 1, 23.11.1993, n. 1708, rv. 196401; Cass., sez. 2, 6.5.2014, n. 33666, rv. 260049). Tale diritto non risulta minimamente compresso nel caso in esame, in quanto, in virtù del rinvio disposto dal tribunale all'udienza del 7.4.2011, sia pure erroneamente motivato con riferimento a spontanee dichiarazioni che in quella fase processuale l'imputato non poteva più rendere, il D.S. avrebbe potuto prendere la parola per ultimo. Se ciò non è avvenuto, si deve esclusivamente ad una libera scelta dell'imputato, sul presupposto, peraltro, di una inesistente violazione del diritto di difesa consumatasi nell'udienza precedente.
Nessuna compressione del diritto di difesa, in definitiva, appare configurabile nel caso in esame, anche perchè il D.S., pur dopo la conclusione della discussione del proprio difensore, ha continuato a far valere le proprie ragioni, depositando ben due memorie difensive nel giro di pochi giorni.
Infondata risulta anche la censura sub E), per la decisiva considerazione, assorbente di ogni ulteriore profilo di legittimità, della mancanza di rilevanza dell'escussione testimoniale degli avvocati Epifani e Lillo, che, come correttamente evidenziato dalla corte territoriale, avrebbero dovuto deporre su di una circostanza (se effettivamente l'avv. F. Sambati era presente nella caserma dei CC. alle ore 7 del mattino), del tutto irrilevante, in quanto "definitivamente smentita dal registro visitatori, da cui risulta che il 6.3.2004 l'avv. F. Sambati ha fatto ingresso nella caserma di Fasano alle ore 8.30 (e non alle ore 7.00), per cui "il dubbio che l'avv. Sambati fosse presente nella caserma alle ore 7 del 6 marzo 2004 è stato fugato da un documento ufficiale ritualmente acquisito agli atti" (cfr. pp. 34-35 della sentenza impugnata). Pertanto la decisione del giudice di primo grado, che, in diversa composizione, in sede di rinnovazione del dibattimento, dopo avere sentito le parti, le quali si erano riportate alle richieste di prova già formulate in precedenza (circostanza, quest'ultima, che non consente di configurare alcuna violazione del principio del contraddittorio), aveva escluso la prova testimoniale degli avvocati Epifani e Lillo, ammessa dal precedente collegio, deve ritenersi assolutamente legittima.
Essa, infatti, appare del tutto conforme alla finalità perseguita dal Legislatore di assicurare, attraverso un inutile appesantimento dell'istruttoria dibattimentale, il valore di rango costituzionale della ragionevole durata del processo, evitando l'assunzione di prove superflue o irrilevanti, in relazione al quale va parametrato il potere del giudice di decidere in ordine all'ammissibilità della prova, che segue alla valutazione di pertinenza e rilevanza della stessa (cfr. Cass., sez. 5, 23/11/2006, n. 41340) e nel quale è incluso anche il potere, previsto dall'art. 495 c.p.p., comma 4, di procedere alla revoca della prova già ammessa, che risulti superflua.
Inammissibili devono ritenersi, invece, i rilievi sub F), in quanto con essi vengono esposte censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, in quanto tali, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, rv. 235507;
Cass., sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, rv. 235510; Cass., sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, rv. 235508).
Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di legittimità, pur dopo la novella dell'art. 606 c.p.p., ad opera della L. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. 6, 26.4.2006, n. 22256, rv.
234148).
Infondato appare, invece, il motivo di ricorso sub G), in quanto la tesi difensiva risulta autorevolmente contraddetta dal consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di falso in atto pubblico, il pubblico ufficiale estensore dell'atto (come, ad esempio, un verbale di arresto) non può invocare la scriminante dell'esercizio del diritto (art. 51 c.p.), sub specie del principio nemo tenetur se detegere, per avere attestato il falso al fine di non fare emergere la propria penale responsabilità in ordine all'episodio in esso rappresentato, non potendo la finalità probatoria dell'atto pubblico essere sacrificata all'interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto (cfr. Cass., sez. 5, 05/07/2012, n. 38085; Cass., sez. 5, 30/11/2011 n. 8579, Cass., sez. 5, 15/1/2010 n. 8252; Cass., sez. 5, 31/10/ 2007, n. 3557, Cass., sez. 5, 15/10/2004, n. 22672).
Peraltro, come correttamente evidenziato dalla corte territoriale, le prove dichiarative assunte (esame del M. e del D.M.;
deposizioni dei testi R., C., Mi.), consentono di affermare che il D.S. non si è limitato ad assistere inerte alla redazione, materialmente eseguita dai suoi sottoposti, degli atti pubblici, specificamente indicati nel capo D), in cui veniva omessa l'esposizione dell'accordo intervenuto con lo S. e della circostanza dell'avvenuto accompagnamento di quest'ultimo, da parte dei Carabinieri, a casa del V. per la consegna delle bombe a mano, ma ha contribuito in maniera decisiva alla redazione di tali atti, sovraintendendone ed orientandone la compilazione (cfr. pp. 115-116 della sentenza impugnata). La condotta dell'imputato, pertanto, appare di tipo commissivo, piuttosto che omissivo, nel senso che egli ha attivamente partecipato alla creazione di atti pubblici falsi, nella parte in cui in essi, da un lato è stato omesso ogni riferimento al reale svolgersi dei fatti, come determinati dal patto che i Carabinieri conclusero con lo S., dall'altro sono stati descritti come veri fatti, in realtà, mai verificatisi, come la detenzione delle due granate da parte del V. e della L..
Risulta, pertanto, priva di pregio l'ulteriore censura formulata dal ricorrente nel punto G), in quanto, nel caso in esame, a carico del D.S. risultano integrati tutti gli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, del delitto di falsità ideologica di cui all'art. 479 c.p., non potendo la condotta dell'imputato - sicuramente sorretta, in considerazione del contesto fattuale che precedette la redazione degli atti, dalla piena e dolosa volontà di tacere quanto realmente accaduto in virtù dell'accordo conclusosi tra i Carabinieri e lo S. - essere ricondotta alla previsione normativa di cui all'art. 328 c.p..
Risponde, infatti, di falso ideologico per omissione il pubblico ufficiale che, come il D.S., da un lato ometta di esporre un fatto la cui menzione attribuirebbe al tenore dell'atto un significato opposto, di guisa che l'enunciato descrittivo venga ad assumere un significato nel suo complesso contrario al vero (cfr.
Cass., sez. 5, 18/06/2008, n. 41131, rv. 241602); dall'altro, come affermato da un condivisibile orientamento del Supremo Collegio, integri, anche solo moralmente o a mezzo di un puro supporto incentivo, l'attività dissimulatrice del materiale esecutore del reato (cfr. Cass., sez. 5, 22/06/2012, n. 39378).
Già risolte nei sensi espressi nel punto n. 5), trattando della posizione dello S., alla cui lettura si rimanda, sono le questioni prospettate sub H) ed I), mentre manifestamente infondata appare la tesi difensiva volta a ricondurre la condotta del D. S. allo schema previsto dall'art. 116 c.p., di cui manca l'essenziale presupposto della diversità tra reato commesso e reato voluto da taluno dei concorrenti (cfr. Cass., sez. 6, 09/10/2012, n. 4157, rv. 254294), posto che l'imputato ha condiviso con gli altri imputati tutte le fasi della programmazione, volizione ed esecuzione delle condotte illecite loro contestate nel capo F), rendendo, pertanto, applicabile la comune disciplina in tema di concorso di persone nel reato, che, tuttavia, non consente di configurare la responsabilità penale del D.S. in relazione alla detenzione delle granate destinate ad essere collocate nell'abitazione del V..
Del possesso delle bombe a mano, infatti, lo S., attraverso il M., aveva informato gli altri imputati appartenenti all'Arma dei Carabinieri, ivi compreso il D.S., che, come si è visto, decisero di non procedere all'immediato sequestro delle armi, progettando di utilizzarle per addebitarne, falsamente, la detenzione al V., la sera immediatamente successiva al momento in cui, alle ore 18.00 dello stesso giorno, lo S. era stato contattato dal V. per organizzare un attentato contro il maresciallo M..
La stessa corte territoriale, nel descrivere le fasi attraverso le quali due delle bombe a mano possedute dallo S. vennero collocate nell'abitazione dove si trovavano il V. e la L., sottolinea come, dopo l'ideazione del piano, "i Carabinieri, accompagnati dallo S., recuperarono due delle quattro granate a sua disposizione; S., quindi, portò le granate a casa di V. e L., sulla base di un'operazione concordata con i Carabinieri. Successivamente furono sequestrate le altre due granate e la pistola di cui al capo B)" (cfr. p. 60 della sentenza impugnata).
Apparendo come dati indiscutibili, non contestati da nessuna delle parti, che sino alla data del 5 marzo 2004, i quattro ordigni erano stati detenuti dal solo S., mentre nella notte tra il 5 ed il 6 marzo gli stessi ordigni erano stati materialmente portati nell'abitazione del V. e della L. dallo S., con l'attivo concorso dei carabinieri D.S., F., M., D.M. e B., che, poi, avevano recuperato le altre due bombe a mano detenute dallo S., non può non rilevarsi come, rispetto alle suddette granate, non sia configurabile un'autonoma condotta di detenzione ascrivibile ai menzionati imputati appartenenti all'Arma dei Carabinieri, la cui disponibilità delle bombe a mano è sorta solo contestualmente al porto delle medesime.
Per la configurabilità del delitto di detenzione illegale di arma è necessario, infatti, che il soggetto abbia acquisita la disponibilità, immediata o anche mediata, dell'arma, sì da poterne disporre in via autonoma per un tempo apprezzabile (cfr. Cass., sez. 1, 11/05/2007, n. 35090).
Si verifica, invece, un assorbimento del reato di detenzione in quello di porto dell'arma, quando la detenzione, come nel caso in esame quella addebitabile ai Carabinieri, sia limitata al tempo in cui è stato posto in essere il reato di porto illegale dell'arma e non abbia avuto alcuna autonomia temporale (cfr. Cass., sez. 1, 04/11/1993, Marini).
In altri termini, in tema di reati concernenti le armi, il delitto di porto illegale comprende ed assorbe per continenza quello di detenzione, escludendo il concorso materiale di tali reati quando l'azione del detenere l'arma inizi contestualmente a quella di portare la medesima in luogo pubblico e vi sia la prova che l'arma non sia stata in precedenza detenuta (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 1, 9.4.2013, n. 18410, rv. 255687).
Sulla base delle svolte osservazioni la sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio nei confronti del D.S., del F., del M., del D.M. e del B., con riferimento al delitto di detenzione delle armi da guerra di cui al capo F), perchè il fatto non sussiste.
Infondate appaiono le doglianze sub L), che non tengono conto dell'effettivo contesto storico nel quale si inseriscono le condotte integranti i reati contestati nei capi E) e G), dichiarati estinti per prescrizione, di cui il ricorrente contesta la configurabilità, ovviamente solo ai fini risarcitori.
Ed invero tanto l'intervenuta assoluzione del V. dal delitto di cui al capo A), relativo alla detenzione e porto delle bombe a mano, di cui aveva la disponibilità lo S., quanto la disposta archiviazione del procedimento penale sorto nei confronti dell'altra parte civile L. per il medesimo reato, costituiscono degli eventi post factum, che non incidono sulla fondatezza delle contestazioni di cui ai capi E) e G).
Nella pur articolata ricostruzione della vicenda processuale che ha interessato il proprio assistito, il difensore trascura di considerare quanto evidenziato dalla corte territoriale in ordine alla circostanza che le condotte di cui si discute sono state poste in essere dal D.S. e dagli altri imputati sulla base di un preciso disegno criminoso, volto artatamente ad addebitare al V. ed alla sua convivente L. un'artificiosa condotta illecita (la detenzione di due bombe a mano), che costoro, pacificamente, non avevano mai commesso (cfr. p. 117 della sentenza oggetto di ricorso).
Si tratta di un particolare non trascurabile, ma decisivo, per affermare la configurabilità della calunnia, reato di pericolo per il quale non è necessario l'inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sè gli elementi necessari e sufficienti per determinare l'avvio di un procedimento penale nei confronti di una persona, che si sa innocente, univocamente e agevolmente individuabile, come erano, nel caso in esame, il V. e la L.. A questi ultimi, infatti, in quanto occupanti dell'abitazione dove lo S. aveva portato due delle quattro granate in suo possesso, su incarico dei Carabinieri, che hanno agito nella piena consapevolezza dell'innocenza di entrambi gli imputati rispetto al reato della cui esistenza stavano simulando le tracce, sarebbe stata immediatamente attribuita l'illecita detenzione degli ordigni. Cosicchè soltanto nel caso di addebito che, a differenza di quello in esame, non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare - perchè in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso - la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere insussistente l'elemento materiale del delitto di calunnia (cfr. ex plurimis, Cass., sez. 6, 22/01/2014, n. 10282, rv. 259268; Cass., sez. 6, 16/05/2012, n. 32944, rv. 256253).
Identiche considerazioni valgono per i reati di arresto e perquisizione arbitraria di cui al capo G), che si fondano sulla medesima "realtà" creata ad arte dal D.S. e dagli altri imputati.
Entrambi, infatti, rientrando fra le ipotesi di reato a cosiddetta illiceità o antigiuridicità speciale, richiedono per la loro configurazione l'abuso o l'arbitrarietà dell'atto compiuto dal pubblico ufficiale, che, oltre, ad essere parte integrante del fatto di reato, condiziona anche la sussistenza del dolo, consistente nella coscienza e volontà dell'abuso delle funzioni da parte dell'agente (cfr. Cassazione penale, sez. 6, 18/01/1996, n. 3413, Geracetano), presupposti in tutta evidenza presenti nella condotta del D. S. e degli altri imputati con quest'ultimo concorrenti nei medesimi reati.
Inammissibili, infine, appaiono le doglianze sub M), relative alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Ed invero, come chiarito dall'orientamento assolutamente dominante in sede di legittimità, condiviso dal Collegio, in tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l'affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda. In questa prospettiva, anche uno solo degli elementi indicati nell'art. 133 c.p., attinente alla personalità del colpevole o alla entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso, può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti generiche. Per il diniego della concessione delle attenuanti generiche, pertanto, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purchè la valutazione di tale rilevanza tenga obbligatoriamente conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall'interessato (cfr., ex plurimis, Cassazione penale, sez. 4, 28/05/2013, n. 24172;
Cass., sez. 3, 23/04/2013, n. 23055, rv. 256172).
A tali principi si è puntualmente attenuta la corte territoriale, evidenziando, con motivazione approfondita ed esente da vizi logici, come la concessione delle circostanze generiche sia impedita proprio dalla gravità della condotta dell'imputato, il quale "ha indotto i suoi subordinati a commettere i gravi reati oggetto dell'odierno processo, danneggiandone irrimediabilmente la carriera, la vita e la serenità", rilievo, quello della gravità della condotta, che non è stato sottoposto a specifica critica dal ricorrente.
Evidente, dunque, la manifesta infondatezza del motivo di ricorso, avendo la corte territoriale puntualmente utilizzato i criteri di cui all'art. 133 c.p., per fondare la propria argomentata decisione, rispetto alla quale le censure del ricorrente sulla mancata considerazione di altri elementi che avrebbero potuto giustificare il riconoscimento dell'invocato beneficio, si appalesano, in realtà, come rilievi attinenti all'adeguatezza dell'entità del trattamento sanzionatorio, non consentiti in sede di legittimità, in quanto implicanti una valutazione di puro merito.
6.1. Passando ad esaminare i motivi del ricorso proposto nell'interesse del D.S. dall'avv. Di Casola, sintetizzati nei punti contrassegnati dai numeri da 1) a 20), in precedenza indicati, va innanzitutto rilevato che alcuni consistono nella reiterazioni delle medesime questioni proposte dall'avv. Mariani, alle quali è stata già fornita risposta nelle pagine precedenti, ovvero devono ritenersi risolti nella statuizione di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in relazione al delitto di cui al capo B), perchè estinto per prescrizione, come già detto, ovvero al delitto di detenzione delle granate di cui al capo F), perchè il fatto non sussiste.
Di conseguenza, con riferimento alle questioni prospettate nel ricorso a firma dell'avv. Di Casola nei punti sub n. 1); n. 2); n. 3); n. 4); n. 5); n. 7); n. 8); n. 9) e n. 20), si rimanda alle considerazioni già svolte nelle pagine precedenti. Con riferimento alle censure sub n. 6), quelle che riguardano il porto delle armi da guerra di cui al capo F), devono considerarsi inammissibili, sia perchè generiche, sia perchè si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, in quanto tali, come si è detto, precluse in sede di giudizio di cassazione.
Sulle questioni poste sub n. 10); n. 11); n. 12); n. 13); n. 14) e n. 15), si è già fornita esauriente risposta nella parte della presente motivazione, cui si rimanda, dedicata alla esposizione delle ragioni per le quali deve ritenersi fondata l'affermazione della responsabilità del D.S. per i fatti di cui al capo D), a titolo di concorso morale, senza che sia possibile ritenere applicabile in suo favore l'esimente di cui all'art. 51 c.p.. Al riguardo va ulteriormente osservato che i rilievi difensivi su di una pretesa violazione dell'art. 6 della CEDU, da parte dell'orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità sulla inapplicabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., ai reati di falso in atto pubblico, non sono condivisibili. Il diritto che l'art. 6 della CEDU riconosce ad ogni persona a tacere ed a non contribuire alla propria incriminazione, come irrinunciabile crisma di un "processo equo", opera esclusivamente nell'ambito di un procedimento penale già attivato, e non nella fase di commissione del reato, precedente all'insorgere di una "procedura penale", in quanto, come evidenziato dalla migliore dottrina e dalla stessa giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, "la sua ratio risiede nella protezione dell'imputato contro una coercizione abusiva da parte delle autorità, al fine, inter alia, di evitare errori giudiziari. Il diritto in questione presuppone che la pubblica accusa tenti di provare le proprie tesi senza ricorrere a elementi di prova ottenuti con la minaccia di una sanzione e/o in forza di pressioni contro la volontà dell'imputato (cfr. C.edu Brusco contro Francia 14.10.2010; C.edu Bykov contro Russia 10.3.2009).
Appare, dunque, evidente come proporre l'applicazione di tale principio in funzione scriminante della condotta del D.S. non colga nel segno, in quanto nel caso in esame l'imputato non era esposto ad alcuna coercizione abusiva da parte dell'autorità nel momento in cui, con la sua condotta, ha contribuito alla creazione degli atti falsi innanzi indicati: in particolare non era sottoposto ad indagini ovvero ad attività di accertamento, come nei casi oggetto delle sentenze richiamate dall'avv. Di Casola a sostegno della propria tesi.
In ordine ai rilievi esposti nel punto n. 16), del pari se ne deve evidenziare l'infondatezza, non essendo revocabile in dubbio la natura di atti pubblici facenti fede sino a querela di falso, ai sensi dell'art. 476 c.p., comma 2, dei verbali di arresto, perquisizione e sequestro, redatti dalla polizia giudiziaria nell'esercizio delle loro funzioni di istituto.
Trattandosi di atti pubblici, in quanto posti in essere da pubblici ufficiali nell'esercizio di una pubblica funzione ed in adempimento del dovere di documentare specifiche attività di polizia giudiziaria mediante la redazione di un verbale (cfr. art. 357 c.p.p., comma 2;
art. 386 c.p.p., comma 3), essi, ai sensi dell'art. 2700 c.c., fanno "piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonchè delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti", posto che il regime di efficacia di un atto pubblico redatto da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni è quello sancito dal citato art. 2770 c.c. (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 3, 28.1.2003, n. 9975, rv. 223819). Già nella vigenza del precedente codice di procedura penale la Corte di Cassazione, con particolare riferimento al processo verbale di sequestro, aveva evidenziato come la compilazione di tale atto costituisse manifestazione del potere di documentazione fidefaciente espressamente attribuito all'ufficiale di polizia giudiziaria dall'art. 222 cpv. c.p.p. (cfr. Cass., sez. 5, 24/11/1983).
Sotto l'impero del nuovo codice di procedura penale, la giurisprudenza di legittimità, ribadita la naufa di atto pubblico dei verbali destinati a costituire la prova di attività rientrante nella pubblica funzione dell'ufficiale di polizia giudiziaria che la svolge (cfr. Cass., sez. 5, 19.11.1997, n. 11808, rv. 209234), quali, per l'appunto, i verbali di arresto, perquisizione e sequestro, ha ritenuto che il verbale di arresto (o di fermo), in quanto principale forma di documentazione dell'attività di limitazione della libertà personale svolta dalla polizia giudiziaria, è assistito da fede privilegiata, come si ricava dal combinato disposto degli artt. 115 disp. att. c.p.p. e art. 136 c.p.p., norma, quest'ultima, che pone in evidenza la funzione di esso e la qualificazione di atto pubblico dotato di fede privilegiata sino a querela di falso (cfr. Cass., sez. 1, 12.11.1990, n. 3952, rv. 186096).
Si è, dunque, affermato in tal modo, un principio di portata generale, valido per ogni caso in cui la documentazione dell'attività della polizia giudiziaria debba svolgersi mediante la redazione di un verbale.
Passando ad esaminare le questioni poste in relazione alle circostanze aggravanti nei numeri 18) e 19) (nell'elenco dei motivi di ricorso, per mera dimenticanza, il numero 17 non è stato contemplato), appare senza dubbio fondata la censura relativa alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9, trattandosi di aggravante incompatibile con i reati propri, in quanto, in tali ipotesi di reato, la qualità personale funge da elemento costitutivo o da presupposto della fattispecie tipica, per cui essa non può essere addebitata due volte a carico dell'imputato, prima come elemento costitutivo del reato di cui all'art. 479 c.p., poi come circostanza aggravante, ex art. 61 c.p., n. 9 (cfr. Cass., sez. 6, 7.12.1977, n. 533, rv. 137664). Corretta, invece, deve ritenersi la decisione della corte territoriale sulla sussistenza delle altre circostanze aggravanti. Con particolare riferimento alla aggravante prevista dall'art. 112 c.p., comma 1, n. 1), che prevede un aumento di pena se il numero di persone concorse nel reato è di cinque o più, si osserva, infatti, che il reato di porto di armi da guerra, di cui è stata ritenuta la sussistenza, risulta commesso, per l'appunto, da cinque imputati ( D.S., F., M., D.M. e B.).
In relazione alla circostanza aggravante di cui all'art. 112 c.p., comma 1, n. 3), contestata ai soli D.S. e F., va rilevato come autorevole dottrina ne abbia individuato il presupposto nell'esistenza di un particolare rapporto di subordinazione, quale emerge dalle nozioni di "autorità, direzione o vigilanza", in cui rientrano tutti i rapporti di subordinazione, innanzitutto quelli a carattere giuridico, tanto di natura pubblica, che di indole privata, come i rapporti nascenti in ambito familiare. Orbene, se si può concordare con l'affermazione fatta propria dall'orientamento giurisprudenziale citato dal ricorrente, secondo cui ai fini della configurabilità della predetta aggravante, il dato qualificante è rappresentato da un comportamento che, al di là di ogni classificazione del rapporto sottostante, abbia consentito la realizzazione di specifici reati, attenuando in concreto, pur senza annullarle, le facoltà di reazione del soggetto determinato ("coactus tamen volui") da parte di quello determinante, in forza di una coercizione, o meglio, di una soggezione psicologica derivante dal timore reverenziale o dalla preoccupazione di non pregiudicare i propri interessi o da semplice suggestione (cfr., Cass., sez. 2, 10/03/1989, n. 10693, rv. 181901), ciò non comporta la totale irrilevanza della natura del rapporto di subordinazione tra il soggetto "determinato" e quello "determinante", che assume, viceversa, rilevanza di non poco momento ai fini della prova dello stato di soggezione. Quanto più forte è il vincolo di subordinazione che lega l'un soggetto all'altro, in relazione al concreto contesto fattuale in cui si inserisce la condotta di determinazione a commettere reati, tanto maggiore risulterà evidente che il soggetto sottoposto all'altrui "autorità, direzione o vigilanza" ha agito per timore delle conseguenze sfavorevoli che avrebbero potuto derivargli dal non rendere la sua condotta conforme ai voleri del soggetto "determinante".
Tale è la condizione in cui si trovavano i carabinieri soggetti al potere gerarchico dei loro superiori in grado, D.S. e F., particolarmente intenso in considerazione sia della natura di forza militare dell'Arma dei Carabinieri, in cui l'insubordinazione assume una connotazione fortemente negativa e potenzialmente pregiudizievole per l'andamento della carriera, sia delle particolari condizioni in cui si trovavano ad agire i militi, comunque inseriti in un'operazione di polizia giudiziaria, in un contesto, dunque, in cui il rispetto degli ordini ricevuti assumeva un valore assoluto, grandemente limitativo della capacità di reazione dei subordinati. Inammissibile, infine, appare il rilievo sulla mancanza di motivazione della sentenza impugnata con riferimento all'elemento psicologico delle predette aggravanti, non solo perchè generico, ma anche perchè si tratta di profilo che non risulta avere formato oggetto di doglianza in sede di appello.
7. Passando ad esaminare la posizione del F., va, innanzitutto, rilevata l'infondatezza del primo motivo di ricorso in tema di incompetenza funzionale dell'autorità giudiziaria leccese ex artt. 11 e 11 bis c.p.p..
Quest'ultima, secondo la prospettiva del ricorrente, non avrebbe dovuto occuparsi del procedimento a carico del F., trattandosi di procedimento connesso con quelli per i quali l'autorità giudiziaria potentina ha proceduto, per l'ipotesi di reato di cui all'art. 328 c.p., nei confronti dei sostituti procuratori della Repubblica dottor. N. e dott. D.C., quest'ultimo per non aver ordinato il sequestro della pistola consegnata dallo S. al F. ed al M. nella sera tra il 22 gennaio ed il 23 gennaio del 2004, pur avendo ricevuta notizia della disponibilità della stessa in data 26.1.2004, il primo per non avere iscritto nel registro degli indagati i nomi del dott. D.C. e del dott. Ma., vale a dire per gli stessi fatti per i quali il F., unitamente al M. ed al D.S., è stato condannato in primo grado, con riferimento alla contestazione di cui al capo C). Proprio l'esistenza di un rapporto di connessione tra i menzionati procedimenti, imponeva ed impone, ad avviso della difesa, di individuare quale unico giudice competente quello potentino, ai sensi dell'art. 11 c.p.p., comma 3, richiamato dall'art. 11 bis c.p.p., per i procedimenti riguardanti i magistrati della Direzione nazionale antimafia.
Orbene la tesi difensiva non appare condivisibile, perchè, come correttamente ritenuto dalla corte territoriale, nel caso in esame difettano i presupposti di operatività della regola derogatrice in tema di individuazione del giudice competente fissata dall'art. 11 c.p.p., comma 3, vale a dire l'esistenza di uno dei casi di connessione previsti dal citato art. 12 c.p.p..
Ed invero, con particolare riferimento alla prima ipotesi di cui all'art. 12 c.p.p., lett. a), appare evidente che i procedimenti, da un lato non riguardano un reato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, non essendo configurabile alcun concorso del D.C. o del N. rispetto all'omissione consumata dal F. e dal M. già nella notte compresa tra il 22 ed il 23 gennaio del 2004, dall'altro hanno per oggetto un reato di condotta e non di evento; in relazione al caso previsto dall'art. 12, lett. b), non può dirsi ovviamente che si tratta di una sola persona imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso; in ordine, infine, all'ultimo caso contemplato dall'art. 12 c.p.p., lett. c), l'esistenza della connessione teleologia (l'unica sopravvissuta all'intervento parzialmente abrogativo operato dalla L. 1 marzo 2001, n. 63, art. 1, comma 1), è meramente assertiva, laddove risulta del tutto indimostrato che, come richiesto da un condivisibile arresto del Supremo Collegio, la volontà dell'agente, al momento della consumazione del reato-mezzo ipotizzato (l'omesso sequestro della pistola da parte del dott. D.C. ovvero l'omessa iscrizione nel registro delle notizie di reato ipotizzata a carico del N.), fosse effettivamente diretta alla commissione ovvero all'occultamento del reato-scopo (il mancato sequestro e conseguente occultamento della pistola già consegnata ai carabinieri dallo S.) e che quest'ultimo sia stato oggetto di rappresentazione da parte dello stesso agente con chiarezza tale da consentire almeno l'identificazione della sua fisionomia giuridica (cfr. Cass., sez. 6, 18.11.2009, n. 48552, rv. 245342). Del pari infondato deve ritenersi il motivo di ricorso sub n. 2, stante l'impossibilità di configurare la sussistenza, nemmeno sotto il profilo meramente putativo, dell'esimente di cui all'art. 51, c.p. Ed invero, come correttamente rilevato dalla corte territoriale, l'evidente illegittimità dell'ordine impartito dal colonnello Sq., sulla base di una pretesa autorizzazione del dott. D. C., che, ove effettivamente intervenuta, sarebbe stata ugualmente illegittima, di dare vita ad un'operazione che prevedeva la simulazione di prove a carico del V. per consentire una perquisizione d un arresto illegali, è inidonea a "privare di rilevanza penale una condotta certamente illecita" (cfr. p. 70 della sentenza impugnata).
Tale approdo interpretativo appare conforme all'orientamento dominante da tempo nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è applicabile la causa di giustificazione dell'adempimento di un dovere qualora il soggetto abbia agito in esecuzione di un ordine illegittimo impartitogli dal superiore gerarchico, nella piena consapevolezza della condizione fattuale (nel caso in esame rappresentata dalla creazione di una falsa rappresentazione della realtà, in modo da consentire di giustificare una perquisizione ed un arresto del tutto arbitrari), che rendeva illegittimo l'ordine impartitogli.
Proprio in applicazione di siffatti principi, in relazione ad un caso sovrapponibile a quello in esame, è stata affermata la responsabilità per il delitto di perquisizione arbitraria, di due carabinieri - rispettivamente appuntato e maresciallo - i quali in esecuzione di un ordine loro impartito dal maresciallo capo, - che non avendo ottenuto l'autorizzazione del magistrato alla perquisizione aveva simulato un controllo amministrativo per fingere di rinvenire una prova falsa che egli stesso aveva formato - avevano eseguito, nella sede di una società, una perquisizione illegale (cfr. Cass., sez. 5, 11/12/2008, n. 16703, rv. 243332; Cass., sez. 4, 13/06/2013, n. 38130; Cass., sez. 5, 03/12/2010, n. 3039, rv.
249705).
D'altro canto proprio l'evidente natura illegittima dell'ordine impartito, che travalica radicalmente i doveri connessi ai compiti di polizia giudiziaria svolti dal F. ed i limiti di legittimità del suo operato, esclude la sussistenza dell'errore ai sensi dell'art. 59 c.p., comma 4, (cfr. Cass., sez. 5, 05/03/2014, n. 15377).
L'adempimento di un dovere in forma putativa, infatti, postula pur sempre che l'errore sull'esistenza dell'esimente da parte del soggetto agente trovi adeguata giustificazione in qualche fatto (nel caso in esame del tutto assente), che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell'agente la giustificata persuasione di stare adempiendo ad un dovere, sicchè l'adempimento di un dovere in forma putativa non può valutarsi sulla base di un criterio esclusivamente soggettivo. Non coglie nel segno nemmeno il rilievo sub n. 3), con il quale si deduce che l'affermazione di responsabilità del F. risulta fondata sulle dichiarazioni rese dai coimputati nella fase delle indagini preliminari, utilizzate per contestare, ai sensi dell'art. 503 c.p.p., comma 3, le deposizioni rese in dibattimento dai suddetti coimputati, con cui tali dichiarazioni, nella loro valenza accusatoria nei confronti del F., erano state ritrattate.
Siffatte dichiarazioni, infatti, rileva il ricorrente, pur dovendo essere acquisite al fascicolo per il dibattimento ai sensi dello stesso art. 503 c.p.p., comma 5, una volta utilizzate per le contestazioni, non possono, tuttavia, essere utilizzate ai fini dell'affermazione della responsabilità di soggetti diversi dal dichiarante, ma, con riferimento a questi ultimi, solo ai fini di valutare la credibilità del dichiarante stesso, salvo che gli stessi coimputati prestino consenso all'utilizzazione piena ovvero ricorrano le circostanze indicate dall'art. 500 c.p.p., comma 4, secondo l'interpretazione costituzionalmente conforme, fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 197 del primo luglio 2009.
Orbene, se tali principi sono del tutto condivisibili, appare fallace l'applicazione che il difensore del F. ne propone al caso in esame.
Ed invero il ricorrente, da un lato non indica con sufficiente precisione quali sarebbero le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari dai coimputati del F., utilizzate per fondare la decisione sulla responsabilità di quest'ultimo, in quanto ritenute tali da riscontrare la chiamata di correità dello S., se non attraverso un generico e parziale riferimento (in violazione, tra l'altro, del principio della cd. autosufficienza del ricorso) alle dichiarazioni del D.S. raccolte dal pubblico ministero il 22.3.2005 ed a quelle rese dal brigadiere D. M. nel corso dell'interrogatorio di garanzia; dall'altro omette di considerare che, in relazione ai fatti per i quali il F. è stato condannato in primo grado il compendio probatorio è costituito dalle dichiarazioni rese dallo S. in sede di incidente probatorio, confermate da una serie di risultanze processuali (deposizioni testimoniali, dichiarazioni rese dai coimputati in sede di incidente probatorio; esiti delle intercettazioni disposte dall'autorità giudiziaria), oggetto di valutazione critica, condotta anche alla luce dei criteri propri della prova logica, che non formano oggetto di specifica contestazione e rispetto alle quali l'utilizzazione delle dichiarazioni rese dai coimputati in sede di indagini preliminari, non, come era consentito, per valutare la credibilità della successiva ritrattazione dibattimentale di quanto da essi dichiarato in precedenza ed, in particolare, in sede di incidente probatorio, ma ai fini dell'affermazione della responsabilità del F., assume un'incidenza del tutto residuale, ed, in quanto, tale, inidonea a produrre le conseguenze invocate dal difensore in termini di inadeguatezza della prova della responsabilità del F..
Inammissibili devono ritenersi, invece, gli ulteriori motivi di ricorso sub n. 4) e sub n. 5): il primo, perchè assolutamente generico; il secondo, in cui le censure si concentrano sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, per manifesta infondatezza, valendo al riguardo le considerazioni già svolte in ordine alla posizione del D.S., sub n. 6), alle quali si rimanda.
8. Quanto al ricorso presentato nell'interesse di M.V., si osserva che una serie di questioni prospettate dal ricorrente sono state già affrontate e risolte negativamente in occasione dell'esame della posizione del F..
Si tratta, in particolare, delle censure sintetizzate nelle pagine che precedono sub n. 1) e n. 6), in relazione alle quali si rimanda alle considerazioni già svolte.
Inammissibili appaiono, altresì, i motivi di ricorso indicati nel n. 9), con cui vengono sviluppati rilievi meramente fattuali, come già detto non consentiti in sede di giudizio di legittimità, nonchè nel n. 10), trattandosi, in questo caso, di censure attinenti al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che la corte territoriale ha motivatamente negato, alla luce dell'esistenza a carico dell'imputato di plurimi precedenti penali, facendo buon governo dei criteri fissati in subiecta materia dalla giurisprudenza di legittimità, come si è diffusamente argomentato, trattando della posizione del D.S., alla quale si rinvia. Infondati devono ritenersi i motivi di ricorso sub n. 2) e n. 3), per le ragioni esposte trattando, a proposito del D.S., le medesime questioni di diritto proposte dall'avv. Mariani, per cui, anche in questo caso, si rimanda alle considerazioni già svolte. Quanto al motivo di ricorso sub n. 4), per come esposto e per il riferimento esplicito in esso contenuto alla sola violazione dell'art. 430 bis c.p.p., non si comprende bene se con l'impugnazione il ricorrente si dolga dell'utilizzazione ai fini della decisione, delle dichiarazioni rese dal M. al pubblico ministero il 15.2.2005 o di quelle che hanno formato oggetto dell'incidente probatorio del M. il 28.2.2005 ovvero di entrambe. Si appalesa, in tal modo, una genericità del rilievo, che risulta rafforzata, per un verso dalla circostanza che, nelle pagine della sentenza impugnata indicate in ricorso (53, 54, 91, 82, 89 e 100), la corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non ha utilizzato nessuna delle dichiarazioni rese dal M. al pubblico ministero ovvero in sede di incidente probatorio per confermare la narrazione dello S., limitandosi solo (cfr. pag. 54) a richiamare, come fatto storico, la decisione del maresciallo M. di rivelare l'episodio della pistola nel verbale di spontanee dichiarazioni del 15.2.2005, specificando, al tempo stesso, l'inutilizzabilità a fini probatori di tale verbale; per l'altro dalla conclusione, meramente apodittica, secondo cui, in mancanza di tali dichiarazioni, la responsabilità del M. non poteva essere affermata, genericità che, pertanto, rende inammissibile il suddetto motivo. Va, inoltre, osservato che il tema del valore da attribuire alle dichiarazioni rese dal M. al pubblico ministero il 15.2.2005 è già stato affrontato in occasione dell'esame della posizione del D.S., cui si rimanda, evidenziandosi come da tale inutilizzabilità non possa farsi derivare la nullità dell'incidente probatorio del M., le cui dichiarazioni rese in tale sede sono pienamente utilizzabili, non solo contra alios, ma anche contra se.
L'originaria inammissibilità dell'impugnazione sul punto, infatti, non impedisce a questa Corte di cogliere l'occasione per affermare un principio di diritto nella materia sommariamente evocata nella parte finale del menzionato motivo di ricorso, su cui, peraltro, si sofferma brevemente la stessa corte territoriale (cfr. pp. 27 e 40 della sentenza impugnata).
Il quesito giuridico da risolvere è se debbano considerarsi o meno prove illegittimamente acquisite e, quindi, inutilizzabili ai sensi dell'art. 191 c.p.p., comma 1, le dichiarazioni della persona sottoposta ad indagini su fatti attinenti la propria responsabilità, rese in sede di incidente probatorio ammesso per procedere all'esame della stessa persona sottoposta ad indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri, ai sensi dell'art. 392 c.p.p., comma 1, lett. c).
Orbene, se appare difficilmente contestabile, stante il tenore letterale della disposizione, che l'incidente probatorio non può essere ammesso per procedere all'esame della persona sottoposta ad indagini su fatti concernenti la propria responsabilità ed a prescindere dalla disarmonia esistente, nel testo del citato art., tra tale previsione e quella di cui alla lett. d) dello stesso comma, che prevede la possibilità di procedere all'esame di persona imputata in un procedimento connesso, senza la limitazione esplicitata nella lett. c), non può, tuttavia, affermarsi che le eventuali dichiarazioni rese dalla persona sottoposta ad indagini su fatti riguardanti la propria responsabilità in sede di incidente probatorio ammesso ex art. 392, comma 1, lett. c), debbano ritenersi prove inutilizzabili, perchè illegittimamente acquisite, in quanto, come è stato evidenziato in un condivisibile arresto, la previsione di inutilizzabilità di cui all'art. 191 c.p.p., riguarda solo le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (cfr.
Cass., sez. 3, 5.2.2009, n. 13920, rv. 243268).
Sotto questo profilo l'estensione dell'oggetto dell'esame della persona sottoposta ad indagini dai fatti concernenti la responsabilità di altri a fatti concernenti la propria responsabilità, non incontra nessun divieto normativamente stabilito, risultando, piuttosto, autorizzata a contrario dalla previsione contenuta nell'art. 401 c.p.p., comma 6, che vieta, al di fuori dei casi di estensione dell'incidente probatorio esplicitamente "autorizzata" dal giudice contemplati nell'art. 402 c.p.p., solo la possibilità di estendere la prova assunta (quindi anche l'esame della persona sottoposta ad indagini) a fatti riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori partecipano all'incidente probatorio e tale non può definirsi, in tutta evidenza, la persona sottoposta ad indagini il cui esame sia stato ammesso su fatti relativi alla responsabilità di altri, che, ai sensi dell'art. 401 c.p.p., commi 1 e 2, partecipa all'incidente probatorio con la necessaria assistenza di un difensore, di fiducia o nominato dal giudice ex art. 97 codice di rito.
Ulteriore conferma di tale approdo interpretativo si rinviene nel disposto dell'art. 403 c.p.p., comma 1, secondo cui, in dibattimento, le prove assunte con l'incidente probatorio sono utilizzabili soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato alla loro assunzione, rendendo evidente che lo scopo perseguito dal Legislatore nel disciplinare i rapporti tra incidente probatorio e dibattimento, è quello di evitare che possano essere utilizzate nel secondo prove assunte nel primo al di fuori del contraddittorio tra le parti, per cui ove tale contraddittorio sia rispettato, perchè la persona sottoposta ad indagini è stata sottoposta ad esame con l'assistenza di un difensore., come previsto dall'art. 401 c.p.p., le dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio, anche quando siano contra se, devono ritenersi pienamente utilizzabili in dibattimento. Tale conclusione, del resto, appare in linea anche con la particolare natura dell'incidente probatorio, che rimane pur sempre una semplice fase (processuale) di anticipazione dell'assunzione dei mezzi di prova, rispetto all'ordinaria sede dibattimentale, per cui, non incidendo sulla struttura ontologica della prova, come confermato dall'art. 401 c.p.p., comma 5, secondo cui le prove ammesse nell'incidente probatorio sono assunte con le forme stabilite per il dibattimento, una volta che tali modalità siano rispettate, nessun ostacolo si frappone alla loro utilizzazione in dibattimento.
Può, in conclusione affermarsi il seguente principio di diritto:
sono legittimamente acquisite e, quindi, pienamente utilizzabili in dibattimento le dichiarazioni della persona sottoposta ad indagini su fatti attinenti la propria responsabilità, rese, nel contraddittorio tra le parti, in sede di incidente probatorio ammesso per procedere all'esame della stessa persona sottoposta ad indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri, ai sensi dell'art. 392 c.p.p., comma 1, lett. c).
Del pari inammissibili appaiono gli ulteriori motivi di ricorso sub n. 5) e n. 7).
Ed invero la questione relativa alla nullità del giudizio di primo grado per non essere stato consentito all'imputato di interloquire per ultimo, era stata sollevata solo dal D.S. e non anche dal M., che, pertanto, non può dedurla per la prima volta (peraltro in maniera del tutto generica), con il ricorso per cassazione.
Apodittico e, quindi, generico è il rilievo, secondo cui, una volta espunte le dichiarazioni predibattimentali degli altri imputati, non sussisterebbero elementi di riscontro a quelle accusatorie dello S., conclusione alla quale, peraltro, il ricorrente parte da un assunto, come si è visto, già smentito, secondo cui "la valutazione della responsabilità del capitano D.S. e, di conseguenza, di tutti gli altri coimputati" si fonda esclusivamente "sulla chiamata in correità di S., presuntivamente riscontrata dal contenuto delle dichiarazioni rese dagli imputati in sede di indagini preliminari ed acquisite al fascicolo del dibattimento a seguito delle contestazioni ex art. 503 c.p.p., commi 3 e 5".
9. Parzialmente fondato è il ricorso presentato nell'interesse di D.M.S..
Con particolare riferimento al primo motivo di ricorso se ne deve rilevare l'infondatezza.
Come è noto l'assoluto impedimento a comparire dell'imputato o del difensore può sussistere anche in relazione a una malattia, purchè si tratti di una patologia in grado di determinare nel soggetto che ne soffre un impedimento effettivo, legittimo e di carattere assoluto, riferibile ad una situazione non da lui dominabile, nè a lui ascrivibile, tale, in altri termini, da comportare l'impossibilità di comparire in giudizio, se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la propria salute (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5, 11.7.2008, n. 39217, rv. 242327; Cass., sez. 4, 28.1.2014, n. 7979, rv. 259287). In siffatta condizione, in ordine all'udienza del 24.9.2010 innanzi al tribunale di Brindisi, non si trovava l'avv. Alberto Sardano, che, come si evince dallo stesso ricorso, ricoverato in ospedale per una colica recidivante nella notte tra il 22 ed il 23 settembre 2010, ne veniva dimesso con una prognosi di guarigione di giorni tre, salvo complicazioni, lo stesso 23 settembre 2010.
Ed invero il mero riferimento alla prognosi di guarigione in tre giorni salvo complicazioni, non configura un legittimo impedimento a comparire nei rigorosi termini fissati dalla giurisprudenza di legittimità come in precedenza indicati, perchè nulla dice, tale prognosi, sulle ragioni che rendevano il difensore assolutamente impossibilitato a lasciare la propria abitazione in Monopoli per recarsi in tribunale (cfr. Cass., sez. 6, 16.12.2009, n. 716, rv.
215324), non rilevando, al riguardo, in senso contrario, la circostanza che all'avv. Sardano fosse stata prescritta una specifica terapia alla quale doveva sottoporsi presso il proprio domicilio per tutti i giorni di degenza, trattandosi, come evidenziato dallo stesso ricorrente, di una semplice somministrazione di farmaci, che, in tutta evidenza, non impedisce in modo assoluto gli spostamenti da un luogo ad un altro, per cui correttamente il tribunale di Brindisi ha rigettato la richiesta di rinvio di trattazione dell'udienza per assoluto impedimento a comparire del difensore di fiducia, nominando un difensore di ufficio.
Nè va taciuto, da un lato che, secondo un condivisibile orientamento, l'erronea esclusione del legittimo impedimento del difensore, integra una nullità a regime intermedio, sicchè, se essa si verifica nel corso del giudizio di primo grado, non può più essere rilevata o dedotta dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo (cfr. Cass., sez. 3, 13.11.2008, n. 47105, rv.
242257), come accaduto nel caso in esame in cui la relativa censura non è stata proposta con i motivi di appello; dall'altro che, in ogni caso, essendo proseguito il giudizio di primo grado dopo l'udienza del 24 settembre 2010, il difensore avrebbe dovuto indicare in cosa sarebbe consistita la lesione del diritto di difesa, in relazione ad atti specificamente posti in essere in quella sede, posto che la mancanza, in udienza, di qualsiasi attività istruttoria, non viola il diritto di difesa (cfr. Cass., sez. 2, 28/09/2010, n. 38474).
Infondato appare anche il rilievo sub n. 2), in quanto l'art. 64 c.p.p., che prevede le regole da seguire per l'interrogatorio, non trova applicazione nei confronti dell'esame reso dall'imputato in dibattimento, in ragione della differente natura dell'esame rispetto all'interrogatorio, evidenziata dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 2, 18/11/2005, n. 3822, rv. 233326).
Le regole fissate dall'art. 64 c.p.p., ed in particolare l'obbligo di procedere agli avvisi previsti dal secondo comma, di cui il ricorrente lamenta l'inosservanza, riguardano l'interrogatorio della persona sottoposta ad indagini, garantendone il diritto al silenzio, e non si applicano all'esame dell'imputato nel dibattimento, in cui il contraddittorio tra le parti è pieno e il diritto di difesa può esplicarsi nella massima ampiezza (cfr. Cass., sez. 1, 06/06/2007, n. 34560, rv. 237624; Cass., sez. 6, 11/04/2013, n. 17133), come si evince, del resto, dal disposto dell'art. 503 c.p.p., che, nel disciplinare le modalità di assunzione dell'esame delle parti private, non richiama la previsione dell'art. 64 codice di rito.
Inammissibili appaiono i rilievi sub n. 3) e n. 4), perchè con essi vengono prospettate censure di mero fatto, non consentite in sede di giudizio di legittimità, che, con riferimento al motivo di cui al n. 4), risultano anche generiche. Fondato, invece, è il motivo sub n. 5).
La corte territoriale, infatti, sia per il D.M. che per il B., è incorsa in un evidente errore di diritto, in quanto, pur avendo dichiarato non doversi procedere nei confronti di D.M. e di B. in relazione ai reati agli stessi contestati nei capi E) e G), perchè estinti per prescrizione, ha confermato la pena irrogata in primo grado ai suddetti imputati, condannati per tali reati, con evidente violazione del principio di cui all'art. 597 c.p.p., comma 4. Si impone, pertanto, un annullamento sul punto della sentenza impugnata, che coinvolge anche le statuizioni sul pagamento delle spese del procedimento di secondo grado, che, ai sensi dell'art. 592 c.p.p., comma 1, possono essere poste a carico dell'appellante solo nel caso in cui il provvedimento che rigetta o dichiara illegittima l'impugnazione sia immune da vizi.
10. Le considerazioni svolte esaminando la posizione del D.M. valgono anche per il B., in considerazione della coincidenza dei motivi di ricorso presentati nell'interesse del B. con parte dei motivi di impugnazione prospettati nell'interesse del D. M., trattandosi di imputati assistiti dallo stesso difensore.
11. Concludendo, l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio in favore dello S., per intervenuta estinzione per prescrizione del delitto di ricettazione di cui al capo B), comporta l'eliminazione, come già detto, della relativa pena di mesi due di reclusione.
Invece l'annullamento della sentenza impugnata, da un lato nei confronti di D.S., F., M., D.M. e B., limitatamente ai reati di ricettazione di cui al capo B (ascritto ai soli D.S., M. e F.), perchè estinto per prescrizione, di detenzione di armi da guerra di cui al capo F), perchè il fatto non sussiste, nonchè all'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9, relativamente al reato di cui al capo D), in quanto non configurabile, dall'altro nei confronti dei soli D.M. e B. con riferimento alla pena ad essi inflitta in ordine ai reati (estinti per prescrizione) di cui ai capi E) e G), nei sensi in precedenza indicati, impone un rinvio ad altra sezione della corte di appello di Lecce al limitato fine di procedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio nei confronti dei suddetti D. S., F., M., D.M. e B., mentre nel resto i ricorsi degli imputati vanno rigettati, con conseguente passaggio in giudicato della impugnata sentenza in punto di affermazione di responsabilità dei prevenuti per tutti gli altri reati di cui è stata affermata la sussistenza, non estinti per prescrizione.
11. I ricorrenti vanno, altresì, condannati alla rifusione, in favore della parti civili costituite delle spese del presente giudizio di legittimità, che, ai sensi del decreto del Ministro della Giustizia 20 luglio 2012 n. 140, "Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, si fissano in complessivi Euro 2000,00, oltre accessori come per legge, per ciascuna delle parti civili.
PQM
P.Q.M.
La Corte:
annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di S.M., D.S.C.D., F.V. e M.V., limitatamente al reato di ricettazione di cui al capo B) perchè estinto per prescrizione; nei confronti di D. S., F., M., D.M.S. e B. G., limitatamente al reato di detenzione di armi da guerra di cui al capo F), perchè il fatto non sussiste, nonchè all'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9, relativamente al reato di cui al capo D), circostanza che elimina.
Elimina la pena di mesi due di reclusione nei confronti dello S..
Rigetta nel resto i ricorsi dei predetti imputati.
Rinvia ad altra sezione della corte di appello di Lecce per la rideterminazione della pena nei confronti di D.S., F., M., D.M. e B..
Condanna i ricorrenti in solido al rimborso delle spese processuali sostenute nel grado dalle parti civili, che liquida in favore di ciascuna di esse in Euro 2000,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2015
25-04-2016 17:31
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