Giornalista romana, vicina alla ndrangheta, finisce ai domiciliari e poi con l'obbligo di dimora, rappresentando, durante una intercettazione, all'interlocutore l'opportunità di interessare di un trasferimento da un carcere all'altro di un detenuto, genero del capo dell'associazione, un monsignore in grado di sollecitare l'intervento dell'arcivescovo militare delle carceri e di attivare i contatti di cui ella disponeva nell'ambiente vaticano.
Cassazione Sez. PRIMA PENALE, Sentenza n.38689 del 16/09/2016 udienza del 28/06/2016, Presidente DI TOMASSI MARIASTEFANIA Relatore SANDRINI ENRICO GIUSEPPE
SENTENZA sul ricorso proposto da: V.G. N. IL .....3 avverso l'ordinanza n. 43/2016 TRIB. LIBERTA' di CATANZARO, del 21/01/2016 sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE SANDRINI; lette/sentite le conclusioni del PG Dott. .......Uditi i difensori Avv.; L. - RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza in data 21.01.2016 il Tribunale di Catanzaro, costituito ai sensi dell'art. 309 cod.proc.pen., in parziale riforma dell'ordinanza emessa il 28.12.2015 con cui il GIP in sede aveva applicato a V. G. la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, sostituiva la misura genetica con quella, ritenuta adeguata, dell'obbligo di dimora nel Comune di Roma. Il Tribunale riteneva che le risultanze d'indagine avessero riscontrato il contributo concreto, specifico e volontario apportato alla conservazione e al rafforzamento delle capacità operative del locale di C., capeggiato da N.G.A., dell'associazione mafiosa denominata ndrangheta, da parte dell'indagata, mediante la messa a disposizione dei vertici del sodalizio della sua rete di conoscenze e relazioni personali negli ambienti ecclesiastici romani, in quelli massonici e negli ordini di cavalierato, in particolare attivandosi per consentire il trasferimento di A.G., genero del capo della cosca e detenuto per omicidio, dal carcere di Sulmona a un carcere calabrese, in modo da assicurare una più facile correlazione tra i vertici del sodalizio criminoso e il detenuto, nonché interessandosi di occulte operazioni finanziarie. Il Tribunale rilevava che l'esistenza della cosca di ndrangheta capeggiata da N.G.A. era già stata accertata in più sentenze; che la figura e il ruolo dell'indagata, giornalista romana, era emerso dall'intercettazione delle conversazioni con l'affiliato F.L.; riportava i contenuti e il significato attribuito alle conversazioni ritenute maggiormente indizianti intercorse tra i due soggetti, riguardanti il recapito di documentazione afferente il trasferimento dell'A.alla V., la quale rappresentava all'interlocutore l'opportunità di interessare della vicenda un monsignore in grado di sollecitare l'intervento dell'arcivescovo militare delle carceri e di attivare i contatti di cui ella disponeva nell'ambiente vaticano; la stessa V. decideva di chiamare personalmente la moglie di N.G.A., e risultava altresì intrattenere rapporti con altri affiliati alla cosca come A. F., nei cui confronti peraltro si dichiarava indisponibile a prestare un avallo dell'importo di 5.000 euro; era stata la V. a presentare al capo cosca (da lei appellato amichevolmente nelle conversazioni come "fratelluccio") e ai suoi sodali S. B. , soggetto a sua volta cautelato per il reato di cui agli artt. 110 e 416 bis cod. pen., quale avvocato e fratello massonico; successivamente la V. si prestava ad accompagnare a Roma la moglie di N.G.A. a un incontro con un monsignore avente ad oggetto il trasferimento del genero. Il Tribunale rilevava che dalle intercettazioni era emersa la conoscenza da parte della V. delle indagini in corso a carico della cosca, nonchè dell'ostacolo al trasferimento dell'A. rappresentato dalla DDA di Catanzaro; che la perquisizione eseguita nell'abitazione dell'indagata aveva consentito di acquisire fotografie che la ritraevano in compagnia di N.S. (esponente di rilievo dell'omonima cosca della Locride) e di C. G., arrestato per il reato di cui all'art. 416 bis cod. pen.; che le cautele utilizzate nel corso delle conversazioni evidenziavano la consapevolezza della V. del calibro criminale dei suoi interlocutori; ed escludeva che le deduzioni difensive meramente negatorie di responsabilità dell'indagata in sede di interrogatorio imponessero al GIP di darne e tenerne conto. 2. Ricorre per cassazione V. G, a mezzo del difensore, deducendo due motivi di doglianza. 2.1. Col primo motivo, la ricorrente lamenta violazione di legge, in relazione all'art. 292 cod.proc.pen., rilevando l'insussistenza di un quadro indiziario in grado di giustificare l'applicazione di una misura cautelare, essendosi limitata la condotta incriminata a un gesto umanitario privo di qualsiasi finalità di agevolare un sodalizio criminoso, nell'inconsapevolezza della caratura criminale dei propri interlocutori; lamenta l'omessa considerazione degli elementi favorevoli all'indagata emersi dal suo interrogatorio, che fornivano una lettura alternativa del risultato delle intercettazioni, di cui la legge processuale imponeva di tener conto agli effetti cautelari, con conseguente nullità dell'ordinanza applicativa della misura coercitiva. 2.2. Col secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione di legge, in relazione agli artt. 266, 273, 274, 275 e 283 cod.proc.pen., rilevando che dal contenuto delle conversazioni captate, su cui era basata l'emissione della misura a suo carico, non era possibile ricavare il dato dirimente riguardante le motivazioni che l'avevano spinta a prodigarsi per aiutare un detenuto in difficoltà; in particolare, dall'interesse perseguito dall'interlocutore S.non poteva ricavarsi la volontà della V. di agevolare la cosca mafiosa, o la consapevolezza di essere utile agli scopi dell'associazione criminosa, essendo la condotta dalla ricorrente ispirata esclusivamente dal fine di agevolare il trasferimento carcerario di A.G. per effetto della gravidanza della moglie; deduce che la genuinità e lo spirito umanitario che avevano animato la condotta emergevano dal contenuto della conversazione captata a bordo della vettura del F. e dal diniego opposto a una presunta richiesta di avallo da parte di un preteso partecipe del sodalizio criminale; censura la contraddizione insita nell'utilizzo di intercettazioni di cui la ricorrente sospettava l'attivazione, con riguardo all'attenzione posta alla presenza di eventuali microspie, così da inficiarne in radice la genuinità. CONSIDERATO IN DIRITTO 2 1. Il ricorso è complessivamente fondato, nei termini e per le ragioni che seguono. 2. Costituisce principio acquisito, nell'elaborazione giurisprudenziale di questa Corte, che la condotta punibile a titolo di concorso esterno in associazione di tipo mafioso richiede che la condivisione delle finalità perseguite dal gruppo criminale, da parte del soggetto estraneo all'associazione, si sia tradotta in un concreto ausilio alla realizzazione di uno o più degli scopi tipici del programma delittuoso del sodalizio (Sez. 1 n. 49067 del 10/07/2015, Rv. 265423); per assumere il ruolo di concorrente esterno, punibile ex artt. 110-416 bis cod. pen., il soggetto che non sia inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione, e sia privo di affectio societatis, deve fornire un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo - di natura materiale o morale - al sodalizio, che sia in grado di esplicare un'effettiva rilevanza causale e si configuri, dunque, come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (ovvero, per quelle operanti su larga scala, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia consapevolmente diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della stessa (ex plurimis, Sez. 6 n. 33885 del 18/06/2014, Rv. 260178; Sez. 6 n. 8674 del 24/01/2014, Rv. 258807). 3. Nel caso di specie, l'ordinanza impugnata non ha dato conto adeguato e coerente dell'esistenza, a livello di gravità indiziaria, di un contributo, munito dei requisiti appena indicati, apportato dalla ricorrente alla sopravvivenza e al rafforzamento dell'articolazione (locale) di Cutro della cosca di ndrangheta capeggiata da N.G.A., che è stato invece affermato in termini contraddittori ed essenzialmente assertivi. Le condotte richiamate nell'ordinanza - e più sopra riportate in sede di ricostruzione del fatto processuale - risultano prive, infatti, della decisiva valenza indiziante ad esse attribuita dal Tribunale. Con riguardo all'interessamento dimostrato dall'indagata, mediante l'attivazione dei propri contatti e conoscenze personali in ambienti ecclesiastici e massonici, per favorire il trasferimento (non realizzatosi) di A.G., genero del capo della cosca, dal carcere di Sulmona (dove l'Abramo risulta detenuto per il reato di omicidio) a un carcere calabrese, la condotta della ricorrente - peraltro risoltasi, in base alla stessa prospettazione di fatto del provvedimento impugnato, in un (mero) tentativo di agevolare il conseguimento del relativo risultato di ritenuto interesse della cosca - non può considerarsi inequivocamente significativa, in carenza di un'adeguata motivazione incentrata sull'elemento psicologico dell'agente, del perseguimento della consapevole finalità, da parte dell'indagata, di apportare per tale via un contributo determinante, o comunque 3 causalmente utile, all'operatività del sodalizio mafioso, piuttosto che sintomatica di un'intenzione ausiliatrice (per quanto censurabile, trattandosi degli esponenti di una pericolosa cosca di ndrangheta) nei confronti personali del detenuto e dei suoi familiari. Quanto agli elementi indiziari di un coinvolgimento della ricorrente in attività finanziarie di interesse della cosca, che il Tribunale ha genericamente argomentato sui risultati dell'attività di captazione, la motivazione dell'ordinanza gravata risulta ex se intrinsecamente contraddittoria laddove dà invece atto, nel testo stesso del provvedimento, dell'indisponibilità manifestata dall'indagata (nel corso del colloquio registrato del 27.05.2012 con F. L.) a "firmare un avvallamento di 5000 euro" a un soggetto - A.F. - indicato come partecipe del sodalizio mafioso. 4. La complessiva incongruenza argomentativa delle ragioni spese a supporto dell'applicazione della misura coercitiva risalta, d'altronde, dalla stessa tipologia della misura in concreto prescelta e dalla sua manifesta inidoneità intrinseca a cautelare (a fronte del rigoroso regime presuntivo sancito invece, in relazione al titolo del reato, dall'art. 275 comma 3 cod.proc.pen.) le esigenze di prevenzione - dichiaratamente individuate nella necessità di inibire i contatti, ritenuti funzionali all'operatività dell'organizzazione criminale, di cui l'indagata dispone negli ambienti romani - che sono state rappresentate nel provvedimento impugnato, e che sono apertamente contraddette dalla libertà di movimento nell'intero territorio comunale di Roma, consentita dall'obbligo di dimora imposto proprio nella capitale; la natura sostanzialmente evanescente del giudizio di pericolosità, che ne risulta formulato a carico della ricorrente, finisce così inevitabilmente per ripercuotersi sulla stessa tenuta logica del ragionamento indiziario che dovrebbe sorreggere la veste di concorrente esterna in un'associazione mafiosa (in tesi munita di una vasta rete di complicità) attribuita all'indagata. 5. Per i suddetti, assorbenti, motivi l'ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Catanzaro, in funzione di giudice del riesame dei provvedimenti cautelari de libertate. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Catanzaro, competente ex art. 309 cod.proc.pen.. Così deciso in data 28/06/2016 Il Consigliere estensore. Il Presidente./
13-11-2016 21:22
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