Militare della Marina condannato per truffa militare pluriaggravata e continuata, posta in essere con altro soggetto perchè egli aveva fatto in modo di inserire nei propri statini riepilogativi mensili un numero di ore di lavoro straordinario, di compensi forfettari di guardia e di ore di recupero compensativo ben superiore a quello effettivamente maturato, ottenendo la corresponsione totale della somma di Euro 4.992,00 quali somme non dovute.
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 15-03-2016) 23-09-2016, n. 39710
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VECCHIO Massimo - Presidente -
Dott. DI TOMASSI Maria Stefani - Consigliere -
Dott. SARACENO Rosa Anna - Consigliere -
Dott. MANCUSO Luigi Fabrizi - Consigliere -
Dott. MINCHELLA Antonio - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
L.P.B., nato il (OMISSIS);
Avverso la sentenza n. 45/2015 della Corte Militare di Appello di Roma del 09.09.2015;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso ed udita in pubblica udienza la relazione svolta dal Consigliere Dott. Antonio Minchella;
Udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. Luigi Maria Flamini, il quale ha chiesto dichiararsi la inammissibilità del ricorso;
Udito il difensore Avv. Mario Savini in sostituzione dell'Avv. Vincenzo Gigante, che si ha illustrato i motivi di ricorso, chiedendone l'accoglimento.
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 16.09.2014 il Tribunale Militare di Napoli condannava a mesi dieci di reclusione militare - con pena sospesa - L.P.B., (OMISSIS) della Marina Militare, per truffa militare pluriaggravata e continuata, posta in essere tra il (OMISSIS) perchè egli aveva fatto in modo di inserire nei propri statini riepilogativi mensili un numero di ore di lavoro straordinario, di compensi forfettari di guardia e di ore di recupero compensativo ben superiore a quello effettivamente maturato, ottenendo la corresponsione totale della somma di Euro 4.992,00 quali somme non dovute. Il Tribunale Militare nella sentenza passava in una rassegna molto analitica la mole notevole dei documenti prodotti dal P.M. e cioè statini riepilogativi, elenchi dei franchi, prospetti di lavoro straordinario, cedolini stipendiali, registi di rilevazione delle presenze, richieste di licenze, elenchi dei servizi di guardia, tutti relativi alle attività svolte ed alle assenze dell'imputato dalla nave sulla quale svolgeva il suo servizio. All'esito di questo dettagliato esame contenuto nella sentenza, il giudice concludeva che, sulla base della documentazione e delle deposizioni dibattimentali, sussistevano numerose ed evidenti discrepanze tra le annotazioni esistenti sugli elenchi dei franchi ed i dati riportati invece nei vari registri, statini e prospetti compilati per determinare l'ammontare degli emolumenti da liquidare: era emerso, cioè, che in numerose occasioni, nella quali il L. attestava di avere svolto servizi di guardia oppure ore di lavoro straordinario, in realtà egli non era nemmeno presente a bordo della nave o che comunque il servizio prestato aveva avuto una durata inferiore a quanto attestato o che aveva fruito di permessi o licenze mai contabilizzati o recuperi compensativi mai maturati effettivamente, e che tutti gli scostamenti contabili erano andati sempre a vantaggio dell'imputato. Verificata la regolarità formale della documentazione, il giudice rilevava che senza dubbio l'Amministrazione aveva subito un danno economico, corrispondendo al L. emolumenti non dovuti e che senza dubbio ogni incongruenza di registrazione era stata dovuta a condotte del L., il quale aveva redatto, sottoscritto e/o controfirmato le attestazioni in cui erano presenti i dati non rispondenti al vero; quanto all'elemento soggettivo, il Giudice ravvisava consapevolezza e volontà nei fatti stessi e lo traeva anche dalle dichiarazioni del medesimo imputato, che in dibattimento, sostanzialmente, confermava la sua confessione resa in precedenza al suo superiore diretto: il L. aveva aggiunto che le sue annotazioni erano state effettuate in modo bonario, giacchè egli spesso aveva lavorato allo spaccio anche fuori dall'orario lavorativo ed altri gestori precedenti e nonchè colleghi gli avevano suggerito queste condotte come una prassi per compensare la prestazione ulteriore; ma ciò veniva considerato, al più, un errore di diritto che non incideva sul fatto. Pertanto si riconosceva la sua responsabilità per i fatti descritti nell'imputazione, ma si riconoscevano le circostanze attenuanti generiche (per l'incensuratezza, i meriti di servizio e l'atteggiamento collaborativo) nonchè la circostanza attenuante dell'avvenuto risarcimento del danno prima del giudizio: ritenuta la prevalenza di queste circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti pure ritenute sussistenti, si individuava la pena base in mesi sette di reclusione militare, ridotta a mesi cinque per le circostanze attenuanti (un mese per ciascuna attenuante), cui si aggiungevano altri mesi cinque per la continuazione tra gli episodi criminosi, giungendo alla pena finale di mesi dieci di reclusione militare con pena sospesa e non menzione.
Avverso detta sentenza interponeva appello l'interessato, sostenendo la mancanza di elemento soggettivo poichè nell'imputato vi sarebbe stata soltanto la convinzione di seguire una prassi molto diffusa nelle Forze Armate allorquando il militare viene chiamato a svolgere incarichi ulteriori rispetto a quelli di servizio, come appunto quello di addetto allo spaccio, che lo impegnava per molte ore e per il quale egli aveva ritenuto giusto attestare ore di straordinario non fatto, per come gli sarebbe stato suggerito da superiori: del resto, si sosteneva che l'estrema ingenuità con la quale erano state compiute le attestazioni - di cui era facilmente riscontrabile la falsità - avrebbe dimostrato la mancata consapevolezza del divieto normativo. Si sosteneva, inoltre, che il danno era piuttosto indeterminato nel suo ammontare reale e che comunque il L. aveva accettato ogni determinazione perchè meravigliato che una condotta così diffusa costituisse invece un grave reato: si faceva poi notare che le verifiche effettuate presso lo spaccio della nave avevano dimostrato che egli aveva tenuto la contabilità in modo ordinato e preciso e che, se avesse avuto l'intenzione di lucrare somme non dovute, sarebbe stato per lui più semplice sottrarle allo spaccio che non falsificare le attestazioni di servizio. Infine si era chiesta una parziale rinnovazione istruttoria, una pena più contenuta o il riconoscimento della natura colposa del reato con rimessione degli atti al Tribunale ordinario.
Con sentenza in data 09.09.2015 la Corte Militare di Appello di Roma, ritenuta la responsabilità dell'imputato, concludeva per l'avvenuta prescrizione dei reati commessi sino al dì (OMISSIS) e riduceva la pena in mesi nove e giorni dodici di reclusione militare. La Corte Militare di Appello non accoglieva l'istanza di rinnovazione istruttoria parziale, ritenendo che le risultanze processuali erano più che adeguate per giungere ad una decisione: si riteneva emersa la piena fondatezza della responsabilità penale dell'imputato, giacchè era risultato che il L. aveva attestato turni di servizio persino quando risultava essere in licenza e ciò aveva insospettito i superiori i quali, disposti gli opportuni controlli per un ampio periodo temporale, avevano accertato, con apposita commissione, tutte le discordanze riportate in imputazione e cioè servizi di guardia, ore di lavoro straordinario e turni di ronda mai effettuati e annotati in diverse occasioni nelle quali il L. non era nemmeno a bordo della nave, con conseguente indebita percezione di danaro. Del resto, notava il Giudice che l'imputato nemmeno aveva negato queste circostanze, ma aveva cercato di giustificare il suo operato come un modo per compensare il lavoro svolto presso lo spaccio anche al di fuori dell'orario di servizio. Pertanto si riteneva provato l'elemento soggettivo della truffa e si respingeva la prospettazione di un danno non determinato in modo esatto, richiamando la precisione delle annotazioni sul c.d. elenco franchi, le quali davano conto delle presenze ed assenze dalla nave: su questo piano, il fatto che il danno, inizialmente quantificato in Euro 4992,00, fosse poi stato ridimensionato dal Commissariato Militare Marittimo di Taranto in Euro 3.768,00, appariva sostanzialmente ininfluente ai fini della responsabilità, non inficiata dall'indimostrato assunto di suggerimenti avuti da altri.
Infine si ritenevano prescritti i primi dodici episodi di truffa e, confermata l'entità della pena base e delle dimunizioni per le circostanze attenuanti, si riduceva l'aumento per la continuazione.
Avverso detta sentenza propone ricorso l'interessato a mezzo del suo difensore, deducendo ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), erronea applicazione della legge penale, poichè si sarebbe dovuto statuire che il L. aveva agito nella convinzione di non commettere alcuna azione illecita in quanto così consigliato da superiori gerarchici e in quanto, così agendo, realizzava il principio costituzionale dell'essere pagato per la qualità e quantità del lavoro svolto; la mancanza di volontà truffaldina si sarebbe poi dovuta dedurre dalla sua collaborazione alle indagini e dalla restituzione delle somme ottenute; inoltre si deduceva che il L. dovrebbe essere considerato come agente non in quanto pubblico ufficiale ma in quanto dipendente pubblico e quindi essere giudicato da un Tribunale ordinario per l'art. 480 c.p. e non per l'art. 234 c.p.m.p.. Si deduceva ancora, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) la mancata assunzione di una prova decisiva per non avere il Giudice proceduto ad escutere il Responsabile Nazionale del Comando Generale dell'Organismo di supporto logistico e cioè l'organizzazione degli spacci militari per capire se il L. doveva o meno essere pagato o rimborsato per l'attività svolta nello spaccio.
Il P.G. concludeva per l'inammissibilità del ricorso e segnalava un errore materiale contenuto nella pag. 22 della sentenza impugnata in ordine al numero degli episodi in contestazione.
Il difensore del ricorrente insisteva nell'argomento della esclusione di artifici o raggiri poichè la ricostruzione dei fatti era stata semplicemente effettuata sulla base della documentazione di nave e censurava il fatto che la sentenza impugnata non si fosse occupata dell'attività svolta presso lo spaccio con modalità non retribuite, circostanza questa che sarebbe stata rilevante in punto di sussistenza dell'elemento soggettivo.
Motivi della decisione
Il ricorso va dichiarato inammissibile, poichè esso contiene esclusivamente deduzioni di merito.
Nella parte precedente è stata sintetizzata la vicenda processuale: in sintesi estrema, il L. è stato condannato per avere attestato falsamente, sugli statini riepilogativi mensili, la sua presenza in servizio mentre non era affatto presente sul luogo di servizio o lo era stato per un numero inferiore di ore a quelle dichiarate; con questa condotta aveva indotto in errore l'Amministrazione militare di appartenenza, ottenendo la corresponsione di emolumenti non dovuti per un importo complessivo accertato nella somma di Euro 3.768,00. Va annotato che il ricorrente non contesta la materialità della condotta ed ha sostanzialmente ammesso di avere effettuato dette attestazioni.
Il ricorso articola le sue doglianze sui seguenti temi: 1) la asserita carenza dell'elemento soggettivo richiesto per la sussistenza del reato contestato; 2) l'asserito errore nell'avere processato il ricorrente per il reato di cui all'art. 234 c.p.m.p. e non invece per il reato di cui all'art. 480 c.p.; 3) la mancata assunzione di una prova asseritamente decisiva. Ognuna di queste doglianze è manifestamente infondata, poichè sostanzialmente orientata a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, in tal guisa richiedendo l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica consequenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione.
p. 1. Con il primo motivo di doglianza il ricorrente censura la asserita carenza dell'elemento soggettivo richiesto per la sussistenza del reato contestato.
Va invece rilevato che la configurazione del reato contestato al ricorrente è stata corretta da parte del giudice: La sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di truffa militare ascritto al ricorrente è stata ampiamente dimostrata dai giudici di merito sia per quanto riguarda l'elemento materiale e l'elemento psicologico, sia per quanto riguarda il danno arrecato alla P.A., sia per quanto concerne l'ingiusto profitto conseguito dall'imputato. Una volta ravvisata la esistenza del fatto così come descritto nella contestazione, la dimostrazione della configurabilità nella fattispecie del reato di truffa militare era da considerare ampiamente data.
Infatti, in tema di truffa, l'inganno che subisce il soggetto passivo non deve necessariamente derivare da un artificio o raggiro comunque riconoscibile, in quanto esteriorizzato dall'agente. Per quanto riguarda l'estremo dell'ingiusto profitto con altrui danno, lo stesso è in re ipsa quando il vantaggio economico ricavato dall'azione fraudolenta non sia dovuto o sia dovuto in misura inferiore.
Quanto all'esistenza dell'elemento soggettivo, è sufficiente ricordare che esso è costituito dal dolo generico, consistente nella cosciente volontà di conseguire il profitto ingiusto mediante l'induzione in errore, con l'utilizzo di un qualsiasi artificio, del soggetto passivo, aspetti tutti riscontrabili nella fattispecie in esame (Sez. 1, n 3491 del 31.01.2000, Rv 215516).
La sentenza impugnata, saldando la sua valutazione in fatto con quella di primo grado, è pervenuta a conforme conclusione in termini di ricostruzione della vicenda de qua: è stato evidenziato che, dalla mole della produzione documentale e dei relativi accertamenti effettuati, è risultato indubitato che il ricorrente, (OMISSIS) della Marina Militare, aveva attestato falsamente, in numerose occasioni tra l'anno 2008 e l'anno 2012, sugli statini riepilogativi mensili, di avere svolto servizi di guardia in realtà mai effettuati, così percependo indebitamente il compenso per il corrispondente lavoro straordinario con danni per l'Amministrazione militare. Il ricorrente non nega la materialità della condotta, ma sostiene che ciò era stato fatto - dietro suggerimento di colleghi e superiori gerarchici - al fine di "compensare" il lavoro svolto presso lo spaccio, il quale non veniva retribuito nonostante l'impegno che comportava; sostiene altresì che si trattava di una prassi comportamentale molto diffusa nell'Amministrazione di appartenenza che eliderebbe ogni volontà truffaldina, del resto non attuata con inganni particolari.
Evidente è l'infondatezza di queste argomentazioni.
Il giudice di appello ha evidenziato che il ricorrente aveva consapevolmente e deliberatamente riportato dati non veritieri relativi alla propria presenza in servizio ed allo svolgimento di turni di guardia; questa condotta era stata posta in essere appunto al fine di ottenere la liquidazione di emolumenti per attività mai svolte. Pertanto sussistevano tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, del reato contestato e sopra riportati.
Del resto, correttamente il giudice ha evidenziato che l'affermazione del ricorrente, da un lato, era priva di qualsiasi elemento di sostegno e, dall'altro, poteva, al più costituire un errore di diritto del tutto irrilevante, considerata la qualifica del predetto e la necessaria sua conoscenza dei doveri di ufficio.
p. 2. Con il secondo motivo si censura l'asserito errore di avere processato il ricorrente per il reato di cui all'art. 234 c.p.m.p. e non invece per il reato di cui all'art. 480 c.p..
Anche questa argomentazione è manifestamente infondata.
La giurisprudenza di legittimità ha affermato, con orientamento risalente e costante, che l'amministrazione militare deve intendersi circoscritta nelle strutture occorrenti per l'organizzazione del personale e dei mezzi materiali destinati alla difesa armata dello Stato (Sez. 1, n. 1410 del 19/01/2000, Rv. 215224; Sez. 1 n. 3491 del 31/01/2000, Rv. 215514).
In applicazione di tali principi, questa Corte ha affermato la giurisdizione dell'autorità giudiziaria militare, e non di quella ordinaria, in tema di truffe consumate da militari appartenenti al corpo della guardia di finanza o all'arma dei carabinieri, nel caso speculare a quello qui esaminato - di conseguimento di indebite prestazioni economiche non dovute, perchè eccedenti quelle effettivamente sostenute, in quanto il danno prodotto incide sul corpo di appartenenza del soggetto attivo del reato, che ha natura di ente militare integrante le forze armate dello Stato (Sez. 1, n. 1410 e 3491 del 2000, citate, nonchè, con specifico riguardo all'arma dei carabinieri, Sez. 1 n. 8952 del 5/02/2008, Rv. 239135). Le somme indebitamente riscosse dal militare in servizio, nei casi che sono stati esaminati dalla Corte di legittimità nei suddetti precedenti giurisprudenziali, così come nel caso oggetto del presente giudizio, sono state percepite, infatti, in connessione all'espletamento di attività rientranti nei compiti d'istituto propri del corpo di appartenenza (a titolo di retribuzione di ore di lavoro straordinario non prestate), e dunque non possono ritenersi estranee all'attività di difesa dello Stato istituzionalmente svolta dalla Marina Militare, che in tale veste di amministrazione militare risulta perciò essere il soggetto passivo ingannato dalla condotta fraudolenta dell'imputato e inciso dal danno economico dalla medesima prodotto.
Poichè nel caso in esame sia il soggetto attivo che quello passivo del reato sono qualificati dalla loro natura militare, il reato commesso dal ricorrente, in virtù del principio di specialità, è soltanto quello di truffa militare di cui all'art. 234 c.p.m.p. che radica la giurisdizione dell'autorità giudiziaria militare (Sez. 1, n 30723 del 03.03.2015, Rv 264486).
p. 3. Con il terzo motivo si censura la mancata assunzione di una prova asseritamente decisiva: il ricorrente indica la stessa nella escussione di un responsabile della organizzazione degli spacci militari allo scopo di chiarire se il L. dovesse o meno essere ricompensato per l'attività svolta nel punto di ristoro militare.
La doglianza è manifestamente infondata.
Sul punto, è necessario precisare che la doglianza relativa alla mancata ammissione di prova decisiva non può prescindere - in ossequio al principio dell'autosufficienza del ricorso - dall'assolvimento dell'onere di specificazione volto ad indicare il coefficiente di decisività della prova pretermessa, ossia la sua potenziale capacità, ove ammessa, di contrastare efficacemente le prove a carico sì da scardinare la tenuta logica del costrutto giustificativo della sentenza impugnata e da ribaltare il giudizio di colpevolezza. Nel caso di specie, l'onere dell'allegazione non può dirsi assolto, avendo omesso il ricorrente di indicare le ragioni per le quali la prova non ammessa sarebbe stata capace di disarticolare il percorso logico-giuridico seguito del giudice a quo, valendo a dimostrare la reclamata assenza di responsabilità nell'imputato, odierno ricorrente (Sez. 5, n 2815 del 12.11.2013, Rv 258878).
Nello specifico, infatti, la prova decisiva sarebbe consistita nella audizione del predetto responsabile della organizzazione degli spacci militari: trattasi di persona che non avrebbe potuto riferire in alcun modo sulla condotta del ricorrente e che sarebbe stato ascoltato in merito a quell'aspetto che già sopra è stato definito come un errore di diritto irrilevante nel giudizio.
Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., comma 1, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sentenza n. 186 del 2000), la condanna del medesimo al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo determinare, tra il minimo e il massimo previsti, in Euro 1.000,00.
Va infine soltanto precisato che, dichiarata la inammissibilità del ricorso, non può effettuarsi la correzione materiale degli elementi segnalati dal P.G., per cui ogni eventuale richiesta in tal senso dovrà essere rivolta alla Corte Militare di Appello.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2016
06-11-2016 12:00
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