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Sentenza

Caporal maggiore dell'Esercito produce 39 certificati medici per sottrarsi al se...
Caporal maggiore dell'Esercito produce 39 certificati medici per sottrarsi al servizio. Scoperto dai Carabinieri durante la presunta malattia svolgeva attività lavorativa nel negozio di frutta e verdura del cognato
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
M.G., nato il ......
Avverso la sentenza n° 35/2015 della Corte Militare di Appello di Roma
del 14.07.2015;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso ed udita in pubblica udienza la
relazione svolta dal Consigliere dott. Antonio Minchella;
Udito il Procuratore Generale, in persona del dott. Luigi Maria Flamini, il
quale ha chiesto il rigetto del ricorso;
Udito, per la parte civile, l'Avv.Udito il difensore Avv.

RILEVATO IN FATTO
Con sentenza in data 11.12.2014 il GUP del Tribunale Militare di Verona condannava alla
pena della reclusione militare in un anno e sei mesi M.G., già caporal maggiore
dell'Esercito Italiano, per i reati di simulazione di infermità e truffa militare pluriaggravata,
col beneficio della sospensione condizionale della esecuzione della pena, subordinato alla
prestazione di duecento ore di attività non retribuita a favore della collettività. Le
imputazioni concernevano la produzione di 39 certificati medici successivi rilasciati dal
29.10.2012 al 12.11.2012 e dal 26.11.2012 al 16.05.2014 con i quali egli induceva in
errore l'Amministrazione sulla sua capacità fisica di prestare servizio, sottraendosi così al
servizio militare simulando gravi conseguenze di una ernia discale ed una sindrome
depressiva nonché percependo ingiustamente la retribuzione relativa al periodo di servizio
non prestato. Il Giudice spiegava che la vicenda penale aveva avuto inizio allorquando il
reparto di appartenenza del Muraca aveva segnalato alla competente Procura Militare della
Repubblica che egli - in virtù di una serie di certificati medici tutti statuenti una prognosi di
pochi giorni ma succedutisi senza intervalli - continuava ad essere inquadrato in servizio
ed a percepire la relativa retribuzione senza però prestare attività lavorativa: si trattava di
certificazioni relative ad una diagnosi di ernia discale e di una sindrome ansioso-depressiva
che però non veniva sempre diagnosticata, ma compariva ad intermittenza nelle varie
certificazioni; così, per quasi due anni continuativi, l'imputato aveva mancato di svolgere
servizio risultando sempre bisognevole di riposo e cure, pur se ogni volta la prognosi era di
pochi giorni. Ed allora la Compagnia Carabinieri di Catanzaro svolgeva indagini, consistite
in servizi di osservazione e controllo ed in verifiche dei tabulati telefonici: ne era risultato
che il M.veniva visto costantemente - durante il periodo di malattia - svolgere
attività lavorativa nel negozio di frutta e verdura del cognato; era appunto il M. ad
aprire al mattino il negozio, a movimentare le cassette di frutta, ad usare il carrello
elevatore, a tenere i rapporti con la clientela ed a confezionare le buste, svolgendo attività
che richiedevano sforzi fisici ed agilità. Più in dettaglio, i servizi di osservazione erano stati
svolti in alcuni giorni non consecutivi tra il marzo e l'aprile 2014 e l'imputato era stato
sempre presente nell'azienda familiare; dai tabulati di un ampio periodo di tempo era
emerso un suo viaggio in Roma nell'anno 2013 e ben 1.037 contatti telefonici tra lui ed il
cognato tra il settembre 2012 e il gennaio 2014, ritenuti troppo numerosi per essere
giustificati dagli ordinari rapporti familiari. Nel corso del processo il cognato aveva
ammesso che il M.svolgeva quella attività lavorativa nel suo negozio, ma soltanto a
titolo gratuito e per distrarsi dalla depressione seguita alla morte della madre; il medico
che aveva redatto la gran parte dei certificati aveva spiegato di non sapere che il M.
svolgeva quelle attività lavorative, le quali sarebbero state impossibili se le sue condizioni
fossero state proprio quelle da lui lamentate; parimenti vi era un certificato medico in data
07.04.2014 in cui si attestava che l'imputato - il quale aveva rifiutato di sottoporsi ad un
intervento di microchirurgia - mostrava una andatura claudicante attribuita al dolore: ma
in quello stesso giorno un servizio di osservazione lo aveva notato mentre, al primo
mattino, apriva il negozio di frutta e verdura del cognato, per poi movimentare cassette di
frutta, usare il carrello elevatore e darsi alla vendita della merce, senza mostrare alcun
segno del dolore. Si era poi appurato che, in tutto il predetto periodo, il M. non aveva
acquistato farmaci per l'ernia discale né richiesto alcuna prestazione per la sindrome
depressiva. Il Giudice chiariva che certamente il Muraca presentava un'ernia discale, la
quale però non era una malattia invalidante di per se stessa né metteva in discussione la
idoneità al servizio militare: pertanto, era irragionevole ipotizzare una fase di acuzie
dolorosa perdurata per circa due anni, anche perché in quel periodo il M. svolgeva una
attività di lavoro mostrando capacità di muovere oggetti di un certo peso e svolgere
mansioni di una certa difficoltà fisica; oltre a ciò, questa attività era incompatibile con i
dolori che egli sosteneva di provare ed appariva ancor più irragionevole che egli non stesse
realmente a riposo allo scopo di far passare la fase di asserita acuzie. Pertanto si
concludeva che egli rappresentava ai medici una situazione anamnestica difforme dal vero
e ciò spiegava il suo rifiuto di effettuare un intervento di microchirurgia ed il fatto che non
abbia mai effettuato visite specialistiche o cure per la sindrome ansioso-depressiva che,
peraltro, non era costantemente rappresentata e che comunque non gli impediva di
svolgere un altro e differente lavoro impegnativo e quotidiano. Il Giudice poi respingeva la
prospettazione difensiva legata al congedo, per il quale era iniziato il relativo procedimento
a far data dal 29.03.2012, sia perché la qualità di militare non era in discussione sia
perché con la corresponsione degli emolumenti la truffa era consumata; non si
riconoscevano le circostanze attenuanti generiche per la sussistenza di un precedente
penale (per diserzione) e di alcuni precedenti di servizio (numerose punizioni) nonché per
la perdita di prestigio delle Forze Armate derivante dalla sua azione; la pena veniva
sospesa subordinatamente allo svolgimento di 200 ore di attività non retribuita a favore
della collettività.
Avverso detta sentenza interponeva appello l'imputato, contestando la ricostruzione dei
fatti: si sosteneva che il negozio di ortofrutta era riconducibile ad una ditta costituita nel
maggio 2013, per cui comunque il periodo da considerare andava ristretto; che molti
contatti telefonici con il cognato erano di mero sentimento familiare; che i servizi di
osservazione erano stati effettuati soltanto in alcuni giorni per cui non poteva affermarsi
che il M. avesse sempre lavorato nel negozio; che la documentazione sanitaria
dimostrava la sussistenza di una patologia di ernia discale e di persistente disturbo
ansioso-depressivo; si negava che l'imputato avesse rifiutato di sottoporsi ad intervento
microchirurgico; si riteneva ingiustificato il diniego del riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche; si prospettava una questione relativa al procedimento di congedo,
che si assumeva illegittimo con conseguente remissione in termini per chiedere il transito
nei ruoli civili e con conseguente assenza di danno erariale per gli emolumenti versati;
ulteriori richieste subordinate erano quelle del contenimento nel minimo della pena-base e
degli aumenti per la continuazione, nonché quella di esclusione della subordinazione del
beneficio della sospensione condizionale della esecuzione della pena e, in ulteriore
gradazione, di riduzione delle ore di lavoro.
Con sentenza in data 15.09.2015 la Corte Militare di Appello di Roma confermava la
sentenza di primo grado, ritenendo tutte le argomentazioni del GUP aderenti alle risultanze
probatorie e condivisibili: in particolare, si chiariva che non era stata posta in dubbio
l'esistenza di una patologia da ernia discale e che il processo aveva dimostrato che
l'imputato aveva simulato infermità più gravi in occasione del rilascio di certificati medici
allo scopo di costituirsi un impedimento alla prestazione dell'attività lavorativa: egli
lamentava forti dolori e procedeva zoppicando dinanzi ai medici, ma i tabulati telefonici e
l'esame delle celle dimostravano che si spostava frequentemente nello stesso periodo,
anche recandosi in Roma mentre doveva osservare un periodo di riposo medico; inoltre
era stato visto prestare attività lavorativa innegabile presso il cognato, svolgendo servizi
impegnativi e pesanti, per come dimostravano inequivocabilmente i plurimi contatti
telefonici; quindi, mentre veniva notato lavorare ogni qualvolta la polizia giudiziaria
effettuava servizi di osservazione, non si riscontavano acquisti di farmaci né vere
prestazioni terapeutiche ed egli svolgeva lavoro proprio mentre dai certificati medici si
sarebbe tratta una convinzione di netto peggioramento delle sue condizioni; si affermava
che, contrariamente a quanto sostenuto dall'imputato, un medico certificante aveva
riportato il suo rifiuto di sottoporsi ad intervento microchirurgico e si affermava altresì che
la famiglia del cognato gestiva un'ulteriore ditta ortofrutticola sin dal gennaio 2012 e ciò
dava una luce particolare ai contatti telefonici, considerato che il cognato aveva ammesso
che egli lavorava nel suo negozio. Si concludeva poi che era del tutto ininfluente
l'argomentazione relativa alla pretesa illegittimità del procedimento di congedo, atteso che
il danno si era consumato quando l'imputato aveva percepito emolumenti grazie ad una
condotta fraudolenta; le note negative del suo passato giustificavano poi il diniego delle
circostanze attenuanti generiche, non contrastato da una croce commemorativa ottenuta
per il servizio prestato in Bosnia. La Corte territoriale precisava ulteriormente che non era
possibile revocare o ridurre l'adempimento cui era subordinata la concessione della
sospensione condizionale della pena poiché il Muraca aveva già fruito del predetto
beneficio in occasione di una precedente condanna (per diserzione), per cui esso poteva
essere concesso una seconda volta soltanto in modo subordinato all'assolvimento di taluni
obblighi (per come appunto era stato disposto); quanto all'entità dell'espletamento delle
200 ore di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività, esso veniva reputato
adeguato nella misura e disposto con il consenso espresso dell'imputato, in considerazione
della mancata liquidazione del danno patito dall'Amministrazione.
Avverso detta sentenza propone ricorso l'interessato a mezzo dei difensori, deducendo il
vizio di mancanza o illogicità manifesta o contraddittorietà della motivazione: si sostiene
che il negozio di ortofrutta non esisteva all'inizio del periodo di malattia, il che
restringerebbe il periodo in contestazione e darebbe un significato diverso ai numerosi
contatti telefonici tra imputato e cognato; si sostiene anche che non vi è prova che
l'imputato svolgesse con continuità l'attività lavorativa presso il cognato e che non vi è
dubbio sulla sussistenza della patologia, per cui gli emolumenti ricevuti sarebbero il
corrispettivo della riconosciuta patologia per causa di servizio; si lamenta il diniego delle
circostanze attenuanti generiche, che sarebbe motivato in modo generico e si insiste sulla
contraddizione tra il riconoscimento della patologia e l'asserita falsità delle certificazioni
mediche relative. Anche nel ricorso vi erano le ulteriori richieste subordinate del
contenimento nel minimo della pena-base e degli aumenti per la continuazione, nonché di
esclusione della subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della
esecuzione della pena e, in ulteriore gradazione, di riduzione delle ore di lavoro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso va rigettato poiché infondato.
Nella parte precedente è stata sintetizzata la vicenda processuale e si eviteranno, quindi,
pleonastiche ripetizioni: appare soltanto necessario ricordare che il ricorrente è stato
condannato perché, tramite la produzione di certificazioni mediche, aveva indotto in errore
l'Amministrazione militare circa le sue capacità di svolgere il suo servizio, simulando dolori
ed impossibilità di lavorare, sottraendosi ai suoi doveri e percependo indebitamente la
retribuzione nel mentre svolgeva attività lavorativa in un negozio di ortofrutta del cognato.
Ci si trova di fronte a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che concordano
nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi
rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a
saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo
uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che entrambe le pronunzie hanno
offerto una congrua e ragionevole giustificazione del giudizio di colpevolezza formulato nei
confronti del ricorrente.
Discende da tale evenienza, secondo una linea interpretativa in questa Sede da tempo
tracciata, che l'esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da
prospettazioni alternative, risolventisi in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti
a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice
del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati
di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in
concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369/2006, Rv.
235507).
Il ricorso si articola i seguenti motivi di doglianza: 1) asserita incongrua motivazione
relativamente alla continuità del lavoro svolto presso l'esercizio commerciale del cognato
ed al significato da attribuire ai numerosi contatti telefonici con il cognato stesso; 2)
asserita incongrua motivazione in ordine alla sussistenza o meno della patologia
denunziata in rapporto alla presunta falsità delle certificazioni mediche; 3) asserita
genericità della motivazione con la quale si era respinta la richiesta di riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche.
Si tratta di motivi che non possono trovare accoglimento.
È bene premettere che infondate, sino a lambire il margine dell'inammissibilità, devono
ritenersi le doglianze prospettate nel ricorso, in quanto sostanzialmente orientate a
riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte nel giudizio d'appello, ed ivi
ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte Militare di Appello, ovvero a
sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, poiché
imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa
richiedendo l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità
e della logica consequenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali
dell'impugnata decisione.
§ 1. Con il primo motivo di doglianza il ricorrente censura la motivazione in merito al a
carattere continuativo dell'attività da lui svolta presso l'esercizio commerciale del cognato.
Va premesso che la configurazione dei reati contestati al ricorrente è stata corretta da
parte del giudice: la giurisprudenza di legittimità ha affermato, con orientamento risalente
e costante, che l'amministrazione militare deve intendersi circoscritta nelle strutture
occorrenti per l'organizzazione del personale e dei mezzi materiali destinati alla difesa
armata dello Stato (Sez. 1, n. 1410 del 19/01/2000, Rv. 215224; Sez. 1 n. 3491 del
31/01/2000, Rv. 215514).
In applicazione di tali principi, ed in relazione all'art. 234 c.p.m.p. questa Corte ha
affermato che le somme indebitamente riscosse dal militare in servizio vengono percepite
in connessione all'espletamento di attività rientranti nei compiti d'istituto propri del corpo
di appartenenza, e dunque non possono ritenersi estranee all'attività di difesa dello Stato
istituzionalmente svolta dall'Esercito Italiano, che in tale veste di amministrazione militare
risulta perciò essere il soggetto passivo ingannato dalla condotta fraudolenta dell'imputato
e inciso dal danno economico dalla medesima prodotto (Sez. 1, n° 30723 del 03.03.2015,
Rv 264486).
La sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di truffa militare ascritto al
ricorrente è stata ampiamente dimostrata dai giudici di merito sia per quanto riguarda
l'elemento materiale e l'elemento psicologico, sia per quanto riguarda il danno arrecato
alla P.A., sia per quanto concerne l'ingiusto profitto conseguito dall'imputato. Una volta
ravvisata la esistenza del fatto così come descritto nella contestazione, la dimostrazione
della configurabilità nella fattispecie del reato di truffa militare era da considerare
ampiamente data.
Infatti, in tema di truffa, l'inganno che subisce il soggetto passivo non deve
necessariamente derivare da un artificio o raggiro comunque riconoscibile, in quanto
esteriorizzato dall'agente. Per quanto riguarda l'estremo dell'ingiusto profitto con altrui
danno, lo stesso è in re ipsa quando il vantaggio economico ricavato dall'azione
fraudolenta non sia dovuto o sia dovuto in misura inferiore.
Quanto all'esistenza dell'elemento soggettivo, è sufficiente ricordare che esso è costituito
dal dolo generico, consistente nella cosciente volontà di conseguire il profitto ingiusto
mediante l'induzione in errore, con l'utilizzo di un qualsiasi artificio, del soggetto passivo,
aspetti tutti riscontrabili nella fattispecie in esame (Sez. 1, n° 3491 del 31.01.2000, Rv
215516).
Ed ancora, va detto che l'art. 159 c.p.m.p. punisce il militare che simula infermità, in modo
da indurre in errore i suoi superiori o altra Autorità militare, per sottrarsi all'obbligo del
servizio militare o per sottrarsi ad un particolare servizio di un corpo, di un'arma o di una
specialità. La norma incriminatrice delinea due figure criminose, accomunate, oltre che dal
dolo specifico, dall'induzione in errore dei superiori per effetto della simulazione di
infermità (Sez. 1, 26 ottobre 1993, Forte).
Nella fattispecie, il giudice ha rilevato alcuni dati oggettivi: la continua presentazione di
certificati medici da parte del ricorrente per un periodo sostanzialmente continuativo che è
perdurato per circa due anni, nel corso dei quali egli non ha prestato la sua attività di
servizio; la lamentata acuzie, da parte del ricorrente, di dolori conseguenti ad una ernia
discale, di claudicatio a sinistra, di impossibilità di svolgere attività fisiche lavorative
nonché la persistenza di una sindrome ansioso-depressiva; al contempo, il rifiuto del
ricorrente di effettuare un intervento di microchirurgia, la mancanza di acquisti di farmaci
appositi, il mancato rispetto dei periodi di riposo prescritti (violati anche con spostamenti
territoriali di rilievo), la mancanza di cure adeguate per la sindrome ansioso-depressiva;
ed ancora al contempo, lo svolgimento, da parte del ricorrente, di attività lavorativa presso
l'esercizio di vendita ortofrutticola del cognato, consistente in apertura mattutina del
negozio, movimentazione della merce, utilizzo del carrello elevatore e vendita della merce
stessa; nel medesimo periodo, l'esistenza di un numero elevatissimo di contatti telefonici
tra il ricorrente ed il predetto cognato.
Questi elementi sono stati utilizzati dai giudici di appello per trarre la conclusione che la
lamentata patologia del ricorrente non era affatto tale da essere invalidante: e lo
svolgimento dell'attività di lavoro (intensa) presso l'esercizio ortofrutticolo era un fattore
oggettivo di indubbia rilevanza. La Corte Militare di Appello territoriale ha anche
sottolineato che il medico firmatario delle certificazioni sanitarie de quibus aveva precisato
che esse si basavano su episodi dolorosi esclusivamente riferiti dal ricorrente, i quali,
tuttavia, se realmente esistiti, non gli avrebbero mai consentito di svolgere quella attività
lavorativa constatata. E si è sottolineato che un servizio di osservazione aveva scorto il
ricorrente svolgere lavoro pesante del tipo anzidetto anche nello stesso giorno
(07.04.2014) in cui, recatosi dal medico, egli aveva denunziato zoppia e dolori tali da
spingere il sanitario a prescrivergli 40 giorni di riposo, dopo che egli aveva rifiutato un
intervento di microchirurgia che sarebbe stato invece risolutivo.
Il ricorrente censura la conclusione relativa al periodo di svolgimento di questa altra e
diversa attività lavorativa: ma anche sul punto la motivazione impugnata appare scevra da
vizi di logica. Infatti il giudice ha rilevato che, in tutte le occasioni in cui i Carabinieri
avevano effettuato servizi di osservazione (svoltisi in diversi giorni in un arco temporale
apprezzabile) presso il negozio di ortofrutta del cognato del ricorrente, questi era stato
distintamente visto ivi svolgere il lavoro sopra descritto, senza che si vedesse alcuna
zoppia né i segni di alcun impedimento fisico.
Ed allora si presenta come ineccepibile la conclusione logica tratta da questi elementi, e
cioè che il ricorrente, pur se affetto da qualche forma patologia, denunziava uno smisurato
ampliamento dei dolori e della invalidità, così simulando una infermità che gli avrebbe
impedito di svolgere il servizio militare pur continuando a percepire la sua retribuzione ma
svolgendo lavoro presso un soggetto privato.
Il ricorrente lamenta che questa conclusione è stata estesa arbitrariamente all'intero
periodo di assenza dal servizio, mentre l'esercizio ortofrutticolo del cognato sarebbe stato
aperto soltanto nel maggio 2013: ma il giudice di appello ha sottolineato che il predetto
cognato, oltra all'esercizio sopra nominato (la "F.... srl"), gestiva anche un'altra
ditta simile e di maggior rilievo (la "O. srl") attiva già dal gennaio 2012. E
poiché i contatti telefonici tra il ricorrente ed il cognato nel periodo considerato erano stati
oltre 1.000, il giudice traeva la conclusione che non poteva trattarsi, come sostenuto, di
colloqui di sola natura familiare, anche perché lo stesso cognato aveva ammesso che il
ricorrente svolgeva attività lavorativa per lui, sostenendo trattarsi di una sorta di attività
volontaria per sfuggire alla depressione: ma il giudice rilevava che di questa depressione
non era stata trovata reale traccia e che la frequenza dell'attività - oltre che l'intensità
fisica della stessa - era tale da non poter fra credere a detto assunto.
In definitiva, tutti questi rilievi del ricorso si risolvono in altre possibili ed eventuali ipotesi
di spiegazione: o meglio, offrono perplessità, ma ad esse non si è offerto un fondamento
logico più valido della spiegazione fornita dal giudice; il ricorso, in altri termini, si limita a
proporre dubbi sulla interpretazione degli elementi valutativi, senza però attaccare in
modo congruo i punti nodali del ragionamento sviluppato in motivazione, del quale si
denunzia una non meglio precisata illogicità motivazionale.
Nel constatare la predisposizione di una motivazione completa, logica e plausibile, il
compito di questa Corte non può che arrestarsi essendo doveroso rilevare che non le è
demandato di valutare nuovamente emergenze istruttorie che hanno formato oggetto di
considerazione debita da parte del giudice.
§ 2. Con il secondo motivo di doglianza si censura l'asserita contraddittorietà della
motivazione laddove riconoscerebbe la patologia denunziata, ma riterrebbe
sostanzialmente non veritiere le certificazioni mediche presentate dal ricorrente.
Ma non si riscontra alcuna contraddizione.
La sentenza impugnata spiega correttamente che il M. soffriva certamente per una
ernia discale, e cioè per una malattia cronica che può anche comportare acuzie dolorose:
tuttavia essa non comportava affatto una invalidità permanente per il solo fatto di
sussistere. Si evidenzia da parte del giudice che lo svolgimento di attività lavorativa da
parte del ricorrente (muovere cassette di frutta, condurre un furgone, scaricare la merce,
utilizzare il carrello elevatore) era un elemento di oggettiva smentita dell'esistenza di una
fase acuta di dolore alla schiena, il quale avrebbe impedito simili attività. Pertanto la
sentenza impugnata non mostra quella contraddittorietà denunziata dal ricorso: si
sottolinea, da parte del giudice di appello, che il ricorrente aveva simulato la
sintomatologia dolorosa acuta e non anche l'esistenza di una ernia discale L5-S1 che era
stata, invece, riscontrata con analisi strumentali: in altri termini, egli aveva simulato una
più grave infermità invalidante allo scopo di sottrarsi al servizio e di percepire egualmente
la retribuzione, ma viene rimarcato che, se realmente egli fosse stato malato nella misura
dolorosa denunziata, non avrebbe trascurato di acquistare medicinali e di seguire una
adeguata terapia (anche psicologica/psichiatrica) e non avrebbe svolto attività che lo
sottraevano al riposo che si era fatto prescrivere ingannando anche i sanitari.
§ 3. Con il terzo motivo di doglianza si censura l'asserita genericità della motivazione con
la quale sarebbe stata respinta la richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche.
Anche questo motivo è infondato.
Il trattamento sanzionatorio inflitto al ricorrente è stato fondato su di una pena-base
prossima al minimo edittale e su aggravamenti molto contenuti (sia per l'aggravante del
grado che per la continuazione). Il giudice di appello ha ritenuto non ulteriormente
concedibile una diminuzione della pena, richiamando i parametri già applicati in primo
grado, laddove le circostanze attenuanti generiche non erano state riconosciute sia per la
presenza di un precedente penale specifico e recente per diserzione sia per i pessimi
precedenti di servizio del ricorrente (molte volte sanzionato) sia per la perdita di prestigio
delle Forze Armate causata dal suo svolgere una pubblica attività di vendita al dettaglio
senza avere assolto ai suoi obblighi verso l'Amministrazione militare.
Secondo l'orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in tema di circostanze
attenuanti generiche, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è
quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della
sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni
tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la
meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta,
sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di
giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi
l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che
sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio;
trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola
condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento
delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta
richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della
invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Sez. 1, n. 11361 del
19.10.1992, Rv 192381).
Dunque, per come scritto in precedenza, la sentenza impugnata ha motivato in modo
congruo sul punto, richiamando i fattori valutativi presi in considerazione e dipanando la
sua convinzione sulla base delle dinamiche dell'accaduto e della personalità dimostrata dal
ricorrente.
Insindacabile in questa sede, in quanto congruamente motivato, è il diniego di
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
In ogni caso, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata
da motivazione esente da manifesta illogicità, anche considerato il principio affermato da
questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego
della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi
favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli
faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o
superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, sent. n. 3609 del 18/01/2011, Sermone e
altri, Rv. 249163).
Un ultimo cenno va fatto alle estreme richieste rivolte anche a questa Corte e relative
all'esclusione della subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della
esecuzione della pena e, in ulteriore gradazione, della riduzione delle ore di lavoro.
Premesso che, su questo specifico punto, la Corte territoriale ha motivato adeguatamente,
con argomentazione non erronea né illogica, ed ha spiegato le ragioni, conformi a diritto,
della imposizione degli obblighi (richiamando il precedente penale del ricorrente, che
imponeva quella subordinazione della sospensione condizionale della pena ed evidenziando
che la mancata liquidazione del danno patito dall'Amministrazione rendeva equo l'obbligo
di svolgere attività a favore della collettività, peraltro disposte previa acquisizione del
consenso del ricorrente medesimo), va rilevato che il ricorrente ha avanzato queste
richieste senza neppure argomentare in qualche modo la richiesta riduzione dell'entità
dell'obbligo e di esclusione della subordinazione, e senza contrapporre alla decisione
alcuna argomentazione a confutazione della circostanze poste alla base della decisione: in
assenza di altre ragioni espresse, va ritenuto che al fondo vi siano state le stesse riflessioni
già esposte in generale sul trattamento sanzionatorio; ed allora è sufficiente richiamare qui
le stesse considerazioni già espresse sulla congruità e sulla completezza della motivazione
impugnata.
Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato e che il ricorrente va condannato al
pagamento delle spese processuali.
P.Q.M
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2016.
Avv. Antonino Sugamele

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