Gli eccidi commessi dai tedeschi nell'appennino tosco-emiliano del 18.3.1944 nei comuni emiliani di Monchio, Susano e Costrignano (oggi comune di Palagano), del 20.3.1944, in Civago, Cevarolo e Villa Minozzo, in cui si contarono ben 156 vittime; l'eccidio commesso in provincia di Firenze, il 10.4.1944, e per la precisione nella zone di Monte Morello, in località Ceppeto e Cerreto Maggio, in cui caddero ben 14 cittadini non belligeranti, taluni anche in giovanissima età; - l'eccidio occorso tra il 13 ed il 18 aprile 1944, nella zona di Monte Falterona, di ben 200 persone tra cui donne e bambini; - l'eccidio occorso in Monnio e Fivizzano, in provincia di Massa, tra il 4 ed il 5 maggio 1944, in cui caddero venti persone non belligeranti.
Cassazione penale, sez. I, 19/03/2014, (ud. 19/03/2014, dep.04/06/2014), n. 23288
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIOTTO Maria Cristina - Presidente -
Dott. MAZZEI Antonella Patriz - Consigliere -
Dott. CAPRIOGLIO Piera M. S. - rel. Consigliere -
Dott. LA POSTA Lucia - Consigliere -
Dott. BONI Monica - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI ROMA, nei confronti
di:
W.H.G.K. N. IL (OMISSIS);
O.F. N. IL (OMISSIS);
OD.HE. N. IL (OMISSIS);
L.A. N. IL (OMISSIS);
K.E. N. IL (OMISSIS);
S.W.K. N. IL (OMISSIS);
inoltre:
W.H.G.K. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 57/2012 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA, del
26/10/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 19/03/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. PIERA MARIA SEVERINA CAPRIOGLIO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FLAMINI Luigi, che
ha concluso per l'annullamento senza rinvio in relazione ad
O. perchè i reati sono estinti per morte del reo; per
l'inammissibilità del ricorso di S.; per il rigetto del ricorso
di W. e per l'annullamento della sentenza con rinvio
limitatamente alle parti in oggetto del ricorso del Procuratore
Generale.
Uditi i difensori avv.ti Luca Ventrella, Avvocato dello Stato per la
Presidenza del Consiglio; avv. Ernesto D'Andrea per ANPI; avv.
Giuseppe Gianpaolo per la regione Emilia Romagna; avv. Natale Fusaro
in sostituzione dell'avv. S. Eraldo, per la provincia di Arezzo e
Comune di Stia; l'avv. Zucchermaglio Franco in sostituzione dei
difensori nominati, per la provincia di Firenze, per la provincia di
Massa Carrara, per il comune di Fivizzano ed in proprio per il comune
di Sesto Fiorentino; l'avv. Ernesto D'Andrea per il comune di Villa
Minozzo;
sentiti per gli imputati:
l'avv. Paolo Costantini e l'avv.to A. Seifert del Foro di Norimberga
per W.;
l'avv.to Vittorina Teofilatto per O.;
l'avv.to Massimo Bellingoli per S..
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Il presente processo ha riguardo a fatti molto lontani, che accaddero nella primavera del 1944, in più località dell'appennino tosco-emiliano, ad opera delle forze armate tedesche, che contribuirono a cagionare la morte di numerosi cittadini privati italiani, non belligeranti in quanto non presero parte alle operazioni militari, fra cui donne, anziani, bambini, rastrellati brutalmente con inusitata violenza, particolare crudeltà e premeditazione.
In particolare nel processo di primo grado, celebrato davanti al Tribunale militare di Verona e conclusosi con sentenza 6.7.2011, sono stati rievocati:
- gli eccidi occorsi il giorno 18.3.1944 nei comuni emiliani di Monchio, Susano e Costrignano (oggi comune di Palagano), ed il giorno 20.3.1944, in Civago, Cevarolo e Villa Minozzo, in cui si contarono ben 156 vittime (capo A);
- l'eccidio commesso in provincia di Firenze, il 10.4.1944, e per la precisione nella zone di Monte Morello, in località Ceppeto e Cerreto Maggio, in cui caddero ben 14 cittadini non belligeranti, taluni anche in giovanissima età (capo B);
- l'eccidio occorso tra il 13 ed il 18 aprile 1944, nella zona di Monte Falterona, di ben 200 persone tra cui donne e bambini (capo C);
- l'eccidio occorso in Monnio e Fivizzano, in provincia di Massa, tra il 4 ed il 5 maggio 1944, in cui caddero venti persone non belligeranti (capo D).
La ricostruzione dei fatti è avvenuta sulla base di:
- un nutrito testimoniale di soggetti che ebbero ad assistere ai fatti o che furono destinatari del racconto di quei tragici giorni, nonchè del gen. dei CC D., all'epoca incaricato di coordinare le indagini che portarono al presente processo, quindi di soggetti di nazionalità tedesca, ex appartenenti alle formazioni autrici degli eccidi;
- numerosi documenti acquisiti, che andavano dagli ordini di combattimento impartiti dal mar. Ke., posto al comando del reparto esplorante paracadutisti della divisione Herman Goring, che era stata inviata in Italia per fronteggiare l'attività partigiana, ai rapporti del giovane capitano di cavalleria V.L. posto a capo del reparto esploranti della Herman Goring, ai rapporti tratti dagli archivi federali tedeschi, tramite apposite rogatorie, comprendenti mappe con indicazione della dislocazione delle batterie, agli atti di procedimenti instaurati in Germania dalla Procura di Dortmund a carico del tenente B.W., alle schede personali dei militari attestative delle loro dislocazioni e dei loro avanzamenti in carriera, acquisite presso il servizio federale di Berlino, agli atti di commissione d'inchiesta alleata, ai rapporti dei combattimenti, ai diari acquisiti quali quelli tenuti dal ten. B., dall'imputato L. e dal militare G.H.I., alla documentazione relativa alla Herman Goring. - Esito di intercettazioni telefoniche che vennero disposte nell'ambito del processo tenutosi in Germania nell'anno 2006, a carico del ten B. (che in talune conversazioni ascoltate a distanza permisero di cogliere l'imputato L. a commentare i fatti in questione).
- consulenze tecniche ad opera di storici, quali il prof. G. C. storico e ricercatore dell'Università di Colonia, autore di numerose pubblicazioni sull'occupazione tedesca in Italia negli anni 1943/1945, già consulente della Procura di Dortmund, il prof. P.P., ordinario di storia contemporanea che si è occupato dello studio delle stragi da parte dell'esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale, il prof. S.M., già presidente dell'istituto storico di Reggio Emilia e responsabile del polo archivistico del comune della stessa città, la dott.sa T. R., dottoressa di ricerca in studi storici dell'età moderna e contemporanea all'università di Firenze.
Nel corso del giudizio di primo grado tutti gli imputati furono sentiti in Germania nell'ambito dell'istruttoria a carico del ten. B.: L. consegnò i diari, si avvalse della facoltà di non rispondere all'interrogatorio, ma rese dichiarazioni spontanee con cui ebbe a rappresentare che dopo l'uccisione di due militari tedeschi fu eseguita un'azione di rappresaglia con mitragliatrici e lanciagranate, negando che fossero stati uccisi donne e bambini.
OD. ammise di esser stato a capo di unica batteria dotata di pezzi di artiglieria del secondo reggimento paracadutisti artiglieria contraerea Herman Goring, di non ricordare se la sua unità fosse chiamata decima batteria e di non sapere nulla delle azioni contro i partigiani. O. confermava la sua appartenenza alla quinta compagnia, ammetteva di esser stato inviato da B. in azione contro i partigiani nell'area tra Reggio e La Spezia, negò di conoscere i luoghi degli eccidi anche quando gli vennero opposti i documenti della Wehrmacht, da cui risultava che il reparto ricognitori (tra cui il suo gruppo pionieri) fu impegnato in diverse operazioni di "lotta alla bande", ribadì di nulla sapere e di non avere mai partecipato alle operazioni cui si ha riguardo. S. ammetteva di esser stato a Bologna nella primavera del 1944, come comandante di squadra della terza compagnia, di non ricordare però assolutamente nulla. W. assunse di appartenere alla terza compagnia come comandante di plotone, di non essere mai stato a Bologna comandante della quarta compagnia, di esser stato assente per cinque settimane nel febbraio 1944 e tre settimane convalescente a S. Martino di Castrozza, di essere stato in ricognizione, in abiti civili, sul versante nord di Falterona e di essere arrivato ad un paesino dove la strada finiva; aggiungeva che nello stesso giorno vi fu l'imboscata ad una pattuglia tedesca in operazioni di ricognizione e che a causa di detta imboscata, fu decisa l'azione contro le bande;
la sua compagnia fece irruzione a nord del villaggio dove egli ebbe ad eseguire la ricognizione, ma non ci fu alcun contatto con il nemico o con i partigiani; concludeva asserendo di non essere stato al corrente se parallelamente alla sua azione si fosse svolta altra operazione a sud, anche se lo aveva immaginato.
All'esito del primo grado di giudizio venivano condannati in contumacia, per il capo A), limitatamente ai fatti di Monchio, Susano e Costrignano, con esclusione della sola aggravante di cui all'art. 47 c.p.m.p., n. 3, alla pena dell'ergastolo, L.A., OD.He. ed O.F., il primo all'epoca dei fatti caporale e poi sergente in servizio presso la quarta compagnia del reparto paracadutisti corazzata Hermann Goring, il secondo capitano già in servizio nella divisione corazzata Hermann Goring e comandante della decima batteria artiglieria contraerea, il terzo quale sottotenente, già in servizio nel reparto esplorante della divisione corazzata Herman Goring, comandante del plotone nella quinta compagnia. Limitatamente ai fatti di Civago e Cervarolo, sempre contestati al capo A), venivano condannati all'ergastolo OL.Fr. e S.W.K., rispettivamente sottotenente, già in servizio nel reparto esplorante della divisione corazzata Herman Goring, quale comandante del plotone della terza compagnia e (lo S.) sergente già in servizio nel reparto esplorante della divisione Corazzata Hermann Goring, comandante di squadra della terza compagnia.
Per il capo B) venivano condannati, sempre alla pena dell'ergastolo, K.E. e OD.He.; il primo ufficiale d'ordinanza nello stato maggiore del terzo reparto, battaglione del reggimento contraerea Hermann Goring, il secondo come già detto, capitano in servizio nella divisione corazzata Hermann Goring, in qualità di comandante della decima batteria artiglieria contraerea.
Per il capo C) venivano condannati alla pena dell'ergastolo K. E., L.A., OD.He., OL.Fr., O.F., S.W.K., W.H.G. K., i primi cinque nelle loro posizioni già evidenziate, il W. quale sottotenente, già in servizio nel reparto esplorante della divisione Hans Goring, comandante di plotone nella terza compagnia e comandante della quarta compagnia.
Per il capo D), infine venivano condannati alla pena dell'ergastolo OL.Fr., O.F., S.W.K. e W.H.G.K., nelle rispettive posizioni già indicate.
Detti imputati venivano condannati altresì al risarcimento dei danni in favore della Presidenza del Consiglio, della regione Emilia Romagna, dei comuni interessati, nonchè dei parenti delle vittime, oltre che alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili per il giudizio; veniva condannato altresì il responsabile civile individuato nella Repubblica Federale di Germania.
Il Tribunale in sostanza, dopo aver appurato alla luce del materiale documentale che gli imputati erano in servizio presso i reparti che presero parte agli eccidi compiuti per lo più con azioni combinate e convergenti verso un unitario obiettivo, riteneva di inquadrare e valutare le singole azioni in termini di compartecipazione criminosa.
Opinava quindi nel senso di ravvisare il nesso di causalità tra le condotte degli imputati e gli eventi di morte e distruzione realizzati dal congiunto operare di tutti gli uomini dispiegati nei rastrellamenti, valorizzando il contributo degli imputati nell'avere, in ragione del ruolo gerarchico rivestito e delle funzioni di comando esercitate, ricevuto, impartito e trasmesso quegli ordini che furono alla base dell'indiscriminato eccidio di uomini, donne e bambini.
Ragionava poi il Tribunale nel senso che non valeva ad escludere il nesso causale il fatto che non risultasse prova di partecipazione diretta, poichè i massacri costituirono il risultato del convergere delle azioni di tutti i militari, cosicchè coloro che esercitavano funzioni di comando avevano comunque apportato un contributo di istigazione e determinazione avente un più ampio raggio di azione e tale da porsi come il necessario antecedente causale e psicologico della complessiva operazione di sterminio posta in essere dai subordinati. Veniva rilevato che se solo i militari investiti di funzioni di comando si fossero rifiutati di prestare obbedienza agli ordini criminosi ricevuti, le stragi non si sarebbero realizzate, quanto meno con quelle dimensioni di atrocità. Una volta ricevuto un ordine manifestamente criminoso, il fatto di averlo trasmesso fece sì che i subordinati vennero determinati a commettere le azioni criminali, finendo di risultare del tutto ininfluente che colui che trasmise l'ordine fosse o meno stato presente sul luogo dell'eccidio, poichè in ogni caso la trasmissione dell'ordine assurgeva a contributo decisivo, senza il quale il reato non si sarebbe realizzato. Veniva poi rilevato dal Tribunale che prendendo le mosse dalla "Legge di guerra" art. 28 italiana approvata, con R.D. 8 luglio 1938, n. 1415, doveva essere rispettata la regola secondo cui i privati che non avessero a compiere atti di ostilità, ancorchè al seguito delle forze armate, dovevano essere protetti per quanto concerne la sicurezza delle persone, l'inviolabilità della proprietà ed il godimento ed esercizio di ogni altro loro diritto, cosicchè andavano ritenuti criminosi gli ordini di uccisione dei civili e pertanto la scelta di obbedienza dei militari a tale tipo di ordine andava considerata rafforzativa del proposito criminale.
Veniva aggiunto che non era nemmeno lontanamente pensabile che in difetto di una dettagliata e condivisa programmazione criminosa, un numero elevato di soldati potesse dare corso nello stesso tempo ed in diverse località, alla medesima azione di morte e distruzione, cadenzate secondo le stesse agghiaccianti modalità e che si materializzava con la uccisione immediata di anziani, donne e bambini e con la ritardata eliminazione degli uomini, dopo averli costretti a trasportare le munizioni che avrebbero consentito gli eccidi successivi, secondo lo stesso racconto di ex appartenenti alla divisione Herman Goring. 2. Nel secondo grado di giudizio, la corte d'appello militare, con sentenza 26.11.2012, in riforma della pronuncia suindicata, assolveva OD.He. ed O.F., dal reato sub A), K.E. e OD.He. dal reato sub B), K.E. e OD.He. dal reato sub C), O.F., W.H.G.K. e S.W.K. dal reato sub D), confermando la condanna per L.A. in relazione al capo A) per i fatti del 18 marzo 1944 ed in relazione al capo C), la condanna per W. per il reato sub C), la condanna di S. per i fatti sub A, limitatamente ai fatti del 20 marzo 1944.
La corte premetteva (ribadendo il canone interpretativo espresso in primo grado) che non era necessario accertare la presenza di ogni singolo imputato sul luogo dell'eccidio, quale appartenente ad una delle unità operanti, poichè il militare, secondo la propria posizione gerarchica e le funzioni attribuite, partecipava allo svolgimento di operazioni militari, fornendo un proprio contributo positivo per il conseguimento dell'obiettivo previamente definito dal comandante, tanto più che si aveva riguardo a reparti militari, quali era la divisione Herman Goring, caratterizzati da particolare disciplina ed efficienza, in cui ciascuno dei componenti svolgeva il compito assegnato dai superiori, compito che non si esauriva nel presenziare alle operazioni. Veniva ritenuto che la valutazione delle singole posizioni dovesse peraltro essere condotta alla stregua delle regole del nostro processo penale, cosicchè le pretese difficoltà di prova non potevano tradursi in un'attenuazione del rigore nell'accertamento del nesso causale. La Corte si faceva carico di esaminare il contenuto degli ordini che erano stati impartiti, avendo le difese obiettato che nel periodo marzo/maggio 1944 gli ordini provenienti dal comando tedesco in Italia non erano tali da consentire il massacro di civili, visto che solo dal giugno 1944 vennero diramati ordini diventati noti per il fatto di contenere una clausola di impunità per coloro che avessero commesso eccessi nell'ambito della lotta antipartigiana. Ma fin dai primissimi mesi dell'occupazione tedesca, la divisione di Herman Goring si era resa autrice di una serie di episodi di violenza contro i civili di elevata gravità a Mascalucia, a Castiglione di Sicilia, ad Acerra ed a Bellona. Venivano presi quindi in esame gli ordini inviati dal Fedmaresciallo Ke., dal giorno successivo all'attentato di via Rasella, occorso il 24.3.1944, nel primo dei quali, datato 7.4.1944, veniva dato esplicito ordine di azioni rigorose e decise, evidenziando come ogni intervento troppo deciso non sarebbe mai stato causa di punizione, in cui era esaltata la punizione immediata, ritenuta preferibile al rapporto immediato, in cui veniva data consegna di rispondere anche al minimo attacco con contromisure adeguate. Nelle date successive ai fatti de quibus, del 17 giugno e del 1 luglio 1944, Ke. comunicava che avrebbe protetto ogni comandante che fosse andato oltre le abituali restrizioni nella scelta e nella durezza dei mezzi adottati nella lotta contro i partigiani, ricordando che "un errore nella scelta dei mezzi per il raggiungimento di un obiettivo è sempre meglio della sconfitta o della negligenza". E ancora incitava alla durezza delle misure da prendere, in particolare nelle zone di azione dei partigiani, sulla necessità di arresto degli uomini, che se del caso andavano uccisi.
Solo nell'agosto 1944, quando forse si stava pregiudicando la posizione dell'esercito tedesco, il Ke. - in nome del Comando tedesco - assunse un atteggiamento di distanza dagli atti più sanguinari compiuti presso la popolazione inerme, senza peraltro che venisse fatta seguire alla pura declamazione, una decisa azione inducente i reparti militari operanti sul territorio italiano, al rispetto delle regole del diritto umanitario, tanto è vero che a queste parole seguirono poi gli atroci fatti di Marzabotto. Veniva quindi evidenziato che negli ordini del 7 aprile, del 17 giugno e del 1 luglio 1944 si invitava a non curarsi di "eventuali passanti", si affermava l'importanza della punizione immediata, si imponeva la massima asprezza nel perseguimento delle azioni, si sollecitava i comandi a rendere noto che in caso di attacchi ai tedeschi sarebbero state adottate le più dure contromisure e che nessun fiancheggiatore avrebbe potuto aspettarsi clemenza. Ma soprattutto veniva sottolineato che in detti dispacci fu specificato che un intervento troppo deciso non sarebbe mai stato punito. Alla luce di queste evidenze, gli atti compiuti nella primavera del 1944, venivano riconosciuti non solo tollerati, ma stimolati dalle direttive impartite dai vertici politico militari dello stato germanico, quindi veniva escluso che fossero frutto di singole malvagità, dovendosi inserire in un preciso disegno strategico che comprendeva l'uccisione di donne, bambini ed anziani, perchè doveva essere diffusivo di terrore fra la popolazione, per ostacolare ogni forma di aiuto a favore dei resistenti agli occupanti stranieri. Tanto più che gli eccidi cui si ha riguardo, che portarono ad eliminare più di 200 persone inermi, seguirono ad azioni di uccisione di due militari tedeschi, il che segnava tutta la sproporzione e l'incommensurabilità della reazione militare. Ma le conclusioni che andavano tratte dall'esame degli ordini di Ke., certamente lasciavano desumere la sostanziale accettazione dei massacri e l'assunzione anzi di un atteggiamento ipocrita, tale per cui l'operato delle Divisioni più ideologizzate veniva deprecato a parole, ma di fatto ritenuto utile e vantaggioso per il risultato perseguito, che era quello di garantire i collegamenti tra le truppe al fronte e le retrovie. I Giudici a quibus condividevano in termini generali il criterio utilizzato dal giudice di primo grado, di ritenere coinvolti tutti gli ufficiali e sottoufficiali investiti di funzioni di comando che parteciparono alle operazioni in contestazione, ma sempre che risultasse provato in concreto l'esistenza di un ordine preventivo di uccisione indiscriminata di civili.
Per quanto riguarda i fatti sub A), commessi sull'Appennino modenese e per quanto riguarda i fatti sub C), i giudici del merito ritenevano che fosse esistito un ordine preventivo di uccisione dei civili, atteso che in un reparto militare quale la divisione Hermann Goring non era assolutamente immaginabile che i comandanti delle singole unità agissero in significativa dissonanza rispetto agli ordini impartiti, tanto più considerando che tutte le unità si comportarono in modo uniforme, il che stava a significare che l'ordine di uccisione indiscriminata fu effettivamente impartito dall'alto e diramato nella sua specificità. In particolare, per quanto riguarda gli eccidi di Monchio, Susano e Costrignano (appennino modenese) i giudici del merito sottolineavano, all'unisono, che dalle evidenze disponibili era emerso che le operazioni erano il frutto di un'accurata pianificazione riportabile al comandante del reparto esplorante, capitano V.L., considerata la simultaneità delle azioni condotte dalle squadre operanti, che nello stesso spazio temporale compirono in più luoghi le operazioni di rastrellamento, con modalità di azione assolutamente identiche tra loro e perfettamente coordinate, rispondenti ad un'unica ideazione (immediata uccisione sul posto di alcuni civili, convogliamento di altri nel luogo del massacro ed infine uccisione di coloro che era stati utilizzati per il trasporto delle munizioni).
Quanto al reato sub A, i giudici a quibus condividevano il percorso motivazionale del Tribunale, secondo cui L. doveva essere ritenuto colpevole per gli eccidi sull'appennino modenese, in ragione degli appunti da lui stesso tenuti in un diario, in cui si fece cenno alle operazioni del marzo, indicate come testuale "missione contro le bande vicino a Modena, ricco bottino di prosciutti"; a ciò si aggiungeva l'esito di intercettazioni telefoniche, da cui era emerso che l'imputato si era compiaciuto per quanto commesso ed il dato che il medesimo ebbe a svolgere il ruolo fondamentale di caporale portaordini, funzione ritenuta essenziale nella complessiva attività di trasmissione ed esecuzione degli ordini, il che significava che non aveva una posizione di mero soldato. Dissentiva invece la corte dal giudice di prime cure, per quanto riguarda le posizioni di OD. e di O.. Il primo, era stato ritenuto colpevole poichè ebbe a ricevere l'ordine di operare per l'impiego della sua batteria (la decima), con il che appresa la finalità operativa, ebbe ad individuare la sezione da dispiegare nell'area di intervento, accertandosi che quella fosse dotata del necessario armamento e dell'adeguato equipaggiamento; in particolare era stato opinato che fosse stato lui ad avere stabilito di posizionare la decima batteria a ridosso dei centri abitati, con l'obiettivo del bombardamento delle abitazioni civili, il che valeva a dimostrazione della conoscenza che gli obiettivi erano anche civili inermi. Secondo la corte invece, non risultava adeguatamente provato che l'operazione da lui approntata, avrebbe debordato i confini dell'operazione strettamente militare e sarebbe degenerata con l'uccisione di civili, poichè Od. non ebbe a partecipare all'operazione, ma ebbe soltanto a mettere a disposizione unità operative; veniva sottolineato che le operazioni condotte dalle truppe naziste inizialmente dovevano avere come obiettivo sensibile le brigate partigiane e che molte operazioni inizialmente concepite come operazioni contro le formazioni partigiane, si tradussero poi in stragi di civili, quindi in crimini di guerra. Crimini di guerra che ovviamente non venivano sollecitati per iscritto, per non lasciare traccia ai posteri e che quindi, secondo la corte d'appello, solo a coloro che ebbero a partecipare alle singole operazioni, fu reso noto il criminale alternativo obiettivo perseguito. La corte ammette che nella divisione Herman Goring, nota per la sua durezza, si fosse diffusa la notizia della reale portata delle operazioni condotte sull'appennino, ma non sarebbe provato che l' Od. ne avesse avuto piena contezza.
Inoltre, poichè furono gli stati maggiori, incaricati della sicurezza delle retrovie costituite presso le armate ed i comandi di questi ultimi, ad essersi occupati concretamente della preparazione ed esecuzione delle operazioni antipartigiane, il coinvolgimento di un comandante di batteria, come Od., non poteva che essere stato del tutto marginale. Lo stesso ragionamento veniva condotto per O.: secondo il tribunale, l'ufficiale ebbe a mettere a disposizione di V.L. due delle unità che parteciparono all'operazione, ma non risultò aver partecipato alla riunione del 17 marzo 1944, tenuta da V.L., in Zola Pedrosa, in cui vennero impartite le istruzioni relative alla missione che doveva essere portata a termine. Non poteva essere disconosciuto che gli ordini erano stati impartiti al di sopra dello stesso V.L. e che i crimini compiuti, quando non ordinati, erano stati certamente tollerati. Significativamente veniva ripresa la richiesta di congedo che era stata presentata il 20 marzo 1944, dal capitano Ha., che aveva preso atto che la sua formazione era solo più impegnata in misure di ritorsione nelle zone di Civago-Cervarolo. Pertanto veniva fermamente rigettata la versione difensiva secondo cui gli eccidi sarebbero stati il frutto di scelte di alcuni ufficiali emotivi e fanatici. Ciò posto però, la corte rilevava che non risultava che l' O. avesse guidato i militari del plotone pionieri impiegati a Monchio, Susano e Costrignano, risultando la prova acquisita limitata al fatto che egli ebbe a mettere a disposizione del cap. V.L. alcune squadre che ebbero poi a partecipare all'azione omicida del 18 marzo 1944. Il distacco di un plotone o di una squadra da una determinata compagnia recideva il collegamento sotto il profilo funzionale con il comando di appartenenza, facendo sorgere una dipendenza dal comando del reparto in cui la quadra era inserita. Veniva ribadito che la comunicazione dell'obiettivo criminale presumibilmente avvenne di volta in volta, cosicchè non poteva essere conosciuto al comando della compagnia nell'ambito della quale la squadra era stata formata.
Per ciò che concerne i fatti sempre contestati al capo B), relativi all'uccisione di 14 cittadini non belligeranti nella zona di Monte Morello, la sentenza di condanna pronunciata in primo grado di OD. e K., non veniva ritenuta condivisibile. Quanto al primo imputato ( Od.), la corte ribadiva che non era sufficiente per istituire la responsabilità per i crimini di guerra compiuti, il fatto che l'ufficiale avesse messo a disposizione alcune sezioni della batteria da lui comandata, non risultando provato ad opinione della corte, che egli avesse fornito deliberatamente un rilevante contributo causale, predisponendo armamento da utilizzare per l'uccisione di civili, ovvero rafforzando nei militari dipendenti la scelta di obbedienza, rispetto ad ordini manifestamente criminosi.
Relativamente al K., veniva scritto dal tribunale che l'ufficiale d'ordinanza nel terzo reparto del reggimento contraereo era stato colui che aveva dato corso in conformità agli ordini ricevuti, alla necessaria attività di approntamento di uomini e mezzi con lo specifico compito di garantire il collegamento tra lo stato maggiore ed i reparti impegnati nelle zone di combattimento. La corte sul punto rilevava che K. non era l'ufficiale d'ordinanza del col. V.H., ma del reparto del reggimento contraereo che si era limitato a mettere a disposizione la 17ma batteria, con il che assunse nell'operazione una posizione del tutto marginale. Ed infatti, nel corso dell'operazione i collegamenti fra lo stato maggiore del comandante V.H. e la 17.ma batteria, non furono tenuti dal K., che non ebbe ad impartire alcun ordine nell'operazione.
Per quanto riguarda il capo C), trattasi di un fatto sanguinario, occorso sul monte Falterona, dove furono indiscriminatamente uccisi tutti coloro, soprattutto bambini, donne ed anziani, che si trovarono ad incontrare nel loro passaggio la divisione Hermann Goring. L'azione conseguì ad uno scontro tra partigiani e tre militari tedeschi, di cui due furono uccisi ed il terzo riuscì a scappare;
allo sterminio parteciparono coscientemente tutte le unità di divisione Herman Goring ed il relativo ordine fu impartito prima che i reparti si suddividessero, per operare nelle zone di rispettiva pertinenza. Veniva ritenuto assolutamente impensabile che più unità militari, soggette a disciplina molto rigorosa, abbiano potuto realizzare autonomamente, con le stesse modalità operative, comportamenti contrastanti ad ogni regola giuridica oltre all'onore militare, cosicchè veniva inferito che fosse stato impartito l'ordine di uccisione indiscriminata di civili e di devastazione degli abitati, considerato che anche al militare tedesco era fatto divieto di uccidere un civile, a maggior ragione bambini, laddove a tale regola si poteva contravvenire, solo per adempiere ad ordini di comandanti superiori delle truppe. Poichè i massacri si estesero nell'arco di più giorni (dal 13 al 18 aprile 1944), veniva ritenuto che chi ebbe il comando delle operazioni rinnovò giorno per giorno l'ordine di sterminare i civili, in deroga alle regole militari, e che chi ebbe ad operare ebbe ad esprimere una non comune deliberazione criminale. Di questo fatto la corte confermava la condanna inflitta in primo grado per W., il quale risultava essere stato presente sul luogo, per sua stessa ammissione, avendo operato un sopralluogo sul monte Falterona; ricordò che un ufficiale aveva violentato una donna e che fu mandato davanti al tribunale di guerra e che fu degradato, mentre assumeva di aver saputo dei massacri dei civili ad opera della terza compagnia solo dal suo amico, Hi.Re.. Il fatto che le uccisioni siano state sistematiche in una ampio raggio territoriale, imponeva di ritenere che nessuna delle unità della divisione Herman Goring fosse estranea all'ordine impartito con cui veniva stimolata l'azione criminale;
pertanto il sottotenente W. veniva ritenuto a sua volta coinvolto nella consapevole trasmissione degli ordini illegali impartiti dal comando del reparto. Parimenti L. veniva riconosciuto coinvolto, atteso che nel suo stesso diario aveva annotato la partecipazione a due azioni in Passo Futa e Stia; lo stesso scrisse che erano caduti in un'imboscata un maresciallo ed un sottotenente e che "la vendetta fu sanguinosa". Il ruolo di portaordini lo poneva in una posizione importantissima nella catena di trasmissione degli ordini, secondo i giudici del merito: di qui il ritenuto contributo offerto alla verificazione dei fatti. Non venivano invece considerati responsabili nè OD., nè K. che avrebbero solo messo a disposizione alcune sezioni della batterie comandate, con conseguente mancata offerta di contributo causale all'esecuzione del fatto; l'effetto della sentenza non veniva esteso anche a S., che aveva interposto un appello inammissibile per intempestività, in ragione del fatto che questi fu comandante di plotone della terza compagnia e fu presente sul luogo degli eccidi.
Quanto al reato di cui al capo D, concernente la uccisione di venti civili in provincia di Massa, i giudici di merito sono giunti a ritenere la sussistenza del fatto anche sulla base delle annotazioni contenute nel diario del capitano W.B., in cui emergeva con certezza che l'eccidio era riportabile alla seconda, terza, quarta e quinta compagnia del reparto esploranti della divisione Herman Goring, che fu una lotta contro le bande, particolarmente faticosa perchè si svolse su terreno montagnoso, che occupò un alto numero di uomini. In tale contesto, la corte riteneva che fosse necessaria una prova specifica di intervento sulla vittima, non potendo essere escluso che la realizzazione dei crimini fosse avvenuta solo per l'appartenenza alle unità militari che presero parte all'operazione. O., che partecipò all'operazione del 4 e 5 maggio 1944, come comandante plotone pionieri della quinta compagnia, stando a quanto scritto dal B. nel suo diario, ebbe l'ordine di occupare la località di Vendaso e che una squadra del medesimo plotone fu impiegata nella valle ad est di Monnio, dove fu distrutta da colpi di cannone una base partigiana e vennero fatti prigionieri da sei a otto uomini che poi furono condotti a Passo Cerreto, dove un testimone ( Be.) disse che furono rinvenuti otto cadaveri gettati in una sassaia. Il Tribunale ritenne che O. pacificamente fosse stato sui luoghi, fu comandante del plotone pionieri, partecipò alle operazioni che culminarono con l'eccidio, e coordinando anche lui l'azione dei suoi uomini, ebbe a dare un contributo con piena consapevolezza e volontà all'esecuzione del massacro. Secondo la corte invece detta operazione non fu pianificata come un massacro indiscriminato contro la popolazione civile, poichè mirava a stanare le formazioni partigiane che erano numerose nel passo Cerreto, tanto che fu coordinata da un colonnello del Koruk dell'esercito. Nel caso di specie la corte opinava nel senso che non risultava adeguatamente provata l'esistenza di un ordine impartito preventivamente a tutte le unità operative e trasmesso in via gerarchica di uccidere indiscriminatamente i civili che si trovavano nella zona delle operazioni, poichè se così fosse stato non sarebbe stata delimitata e localizzata la sede delle uccisioni, ma vi sarebbe stato uno sterminio indiscriminato di tutta la popolazione civile del luogo. Ragion per cui, in mancanza di un ordine di esecuzioni in massa, non venivano ritenuti sussistere i presupposti per imputare a titolo di concorso a tutti gli ufficiali e sottoufficiali partecipanti all'operazione, attività eccedenti le operazioni di guerra. Tanto più per O., che il 4 maggio era a Vendaso, località in cui non risulta che siano state fatte uccisioni di civili; lo stesso discorso veniva fatto per W., comandante di plotone, presente a Mommio e per S. (ancorchè appellante tardivo), già comandante di squadra della terza compagnia del reparto esplorante - livello di comando meno elevato rispetto a quello dei primi due - per la mancanza di prova che qualcuna delle persone trovate morte a Mommio fosse stata uccisa dalla squadra comandata da S..
Per quanto concerne il profilo delle scriminanti, la corte ribadiva che non potevano essere invocate le scriminanti dell'adempimento del dovere e dello stato di necessità, poichè per quanto l'inserimento in una compagine strutturata secondo la rigida disciplina militare può tendere a deresponsabilizzare l'individuo, in tema di crimini di guerra contro l'umanità, l'obbedienza ad ordini che siano manifestamente criminosi non può mai assumere rilievo scusante ai sensi dell'art. 40 c.p.m.p.; nè veniva ritenuto sussistere lo spazio per l'applicazione dell'art. 54 c.p., considerato che la storia aveva insegnato che nessun caso di esecuzione sommaria di militari disobbedienti era stato registrato ad ordini delle forze armate tedesche. La popolazione inerme non poteva essere fonte di pericolo per il militare armato, laddove il rischio di procedimento disciplinare, di sanzioni disciplinari, trasferimenti punitivi non poteva assurgere a giustificazione di un reato, non ricorrendo alcuna proporzione tra fatto commesso e consistenza del pericolo. Quanto alle circostanze aggravanti, la corte ribadiva la sussistenza dell'aggravante della premeditazione atteso che gli eccidi di cui ai capi A, B, e C furono organizzati con cura ed attuati secondo modalità che suscitassero intimidazione alla popolazione del luogo, lasciando segni tangibili di atrocità e sofferenza; i motivi che spinsero a queste azioni furono sicuramente abietti, poichè i militari furono spinti ad operare il crimine per poter avere ricompense, progressioni in carriera e compiacere i superiori e poi, soprattutto in relazione al fatto di Monte Falterona, i militari agirono brutalmente, contro i civili, per ragioni di pura vendetta.
Parimenti veniva ritenuto che i militari avessero agito con sevizie e crudeltà, visti i maltrattamenti a cui furono sottoposti i civili, prima dell'esecuzione, secondo il racconto dei sopravissuti. Di conseguenza le invocate circostanze attenuanti generiche non venivano riconosciute a W. ed a L., per la gravità intrinseca dei reati commessi, considerato che tra le vittime vi furono pure bambini, anziani e donne ed in ragione del fatto che nessuno dei due ebbe a mostrare forme di resipiscenza nel lungo periodo successivo ai fatti, ovvero interesse per le persone uccise o per i loro familiari, anche alla luce di commenti che furono ascoltati a distanza nel 2006.
Veniva dichiarata la nullità della sentenza in punto condanna del responsabile civile per carenza di giurisdizione, essendo intervenute medio tempore sentenze della corte internazionale con cui è stato opposto il profilo dell'immunità degli stati dalla giurisdizione civile per condotte gravemente lesive dei diritti umani ed in particolare l'immunità riconosciuta alla repubblica federale di Germania dal diritto internazionale.
3. Avverso tale decisione, hanno interposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale Militare presso la corte d'appello e gli imputati W. e S., pel tramite dei loro rispettivi difensori.
3.1. Il Procuratore Generale militare ha dedotto violazione di legge in relazione all'art. 192 c.p.p., nonchè vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Viene fatto di rilevare che la corte, seppure abbia premesso che doveva essere affermata la colpevolezza di tutti gli ufficiali e sottoufficiali investiti di funzioni di comando che ebbero a partecipare alle operazioni indicate nelle imputazioni, quando fosse provata in concreto l'esistenza di un ordine preventivo di uccisione indiscriminata di civili, ha poi applicato detto principio soltanto per i fatti di cui ai capi A) prima e seconda parte e sub C). Per tali episodi la corte ha infatti ritenuto che vi fosse stato un ordine proveniente quanto meno dal comandante delle operazioni di uccidere anche donne, bambini ed anziani, attese le modalità in cui la strage venne compiuta; veniva opinato nel senso che in un reparto militare quale quello dell'esercito tedesco, non era assolutamente immaginabile che i comandanti delle singole unità, compagnie, plotoni, squadre avessero agito in significativa difformità rispetto agli ordini ricevuti. Il ragionamento conducente, opponeva il PG, era riscontrato solo per i reati sub A e C, mentre era stato del tutto abbandonato per gli altri fatti, laddove l'adesione agli ordini superiori e la trasmissione degli stessi ai subordinati determinò un significativo contributo causale all'azione criminosa, con conseguente responsabilità a titolo di concorso. Il ricorrente, facendo richiamo ad arresti di questa Corte di legittimità, sottolineava come non sia richiesta la prova nè della diretta partecipazione del soggetto alle uccisioni, nè la sua presenza in campo, essendo sufficiente che sia stata esercitata una funzione di comando, quindi che vi sia stato un diretto e consapevole coinvolgimento nella catena di trasmissione degli ordini che resero possibile la programmazione e la esecuzione degli eccidi. Questo perchè nell'ambito di un reparto militarmente ordinato, le decisioni assunte dai vertici gerarchici vengono successivamente trasmesse attraverso i canali della struttura gerarchica fino agli esecutori materiali, cosicchè in questa dinamica, una qualunque interruzione della catena precluderebbe la traduzione di quell'ordine in azione concreta; doveva quindi essere considerato determinante il contributo dato da qualunque militare che si fosse trovato ad occupare un livello intermedio tra il vertice e la base.
In particolare veniva contestata l'assoluzione di O. e OD. per i fatti occorsi in Monchio, Susano e Costrignano il 18 marzo 1944 (capo A).
Quanto ad OD., il ricorrente insisteva sul fatto che la corte ebbe a travisare alcuni dati storici acquisiti, avendo ritenuto che nelle operazioni fossero state impiegate solo sezioni della decima batteria, comandata dall'imputato; invero dal bollettino del combattimento relativo all'impiego del reparto contro la cd. banda partigiana, emergeva l'intervento di una batteria contraerea 8,8 cm., individuata nella decima batteria che ricevette l'ordine di andare a posizionarsi a Montefiorino e sul far del giorno chiudersi su Monte Santa Giulia, Monchio e Costrignano e sostenere l'attacco del reparto di ricognizione, il che valeva a dire che il capitano Od., comandante della decima batteria, ebbe a ricevere l'ordine di V. L.C.; risultava provato che l'ordine di recarsi a Montefiorino fu impartito alla decima batteria comandata dall' Od., che il destinatario dell'ordine fu il comandante della decima batteria, quindi Od. e che a sua volta questi governò in modo apicale l'intera batteria, trasmettendo l'ordine criminoso e non limitandosi a trasmetterlo ad alcune sezioni. Il ragionamento della corte d'appello che ha dato per scontato il distacco di uomini dalla batteria, che avrebbe comportato la recisione del legame con il comando della compagnia stessa, è stato nettamente contestato dal ricorrente poichè risultato storicamente contrastante con i dati certi che accreditavano l'intervenuto impiego dell'intera decima batteria, comandata appunto dall' Od., che ricevette l'ordine direttamente da V.L. e quindi a sua volta concorse nella trasmissione ai sottoposti dell'ordine di cannoneggiare i civili. Anche O. doveva essere ritenuto colpevole, poichè questi era stato il comandante interinale della compagnia, stante l'assenza del capitano B., oltre che comandante del plotone pionieri della quinta compagnia, che con certezza prese parte all'eccidio; in misura ancora più stridente si doveva cogliere, secondo il ricorrente, l'illogicità delle valutazioni della corte militare, laddove giunse a ritenere che l'imputato fosse rimasto comodamente presso il comando di compagnia, essendosi limitato a rendere disponibili i suoi diretti sottoposti, senza neppure sapere a quale tragica operazione essi fossero destinati a partecipare. In particolare poi viene osservato dal ricorrente che l'aver ritenuto che l'operazione fosse stata concepita dall' O. come un'operazione bellica contro bande, era smentita dal fatto che il militare ben sapeva che l'azione era diretta nei confronti di cittadini inermi e che era certamente sproporzionata rispetto al proposito di combattere la formazione partigiana locale, abbarbicata in un luogo di modeste dimensioni, quale era Monte Santa Giulia. Veniva poi aggiunto, a confutazioni dei passaggi argomentativi della Corte d'appello, che O. era certamente comandante ad interim di un'intera compagnia del reparto esploranti nel marzo 1944, con il che fu certamente presente nello Stato maggiore del reparto esplorante nel momento della pianificazione, quando mise a disposizione un plotone ed una squadra della quinta compagnia. Sul punto concorreva la testimonianza di H.E.J., attendente di V.L., che ebbe a collocare l' O. come ufficiale che faceva parte dello stato maggiore, che le operazioni vennero discusse in riunioni e che le note informative sulle operazioni giunsero almeno fino ai comandanti di squadra, a smentita di quanto affermato dall'interessato, secondo cui egli si sarebbe tenuto sempre con la truppa, lontano dallo Stato maggiore. E' stato quindi lamentato che la corte non abbia considerato: a) la necessità non casuale di approntamento di uomini e mezzi, avendosi avuto riguardo al tipo di operazione da compiere in un'ampia area, con omogeneità di condotte omicidiarie in tutta la zona interessata e che si tradusse nelle irruzioni dei soldati in abitazioni private, ove non c'erano per cognizione preventiva forze partigiane; b) la necessità che fosse il comandante di compagnia, una volta conosciuto il contenuto dell'ordine definito il 17 marzo, di sterminio di banda partigiana, a mettere all'uopo a disposizione personale militare dotato di particolari capacità ed armamento.
Veniva rilevata la contraddittorietà della decisione con le premesse che la stessa Corte si era posta al suo argomentare e quindi il Procuratore ricorrente rilevava che delle due, l'una: o all' O. - che la stessa sentenza indica come partecipe alla fase della pianificazione dell'azione -, furono nascosti i connotati dell'azione di massacro dei civili, oppure i connotati di guerra ai civili in cui si tradusse l'azione del 18 marzo, furono realizzati in loco per una simultanea iniziativa da numerosi comandanti di plotone e squadra, eventualità che la stessa sentenza di secondo grado ha escluso. La verità è quella affermata dal primo giudice, secondo cui O. partecipò alla fase preparatoria dell'operazione ed ebbe a fornire il rilevante contributo di approntamento dei mezzi materiali, perchè l'evento si realizzasse secondo quanto progettato.
Ragion per cui il ricorrente sollecitava l'annullamento sul punto della sentenza, essendo manifesta in capo all'imputato la responsabilità per l'intervenuta opera di rafforzamento del proposito criminoso e di agevolazione dell'opera dei concorrenti.
E' stata poi contestata la sentenza in punto assoluzione in ordine al capo B) riguardanti le stragi nella zona in provincia di Firenze, di K. ed OD.; secondo il ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe errata nello stabilire che non era provato che l' OD. si trovasse sui luoghi del massacro e che K. avesse funzione di comando; sarebbe stato dimenticato di valutare che era stato accertato con sicurezza che l'eccidio del 10 aprile 1944, nella zone di Monte Morello, fu l'esito di un preventivo ordine finalizzato all'uccisione indiscriminata di civili, ordine che la corte ebbe a negare fosse stato diramato, solo per l'eccidio di Mommio, di cui al capo D. Era stato provato che sul Monte Morello parteciparono parti della decima e della diciassettesima batteria del reggimento contraerea della Divisione Herman Goring e l' Od. era all'epoca comandante della decima batteria ed era ufficiale di ordinanza del battaglione a cui apparteneva la 17ma batteria. Il ricorrente evidenziava come una volta appurata la partecipazione della decima batteria all'operazione, non poteva essere sostenuto che all'interno di un corpo quale la Herman Goring, si potesse anche solo ipotizzare che un comandante di batteria potesse limitarsi a svolgere compiti talmente generici da non poter configurare un contributo casualmente rilevante ed adeguato alla commissione dell'eccidio. E' del tutto plausibile ipotizzare che il capitano di una batteria militare impegnata in una tale operazione non abbia in concreto svolto tutte quelle attività che erano funzionalmente strumentali all'operazione quali le istruzioni, la scelta degli uomini, l'equipaggiamento che incombevano sul comandante della batteria. Del resto, il capitano W. è stato condannato, pur ponendosi la sua posizione in modo assolutamente sovrapponibile a quella dell' Od.. Ancora una volta la corte sarebbe quindi incorsa in un grave errore valutativo, integrante una manifesta illogicità, laddove è stato ipotizzato che nell'ambito di operazione dettagliatamente preordinata un comandante di batteria chiamata ad intervenire, avesse potuto ignorare il contenuto dell'operazione e si fosse limitato a fornire alla cieca gli uomini. Realtà ancora più inverosimile se solo si consideri, come più volte ripetuto, i caratteri dell'organizzazione militare della Herman Goring. Quanto al K., venivano evidenziati i profili di manifesta illogicità del discorso giustificativo, laddove è stato escluso che potesse essere configurato un colpevole coinvolgimento del prevenuto nei fatti imputatigli, considerato che nel corso dell'operazione i collegamenti tra lo stato maggiore e la 17.ma batteria non furono tenuti dal K.. Veniva evidenziato che tale realtà non risultava da alcuna evidenza, mentre era certo che il K. avesse svolto funzioni di comando della batteria in concreto impegnata nell'operazione e non si vede davvero come non abbia potuto fornire un concreto contributo operativo. Con il che non si giustificava sotto un profilo logico e giuridico l'assoluzione.
Ancora veniva contestata l'intervenuta assoluzione di K. ed OD. per il reato sub C), episodio che è il più sanguinoso tra quelli trattati per dimensioni, spietatezza usata e durata.
Veniva evidenziato che era stato provato ed accertato che le stragi furono deliberatamente programmate nella loro devastante ferocia e che si rivelarono frutto di operazioni complesse, capillarmente pianificate, sviluppate in più giorni, il che presupponeva continui adattamenti che potevano essere assicurati solo grazie al pieno funzionamento della catena di comando; fin dalla fase della programmazione era stata prevista l'uccisione di donne e bambini, cosicchè non poteva essere neppure immaginato che il comandante dei reparti impiegati avesse solo messo a disposizione i propri uomini, senza avere la minima idea del lavoro sporco che sarebbero stati chiamati a svolgere e soprattutto senza prendere parte attiva, come era loro specifico compito all'operazione, per assicurarne la riuscita, anche se non tutta la batteria comandata avesse avuto partecipazione. Senza contare che per il W., che è stato condannato per questo episodio, è stato scritto che ogni militare avente funzioni di comando che apparteneva ad una delle unità impiegate, era consapevole del carattere manifestamente criminoso dell'intera operazione, mirante all'uccisione indiscriminata di civili, cosicchè doveva ritenersi che ciascuno avesse fornito un determinate e consapevole contributo causale alla commissione dell'eccidio. Tale ragionamento però non è stato ritenuto valido per Od. e K., laddove il primo era il comandante della batteria contraerea Flak, reparto che partecipò all'operazione, anche se non nella sua integrante, e non è stato accertato chi, invece di lui, ebbe a comandare la batteria impegnata in detta operazione. Anche K. era il braccio destro del Comandante, con funzioni di primaria importanza, cosicchè non si vede come la linea di comando seguita per l'impiego, anche solo di una parte del terzo reparto reggimento contraerea, non abbia coinvolto il tenente K., ufficiale d'ordinanza che, come è stato rappresentato dal teste, gen. D., aveva compiti nevralgici nella ricezione del flusso informativo proveniente dalle unità operanti e nella formulazione al comandante delle proposte di eventuale modifica del piano operativo, allo scopo di adeguarlo alle contingenze.
Infine, il procuratore Generale si doleva dell'assoluzione di O., W. e S. per i fatti sub D: la corte avrebbe lasciato impunita la strage commessa in provincia di Massa, sul presupposto che il comando dell'operazione non fu attribuita al cap. V.L., bensì fu assunta dal col. A., ufficiale del Koruk dell'esercito tedesco e che si trattava di operazione condotta con un numero limitato di uomini, che non prevedeva l'uccisione di donne e bambini. Il ricorrente riportava il ricco testimoniale offerto da soggetti che in giovanissima età ebbero a vivere quei maledetti giorni e dovettero contare la perdita di persone care:
poichè era noto a tutti i comandanti che costituiva crimine di guerra l'uccisione senza processo di civili inermi, doveva essere ritenuto che la decisione di passare per le armi poveri contadini, un carbonaio, un pastore non era frutto di singole iniziative, bensì il frutto di ordini superiori che dettero via libera a questo tipo di azioni criminali, che nulla avevano a che fare con la lotta ai partigiani. Il fatto che il comando dell'operazione fosse stato affidato ad un ufficiale non appartenente alla famigerata Divisione Herman Goring, non era di per sè decisivo ad escludere che fossero stati impartiti ordini di andare oltre il consentito, poichè è vero che nell'ordine si escludeva di uccidere donne e bambini, ma questo andava inteso come un paludamento per nascondere i tratti comunque criminali dell'operazione, falsificando la realtà dei fatti ed accreditando l'appartenenza dei soggetti passati alle armi al gruppo dei partigiani, falsificazione che doveva legittimare l'operazione.
Coloro che rivestirono a vari livelli, funzioni di comando dovevano essere ritenuti responsabili di tutte le uccisioni perpetrate, avendo fornito in piena consapevolezza e volontà il loro contributo in termini di trasmissione di ordini e di organizzazione dell'operazione svolta il 4 e 5 maggio 1944, in Monnio e Fivizzano. Tra l'altro, non poteva essere trascurato che le uccisioni riguardarono civili inoffensivi e disarmati; che nel paese di Mommio furono bruciate e rase al suolo pressochè tutte le abitazioni, il reparto esplorante fu inviato nei luoghi focali da colpire; che nella zona di Monnio operarono la quinta compagnia, con particolare riferimento al plotone pionieri comandato da O. e la terza compagnia, comandata dal tenente V.P..
Veniva lamentato che gli appunti presi sul diario dal ten. B. (comandante della quinta compagnia), che risultavano parziali, reticenti ed ispirati alla finalità di coprire i profili criminosi delle attività, siano stati recepiti acriticamente come prova, laddove questi annotò che il 3 maggio iniziò la marcia motorizzata negli appennini etruschi in direzione passo di Cerreto, ad opera della quinta compagnia con funzioni di ricognizione dei luoghi;
che il 4 maggio alle 6,00 ebbe inizio l'attacco nel monte di Mommio e che la quinta compagnia ebbe l'ordine di rastrellare con il plotone pionieri comandato da O. la località di Vendaso; che nel pomeriggio fu localizzata una base partigiana e fu distrutto un ricovero di munizioni con i cannoni ed arrestati sette o otto uomini, e che soltanto tre case furono bruciate, il 5 maggio successivo, dalla terza compagnia, comandata da W. e S.. In realtà come le evidenze acquisite hanno dimostrato, nel solo paese di Mommio, furono trucidati civili innocenti, rispetto ai quali nessun elemento esisteva per poterli collegare con la lotta partigiana e furono distrutte 70 delle 72 abitazioni private.
L'operazione ermeneutica che ha condotto la corte alla pronuncia assolutoria si sarebbe ispirata esclusivamente alle indicazioni contenute nel diario di B., laddove si aveva certezza che se 6-8 uomini furono trasferiti, prima di essere uccisi, presso lo stato maggiore del reparto, altri 14 uomini furono trucidati da personale militare delle due compagnie, senza essere portati allo stato maggiore, contrariamente a quanto hanno scritto i giudici d'appello.
Il carattere punitivo dell'operazione Mommio andava desunto dal fatto che l'intero paese fu incendiato. La catena di comando nel caso di specie andava individuata secondo la linea che partiva dallo Stato Maggiore del reparto, per passare alle Compagnie, quindi ai Plotoni ed alle squadre, con una dinamica assolutamente speculare a quanto avvenne nel paese di Cervarolo, dove furono trucidate 23 persone e venne incendiato l'intero paese (capo B), fatto per cui venne condannato lo S.. L'assenza di un ordine preventivo di massacro dei civili - che non vi fu nemmeno in relazione agli altri fatti in giudizio - non consentiva di rendere esenti da responsabilità penale i comandanti del reparto esplorante, quanto meno quelli che agirono sul campo, che contribuirono non solo a determinare la sorte degli otto civili trucidati nel passo del Cerreto, ma anche a determinare il massacro di altri 14 civili a Mommio, trattandosi di soggetti tutti non catturati nell'ambito di combattimenti, che nulla avevano a che vedere con le c.d. bande partigiane. Era stato appurato che all'operazione aveva partecipato, come riferito dal ten. B. nel suo diario il Reparto esplorante, del cui stato maggiore facevano parte sia O., che W., entrambi vicecomandanti delle compagnie, che nelle operazioni del 4 e 5 maggio ebbero funzioni di comando sul campo. Sarebbero stati del tutto travisati: a) il dato che le uccisioni e le distruzioni avvennero in un contesto spazio temporale ristretto, come dimostravano i dati cartografici acquisiti, senza combattimenti con formazioni partigiane; b) i dati testimoniali che comprovavano le modalità di uccisione dei civili, a seguito di una manovra di accerchiamento dell'abitato di Mommio, e dove con inaudita ferocia vennero uccisi un ventiquattrenne mentre raccoglieva legna, un carabinieri in congedo per malattia, prelevato dal letto di casa e buttato tra le fiamme, un pastore, un soggetto ucciso a bruciapelo per essere poi derubato di orologio e cintura, ed altri uomini intenti nelle loro quotidiane attività; c) i dati riportati nello stesso diario del ten. B., quanto all'intervento delle compagnie comandate da O. e S.. Il profilo contraddittorio della motivazione si appaleserebbe poi laddove fu detto che anche nella catena gerarchica in senso discendente, nell'ambito del reparto esplorante, vi fu una incondizionata disponibilità all'esecuzione dei massacri, senza poi trarne le debite conclusioni.
3.2 L'imputato S. si è doluto, pel tramite del suo difensore deducendo mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, per non essere stati considerati i rilievi difensivi e per non essere stata riconosciuta l'esimente invocata.
3.3 W. ha da parte sua dedotto mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, quanto all'intervenuta affermazione di colpevolezza per il capo C): sarebbe stata ritenuta la presenza dell'imputato sui luoghi della strage del 13/18 aprile in Monte Falterona, in base al dato cartolare rappresentato dai documenti matricolari del suo reparto, che furono acquisiti e non sulla base dell'effettiva presenza sul luogo delle operazioni, ricavando la prova della sua partecipazione alle stragi dalle funzioni di comandante di un plotone coinvolto nelle stesse operazioni, in forza quindi di un semplice sillogismo. La difesa oppone la differenza tra presenza matricolare e presenza effettiva di un militare presso un reparto, visto che nel periodo della strage dal 18 al 20 marzo 1944 era stato provato che W., ancorchè presente dal punto di vista matricolare, si trovava ricoverato in un ospedale militare e poi nel convalescenziario di S. Martino di Castrozza; aggiunge che il dato non poteva essere superato con il richiamo alla ricognizione dei luoghi, alcuni giorni prima delle stragi, ove poi sarebbero stati compiuti i rastrellamenti, poichè il dato ricognizioni suona assolutamente equivoco, per l'impossibilità di stabilire un nesso funzionale, in senso di tattica militare fra l'atto ricognitivo del W. ed i massacri consumati nei giorni seguenti. Viene lamentato il salto logico nell'iter argomentativo, nella misura in cui veniva ricavato da una ricognizione, fatta alcuni giorni prima delle operazioni antipartigiane, la certezza della partecipazione del sottotenente W. ai massacri perpetrati giorni dopo dai reparti di appartenenza.
Viene poi opposto che la cd. formula di impunità che era stata diramata dal mar. Ke. portava una data successiva ai fatti de quibus e che non poteva essere interpretata - come hanno fatto i giudici del merito- come una clausola di salvaguardia per tutto quanto fosse stato tacitamente autorizzato in precedenza. Sarebbe stato arduo il passaggio della sentenza con cui la corte d'appello ebbe ad equiparare, ponendo sullo stesso piano, una non provata sollecitazione alle violenze commesse prima del 17.6.1944 (data della famigerata direttiva del Ke.) e la sostanziale accettazione delle stesse. Non solo, ma per dimostrare che un ordine di uccidere soggetti inermi ci fosse stato, i giudici del merito sarebbero risaliti dal risultato finale, cioè la consumata uccisione indiscriminata, per dedurre l'esistenza di un ordine in tale senso, con un'evidente caduta in un'inversione metodologica nella struttura argomentativa. Tanto più che tale conclusione andava a collidere con le forti espressioni di denuncia formulate nella direttiva del 21.8.1944 del Ke., in cui si ricordava che in caso di ingiustificate azioni contro la popolazione civile sarebbe stato inflessibile nel portare i responsabili a darne conto.
Pertanto, secondo la difesa non poteva essere addebitata all'allora ventenne sottotenente W. il carico dell'operazione, in nessuna delle posizioni psicologiche neppure intermedie, a titolo di dolo eventuale, cosicchè veniva chiesta l'assoluzione per il reato sub C).
E' stato poi lamentato che la corte non abbia offerto alcun discorso giustificativo sulla sussistenza dell'aggravante della premeditazione, che fu contestata in sede di gravame, sul presupposto che avevasi riguardo ad azioni di reazione immediata e ritorsiva;
nessuna risposta motivazionale convincente sarebbe giunta alle doglianze sulle riconosciute aggravanti dei motivi abietti, avendo fatto la difesa riferimento al dato che le morti seguirono all'uccisione di due soldati tedeschi, ed avendo evidenziato come nella logica dell'azione bellica non avrebbe senso parlare di vendetta, anche per evidente macroscopica sproporzione tra la perdita subita dalle truppe e la strage consumata nei giorni successivi.
Quanto all'aggravante delle sevizie e crudeltà, era stato evidenziato come ammesso e concesso che il prevenuto avesse partecipato alla fase preparatoria dei rastrellamenti, non sussisteva prova di accettazione della possibilità di realizzare condotte riconducibili allo schema dell'art. 61 c.p., n. 4.
Viene poi ancora contestata la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, visto che l'intrinseca gravità del reato non può di per sè giustificarne il diniego; è stato evidenziato che l'imputato non aveva depistato le indagini, si era sottoposto agli interrogatori, aveva commesso il fatto in giovanissima età in un contesto di anestesia delle coscienze ai valori morali, ma che aveva tenuto nel seguito degli anni una buona condotta di vita.
Infine la difesa si è lamentata del capo della sentenza sulle statuizioni civili; in particolare è stata ribadita la fondatezza dell'eccezione che era stata rigettata sulla legittimità degli enti diversi dallo Stato italiano e soprattutto dell'ANPI (associazione nata dopo i fatti), a costituirsi parte civile, in presenza della costituzione dello Stato italiano. Secondo la difesa, sarebbe fragile l'argomento usato dal tribunale, secondo cui gli enti territoriali diversi dallo stato avrebbero una loro diversità di attribuzioni, visto che la posizione sovraordinata dello Stato è tale da assorbire le istanze degli enti; tra l'altro la corte d'appello non avrebbe specificato in quale modo e misura il danno subito dalle singole unità territoriali si distingua da quello dello stato, come tale obbligato ad intervenire per dare adeguato ristoro alle richieste dell'ente sottoordinato, anche nella veste di unico ente legittimato a tutelare le loro richieste di fronte agli stati di appartenenza degli autori dei crimini di guerra. Tanto più a fronte della dichiarata carenza di giurisdizione per quanto riguarda le statuizioni sulla condanna del responsabile civile (Repubblica Federale tedesca). Quanto poi all'ANPI, la difesa ricorda l'art. 91 c.p.p., secondo cui è ammessa la costituzione di parte civile degli enti esponenziali a condizione che agli stessi, anteriormente alla commissione dei reati per cui si procede, siano state riconosciute in forza di legge finalità di tutela degli interessi lesi dal reato.
L'ANPI, come gli stessi giudici hanno riconosciuto, fu costituita nel 1945; non si poteva, secondo la difesa, parlare di incorporazione, come hanno fatto i giudici di merito, nel senso di considerare confluiti in ANPI tutti i gruppi e le formazioni partigiane esistenti prima del 1945, invocando l'art. 74 c.p.p., che peraltro riguarda situazioni assolutamente diverse, essendo l'incorporazione giuridicamente ammissibile solo fra due enti omogenei o quanto meno non eterogenei.
4. L'imputato W.H.G. ha depositato due memorie.
Con una prima depositata il 18.10.2013 la difesa dell'imputato rileva, quanto al ricorso interposto dal procuratore Generale, che è ai limiti dell'ammissibilità, tendendo a sollecitare una diversa valutazione delle risultanze probatorie, dovendosi apprezzare l'assoluta opinabilità delle conclusioni che il ricorrente ritiene di ricavare dalle medesime circostanze che furono utilizzate dai giudici dell'appello per addivenire all'assoluzione.
Con successiva memoria depositata il giorno 11 novembre 2013, W. ha dedotto nuovi motivi con cui ribadisce che da nessuna fonte testimoniale o documento risulterebbe anche in maniera indiretta che egli abbia messo a disposizione uomini della propria unità o che avesse impartito ai militari dipendenti gli ordini esecutivi del programma di sterminio in questione; sarebbe errato aver desunto la partecipazione ai fatti sulla base della sola presenza matricolare del militare presso un reparto. La corte di merito avrebbe superato la criticità del discorso giustificativo del primo grado, assumendo che l'imputato aveva svolto attività ricognitiva dei luoghi, laddove il dato della ricognizione porta un elevato tasso di equivocità, essendo impossibile stabilire un sicuro nesso funzionale, in senso di tattica militare, fra l'atto di ricognizione ed i massacri consumati nei giorni successivi. Sarebbe evidente il salto logico nell'iter argomentativo, laddove si ricava da una ricognizione praticata alcuni giorni prima delle operazioni antipartigiane la certezza della partecipazione dell'imputato ai massacri successivamente compiuti, considerato che la ricognizione consiste nella semplice perlustrazione dei luoghi in cui dovranno operare i militari e non è di per sè strumento di predisposizione di indiscriminati eccidi. Inoltre la difesa ribadisce che sarebbe stata data per pacifica una circostanza che tale non era e cioè che W. fosse stato sul campo a guidare il suo plotone, ragion per cui il concorso nel reato del medesimo non sarebbe ravvisabile, nemmeno nella forma prevista dall'ari. 116 c.p..
5. La difesa di Od.He. ha depositato il 21.10.2013 una memoria con cui ha opposto l'irritualita della notificazione dell'atto introduttivo il giudizio in cassazione ricevuto quale difensore e quale domiciliatario dell'imputato; rileva la difesa che l'imputato risulta risiedere all'estero, cosicchè doveva procedersi a termini dell'art. 169 c.p.p. fin dal giudizio di appello; ha aggiunto che in secondo grado non ebbe nulla ad eccepire, per non paralizzare il procedimento.
6. Con memoria depositata dalla parte civile Regione Emilia Romagna sono stati richiamati gli arresti di questa Corte quanto alla posizione del militare sul piano dell'agevolazione nella realizzazione dell'evento, nonchè delle condotte degli altri concorrenti. In relazione alla contestazione di cui al capo A) la difesa fa rilevare che nel documenti n. 41 Rapporto Operaz.
19.3.1944,la fase preparatoria dell'azione e quella esecutiva vede l'uso del verbo "annientare". O. per la rilevante posizione ricoperta nello stato maggiore del reparto offrì un rilevante contributo materiale nell'approntamento dei mezzi necessari e condivise in toto il programma criminoso. Partecipò alla fase della pianificazione in cui non furono taciuti i connotati dell'operazione poichè è la stessa Corte che afferma che le operazioni del 18 marzo avvennero per una simultanea iniziativa di numerosi comandanti di plotone e squadra, il che presupponeva la perfetta conoscenza della tattica da seguire, così come concordata.
Parimenti per OD., la difesa riprende le testimonianze acquisite e la documentazione raccolta per concludere sulla piena responsabilità concorsuale: viene infatti rilevato che dal bollettino del combattimento relativo all'impiego del reparto contro le bande, venne disposto che una batteria contraerea 8,8 cm., individuata nella decima batteria ricevette l'ordine di andare in posizione Montefiorino e sul far del giorno chiudersi su monte S. Giulia, Monchio e Costrignano e sostenere l'attacco del reparto di ricognizione. Tale realtà dimostrava con certezza l'avvenuta ricezione dell'ordine di V.L. da parte dell' Od. che quindi doveva ritenersi coinvolto nella esecuzione della deliberazione criminosa.
Veniva poi sottolineato come la corte fosse incorsa in grave errore valutativo, laddove aveva sostenuto che il distacco di un plotone o di una sezione della compagnia, recideva il legame sotto il profilo funzionale, con il comando di appartenenza, laddove la compagnia comando della decima batteria associata al reparto esplorante per l'attività repressiva verso i civili, comandata da Od., ricevette l'ordine dalla prima, concorse nella trasmissione ai sottoposti dell'ordine di cannoneggiamento dei civili ed operò da supporto alle truppe di fanteria.
7. Nelle more della discussione del presente processo decedeva l'imputato O..
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. A seguito della morte dell'imputato O. deve essere annullata la sentenza senza rinvio, perchè i reati a lui ascritti sono estinti per morte dell'imputato.
2. Il ricorso interposto da S.W.K. va dichiarato inammissibile, poichè il prevenuto non interpose appello avverso la sentenza di primo grado e perchè il ricorso in cassazione difetta di specificità, essendosi il prevenuto limitato a richiedere l'annullamento della sentenza di appello, senza specificazione dei punti oggetto del gravame e senza evidenziazione degli elementi posti a fondamento delle censure. Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sent. n. 186 del 2000), al versamento a favore della Cassa delle Ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro mille, ai sensi dell'art. 616 c.p.p..
3. L'eccezione sollevata dalla difesa di OD. sulla irregolarità della notificazione è infondata e non può essere accolta, poichè muove da un presupposto di fatto errato, secondo cui non risulterebbe che il pm nella fase delle indagini, ovvero i giudici di merito, abbiano proceduto nelle forme dell'art. 169 c.p.p.. Contrariamente a quanto assunto, risulta che fu seguita la procedura della notificazione all'estero, con invio di raccomandata contenente l'indicazione dei dati indicati dalla norma suindicata ed invito a dichiarare domicilio in Italia, tradotto in lingua tedesca;
detta notifica, come risulta dagli atti offerti in comunicazione dal Procuratore Generale in udienza, venne consegnata il 5 marzo 2007 alla signora Od.Ri., in assenza dell'interessato. In mancanza di comunicazione di domicilio in Italia, le notifiche furono quindi sempre eseguite mediante consegna al difensore, come prescritto dalla norma citata.
4. Il ricorso interposto dal Procuratore Generale Militare è fondato e deve essere accolto.
Va premesso che il sindacato di legittimità di questa Corte sul procedimento logico, che consente di pervenire al giudizio di attribuzione del fatto con l'utilizzazione di inferenze o massime di esperienza, è diretto a verificare se il giudice di merito abbia indicato le ragioni del suo convincimento e se queste siano plausibili: la verifica deve essere compiuta in termini di accertamento se il giudice abbia preso in considerazione tutte le informazioni rilevanti presenti agli atti, rispettando così il principio della completezza, se le conclusioni assunte possano dirsi coerenti con il materiale acquisito e risultino fondate su criteri inferenziali e deduzioni logiche ineccepibili sotto il profilo dell'incedere argomentativo, rispettando i principi della non contraddittorietà e della linearità logica del ragionamento.
Oggetto dello scrutinio del giudice di legittimità è dunque il ragionamento probatorio, quindi il metodo di apprezzamento della prova, non essendo consentito lo sconfinamento nella rivalutazione del compendio indiziario. E' dunque attenendosi a questi parametri valutativi, in stretta osservanza del percorso segnato dalla normativa processuale che non consente sconfinamenti, che questa Corte ha condotto l'esame sui profili di violazione che il Procuratore Generale ha dedotto in sede di ricorso, giungendo alla convinta conclusione che la sentenza impugnata risenta di una non corretta elaborazione di tutte le evidenze disponibili, non coordinate tra loro adeguatamente, ma soprattutto che non siano state tratte conclusioni compatibili con i dati acquisiti e con le linee interpretative che il tribunale si era posto e che la corte d'appello aveva detto di condividere, manifestando poi uno scostamento marcato dalle premesse, nelle conclusioni assunte, tanto da fare risultare frustrato il ragionamento probatorio posto alla base del discorso giustificativo delle pronunce assolutorie, che si profila del tutto inaccettabile, perchè palesemente contraddittorio.
La Corte, come rilevato dalla parte pubblica ricorrente, ha condiviso il principio cardine del ragionamento seguito dai giudici di primo grado, secondo cui tutti gli ufficiali e sottoufficiali, investiti di funzioni di comando che parteciparono alle operazioni indicate nell'imputazione, quando era provata in concreto l'esistenza di un ordine preventivo di uccisione indiscriminata di civili, andavano ritenuti responsabili. Condividendo principi già affermati da questa Corte in altri arresti, il Tribunale aveva aggiunto che non era richiesta la prova diretta alla partecipazione del singolo alle uccisioni, nel senso che non era necessaria la presenza sul campo delle operazioni del singolo preposto a funzioni di comando, essendo sufficiente il consapevole coinvolgimento nella catena di trasmissione degli ordini che resero possibile la programmazione e l'esecuzione degli eccidi.
Le pronunce assolutorie, in riforma della prima sentenza, sono seguite ad un ragionamento secondo cui gli ufficiali oggi imputati avrebbero semplicemente operato con la messa a disposizione di un contingente di uomini da loro dipendenti, in vista di un'operazione bellica comandata da altri, operazione di cui non era certo che fossero conosciuti i contorni criminosi poichè il distacco di un plotone, di una sezione, di una compagnia, di una batteria di appartenenza, avrebbe reciso il collegamento con il comando della suddetta compagnia, facendo sorgere una diretta ed effettiva dipendenza operativa dal comandante del reparto in cui si veniva inseriti, così che il comandante del reparto di provenienza non poteva ritenersi a conoscenza dei massacri e andava reputato non responsabile di quanto accaduto sul campo in cui materialmente non ebbe ad operare.
Tale modus opinandi è censurabile, così come correttamente argomentato dalla parte pubblica ricorrente. Infatti, scendendo nel dettaglio delle imputazioni, quanto ai fatti del 18 marzo 1944 in Monchio, Susano e Costrignano (capo A), non poteva essere trascurato che l' OD., comandante della decima batteria della Flak (reggimento contraereo) della Divisione Herman Goring, come già sopraevidenziato, ebbe a dislocare una batteria che fu posizionata su monte Fiorino con il compito di bombardare i centri abitati durante l'azione di avvicinamento degli uomini del reparto esplorante. Da tale realtà, posta a premessa dell'argomentare, non poteva essere inferito che il comandante di un reparto, le cui truppe giunsero in tempo utile per sferrare l'attacco, fosse stato tenuto all'oscuro degli obiettivi che si intendeva colpire. La corte peraltro nel prendere dette conclusioni, già di per sè implausibili, trascurava una serie di evidenze accertate documentalmente, quanto al fatto che venne impiegata nell'operazione del 18 marzo l'intera decima batteria pacificamente comandata da Od. (per sua stessa ammissione) e non solo alcune sezioni (v. doc. acquisito, siglato RH24-75/8K-2), nonchè al fatto che il reparto esplorante era diretto da V. L., che diede ordine del cannoneggiamento dei civili e di posizionamento della batteria a ridosso dei centri abitati, per preparare il terreno agli uomini del reparto esplorante, ordine che venne a sua volta trasmesso all' Od., secondo la collaudata catena di comando militare, che presupponeva che laddove ci fosse impiego di uomini e mezzi, il comandante della compagnia fosse coinvolto nella materiale attuazione degli ordini ricevuti dallo stato maggiore, fermo restando che è il comandante di compagnia a costituire l'anello di trasmissione delle disposizioni ricevute ed il fondamentale snodo che assicura l'attuazione dell'ordine, selezionando i plotoni ritenuti più idonei al raggiungimento dell'obiettivo strategico prefissato. La compagnia comando della decima batteria, assieme alle sezioni II, III e IV della medesima, erano le sole ad essere state acquartierate ed associate al reparto esplorante, tra le località alle porte di Bologna, in direzione di Modena. L'ordine impartito da V.L. utilizzava il termine inequivoco di "annientamento", da eseguire nei paesi a nord ed a sud del monte S. Giulia, con l'unico scopo di disseminare terrore e distruzione in un'area prossima a quella ove si riteneva avessero trovato rifugio gruppi partigiani. Come era stato evidenziato dal Tribunale, dalla documentazione di natura cartografica acquisita, emergeva che le sezioni della decima batteria e la compagnia di comando della stessa furono associate operativamente al reparto esplorante della divisione Herman Goring, nel periodo di acquartieramento in Bologna, e che dal bollettino di combattimento relativo all'impiego dei reparti contro le bande, si dava conto che nel teatro dell'eccidio del 18 marzo, fu inviata una batteria contraerea 8,8 cm. che ricevette l'ordine di andare in Montefiorino, chiudersi su monte S.Giulia, Monchio e Costrignano e sostenere l'attacco del reparto di ricognizione e detta batteria fu quella comandata dall' Od. e menzionata nel documento come batteria contraerea 8,8 cm.. Dunque l'affermazione della corte, secondo cui Od. avrebbe messo a disposizioni uomini senza conoscere i tratti dell'operazione bellica a cui sarebbero stati poi destinati il giorno successivo il loro sopraggiungere, risulta assolutamente distonica rispetto alle evidenze di carattere documentale agli atti, cosicchè la conclusione che l'imputato non fosse presente sul luogo dei combattimenti risulta scollata dalle evidenze. Ma anche volendo in ipotesi ammettere che lo stesso non avesse preso parte all'operazione sul campo, non poteva essere escluso il ruolo di diramazione dell'ordine concernente la libertà di accanimento sulla popolazione, con modalità terroristiche, divenute ormai consuete modalità di intervento, visti i precedenti fatti di Mascalucia, di Castiglione di Sicilia, di Acerra e di Bellona e quindi perfettamente conosciute da coloro che avevano funzioni di comando. E' quindi di tutta evidenza lo scostamento operato dai principi professati nelle premesse della sentenza, da parte della corte d'appello, quanto al fatto che per configurare responsabilità nell'azione militare criminale non occorra la presenza dell'ufficiale, bensì la sua consapevolezza delle conseguenze cui abbia a portare l'ordine trasmesso al raggruppamento di soldati dislocati per una particolare operazione.
Sul punto la sentenza deve essere annullata con rinvio per un nuovo esame, che tenga conto dei dati documentali acquisiti in punto diretta partecipazione dell'imputato alle operazioni e che faccia migliore applicazione dei principi ermeneutici correttamente fissati nelle premesse sul coinvolgimento dell'ufficiale, anche solo per avere coscientemente partecipato alla trasmissione degli ordini dell'operazione militare, ovvero per aver dato attuazione alle richieste di selezione e messa a disposizione del personale adeguato per la realizzazione degli ordini di mobilitazione.
Quanto al reato sub B), la pronuncia assolutoria di OD. e K., risente della stesso errore nell'iter logico argomentativo e suona in palese contrasto con i criteri per l'imputazione a titolo di concorso che gli stessi giudici di seconde cure si erano dati a pagg. 37 e segg. della sentenza. Anche per quanto riguarda le stragi di Monte Morello, Ceppeto e Cerreto, dal rapporto redatto a consuntivo dell'operazione a Monte Morello risultava documentalmente che ebbero a partecipare, oltre al primo e terzo reparto del reggimento corazzato Herman Goring, alcune unità della decima e diciassettesima batteria del reggimento contraereo della Herman Goring. K. risultò ufficiale di ordinanza presso il terzo battaglione del reggimento contraereo della divisione Herman Goring, con compiti di gestione ed esecuzione del servizio interno che comprendeva il servizio telefonico e la radiotrasmissione, ovverosia di collegamento tra lo stato maggiore ed i reparti impegnati in zone di operazioni e combattimenti, collegamento resosi ancor più necessario se solo si consideri che l'operazione sul Monte Morello fu affidata al col. V.H., comandante del reggimento corazzato, che quindi doveva dialogare con le batterie della contraerea. Od. aveva funzioni di comando della decima batteria del reggimento contraereo ed una volta appurata la partecipazione della batteria medesima all'operazione, non poteva essere ritenuto, nell'ambito della divisione Herman Goring, nota per la sua particolare disciplina, in termini di intervento di mera presenza alle operazioni o comunque di scarsa incidenza, tale da non configurare contributo causale alla verificazione dell'eccidio, visto che ogni militare con funzioni di comando ebbe a svolgere quanto meno attività di istruzione, selezione degli uomini, dotazione di equipaggiamento, attività tutte funzionali al buon esito delle operazioni che nei tempi e contesti cui si ha riguardo erano finalizzate a fare terra bruciata ai partigiani colpendo deliberatamente la popolazione inerme, ritenuta, a prescindere, colpevole di connivenza con gli stessi.
Anche sul punto la sentenza opera un salto logico nell'incedere motivazionale, incorrendo in una marcata contraddizione tra premesse e conclusioni ed in una secca smentita dell'assioma da cui i giudici erano partiti (quanto alla non necessità di un intervento sul campo, essendo ravvisabile la responsabilità sia in colui che abbia avuto a comandare l'operazione, sia in colui che abbia avuto compiti di trasmissione dell'ordine criminoso, atteso che la trasmissione integra di per sè un contributo causale decisivo, senza il quale il reato non sarebbe stato commesso). Dalle evidenze disponibili risultava che i due militari ricevettero ed eseguirono l'ordine di approntare e mettere a disposizione determinate unità nella piena consapevolezza che detti uomini avrebbero dovuto rastrellare paesi abitati da civili inermi con licenza di massacro. Pertanto la conclusioni sulla loro estraneità collide con il dato sulle funzioni di comando delle batterie in concreto impegnate nell'operazione, svolte da K. e da Od.: si trattava degli ufficiali che erano maggiormente in grado di fornire un adeguato contributo organizzativo all'operazione, essendo a conoscenza delle caratteristiche degli uomini componenti le batterie impegnate in modo più adeguato rispetto a quanto potesse fare un qualsiasi altro ufficiale di un diverso reparto. Il controllo sulla logicità e linearità della motivazione porta quindi inevitabilmente a ravvisare un difetto di coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso cui si è sviluppato il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato ed a concludere per una non corretta acquisizione dei dati informativi e per una contraddittoria valutazione dei parametri interpretativi posti a base del ragionamento.
Anche sul punto la sentenza deve essere annullata con rinvio per un nuovo esame su entrambe le posizioni.
Parimenti si deve opinare per quanto riguarda i fatti sub C), commessi tra il 13 ed il 18 aprile 1944, per il quale ancora OD. e K. sono stati assolti, in riforma della sentenza di primo grado. Era stato accertato che alle operazioni parteciparono parti della decima e diciassettesima batteria del Reggimento contraereo, comandati rispettivamente da Od. e da K..
La corte dopo aver sottolineato che i fatti in oggetto assunsero i connotati di una vera e propria strage di inaudita ferocia, con azioni sviluppatesi per giorni, con l'uccisione indiscriminata di vecchi, donne e bambini, in ispregio alle più elementari regole dello "ius in bello", concludeva che il comandante dei reparti impiegati nelle operazioni che si fosse limitato a conferire degli uomini, senza avere la minima idea del lavoro sporco che avrebbero dovuto fare, non poteva essere chiamati a rispondere degli eccidi commessi. Come correttamente rilevato dal ricorrente parte pubblica, nello specifico le stragi erano il frutto di operazioni complesse (quella della metà aprile seguiva quelle di marzo e dei primi di aprile, che avevano conclamato il modus operandi dei soldati tedeschi), operazioni che erano state capillarmente pianificate ed organizzate, che si sviluppavano su più giorni, con l'esigenza di continui adattamenti che potevano avvenire solo grazie ad un'efficiente catena di comando e che in quel momento assumevano purtroppo i connotati di un protocollo di azione ormai collaudato, di un modus operandi fatto soprattutto di attentati a persone deboli, estranee al conflitto militare. La possibilità che K. e Od. abbiano potuto mettere a disposizione alcune unità senza conoscere a quale tipo di operazione sarebbero stati destinati gli uomini, appare del tutto implausibile e smentito dalle evidenze disponibili. Tanto più che la corte ha dimostrato di applicare corretti e diversi criteri inferenziali nei confronti di altri imputati, quali il W., in relazione al quale affermava che "ogni militare avente funzioni di comando che apparteneva ad una delle unità impiegate, era consapevole del carattere manifestamente criminoso dell'intera operazione, mirante alla uccisione indiscriminata di civili", aggiungendo che "ognuno di essi quindi fornì un determinante e consapevole contributo causale alla commissione dell'eccidio considerato nella sua interezza e deve rispondere quindi di tutti gli omicidi realizzati nello stesso contesto spaziale e temporale" (v. pag. 94 sent. appello).
Orbene poichè risulta inequivocabilmente che l' Od. era a capo della decima batteria contraerea Flak, che partecipò nella sua integralità all'operazione, con un ruolo decisivo nella catena di trasmissione dell'ordine che diede l'avvio al massacro, non poteva dirsi estraneo all'operazione, non emergendo che altri abbiano seguito l'attività operativa dei contingenti impiegati: la conclusione a cui addiviene la corte si appalesa assolutamente manchevole per contraddittorietà ed illogicità. Parimenti per quanto riguarda il K., non si vede come l'impiego anche solo parziale del terzo reggimento contraereo non abbia visto coinvolto l'ufficiale di ordinanza ten. K.; nè potevasi ritenere che la messa a disposizione di uomini potesse essere avvenuta senza la conoscenza del terribile incarico loro affidato, a fronte di quanto evidenziato e non contrastato a pag.434 e segg. della sentenza di primo grado, sulla diffusa conoscenza della natura criminale delle operazioni condotte nella primavera 1944, dimostrata dalla simultaneità delle operazioni, seguendo una tecnica assolutamente costante (segno di deliberazione e diffusione), dalla omogeneità delle modalità esecutive (concentrazione di inermi ed uccisione), della finalità militare delle operazioni tese a fare terra bruciata attorno ai partigiani, scoraggiando la prestazione di aiuti a loro favore.
Anche sul punto la sentenza va annullata per manifesta contraddittorietà ed illogicità, con rinvio per nuovo esame.
Infine, per quanto riguarda il capo D, parimenti censurabile è il ragionamento probatorio che ha portato all'assoluzione di S. e W., rispettivamente comandanti di plotone e di squadra della terza compagnia reparto esploranti della divisione Hans Goring, entrambi ammissivi sulla presenza sui luoghi. Dai diari di B. era risultato che l'operazione era comandata da un colonnello del Koruk dell'esercito e che il reparto di ricognizione Herman Koring aveva come ordine di battaglia l'attacco su un esteso altipiano; che la terza compagnia ricevette l'ordine di perquisire Mommio, alla ricerca di armi e munizioni e che gli edifici ove fossero trovate armi andavano fatti saltare in aria. Erano quindi contenuti chiari riferimenti alla partecipazione della quinta compagnia, che aveva in dotazione i lanciafiamme, nonchè la seconda, terza e quarta compagnia all'eccidio dei giorni 4 e 5 maggio, comandate dagli ufficiali e sottoufficiali che avevano il comando di compagnia, plotone e squadra. Era stato evidenziato nella sentenza di primo grado che a differenza di tutte le altre località toccate dall'operazione, solo all'interno del perimetro del comune di Mommio, risultavano essere stati trucidati civili innocenti e che 70 delle 72 case del comune, erano state distrutte ad opera della terza e quinta compagnia del reparto esplorante; solo a Mommio, i cannoni vennero posizionati sulla piazza del paese, per operare un bombardamento unilaterale e sistematico, non giustificato da alcuna violenza o resistenza ad opera della gente del posto.
W. rivestiva per sua stessa ammissione il ruolo di comandante di plotone nella terza compagnia del reparto esplorante ed era il più immediato collaboratore del comandante V.P., con il ruolo di organizzatore, in conformità agli ordini ricevuti, dell'attività degli uomini che dipendevano da lui, mentre lo S. ebbe ad operare come comandante di squadra, prese parte ai rastrellamenti eseguendo gli ordini superiori ricevuti ed impartendoli agli uomini della sua squadra.
La tesi sostenuta dai giudici di secondo grado secondo cui il fatto che le operazioni fossero guidate da un comandante della Werhmach, avrebbe dovuto portare a ritenere che non fosse stato dato un ordine indiscriminato di uccidere e che il numero contenuto di morti, rispetto a quello degli uomini impegnati nell'operazione, starebbe a dimostrare che l'ordine di uccidere indiscriminatamente non sarebbe stato dato, non trova ancoraggio nelle evidenze di fatto. In primis va detto che a Mommio furono trucidati degli innocenti e furono distrutte praticamente tutte le case del paese, previa collocazione dei cannoni sulla piazza del paese, il che sta significare che le compagnie intervenute non operarono autonomamente, ma sotto lo scudo di precise direttive, non potendosi ritenere che le iniziative fossero il frutto di estemporanee decisioni, non avallate dal comando. Il fatto che dal diario di B. fosse evincibile che prima di far esplodere una casa fosse stata fatta allontanare l'anziana signora che ivi abitava, era un dato troppo isolato per essere preso a base per poter ritenere che gli ordini fossero stati nell'occasione più conformi allo "ius in bello", visto che comunque nell'operazione si era registrata l'uccisione di ventidue uomini inermi, che lasciava ampiamente supporre (contrariamente a quanto forse in un tentativo di riabilitazione postuma, aveva scritto sul suo diario il ten. B.) che fosse stata data, ancora una volta, ampia facoltà di colpire la popolazione civile.
Anche sul punto la sentenza manca di coerenza interna e va annullata per un nuovo giudizio che tenga maggiormente conto dei dati disponibili e del fatto che trattandosi dell'ultima operazione svolta sull'appennino tosco emiliano, non si poteva pensare che la licenza di colpire la popolazione civile fosse stata revocata, soltanto perchè il numero di morti fu nell'occasione inferiore a quello degli eccidi di cui si è prima trattato, avendosi avuto riguardo a protocolli di intervento in ispregio alle leggi di guerra, divenuti ormai di comune conoscenza e di pratica quotidiana.
5. Il ricorso di W. per le ragioni già dette e per quelle che seguono, deve essere rigettato.
La colpevolezza dell'imputato W. per il reato di cui al capo B) è stata affermata in quanto dalla documentazione matricolare era risultata certa la presenza del prevenuto all'operazione sul monte Falterona, in qualità dapprima di ricognitore dei luoghi, peraltro da lui stesso ammessa nel corso di interrogatorio in cui fu assistito dal suo difensore che non poteva quindi essere ignorato o dichiarato inutilizzabile, come preteso dalla difesa, sol perchè l'imputato fece riferimento a quanto ebbe ad affermare nel corso di dichiarazioni rese a funzionari di polizia, quando non risultava ancora indagato. Detto ciò la Corte riteneva, in conformità a quanto opinato dal Tribunale, che il ruolo del W. fosse stato quello di comandante di plotone della terza compagnia guidata da V. P., del reparto esplorante della divisione Herman Goring. Terza compagnia a cui vanno ricollegati gli eccidi nella zona del Monte Falterona. Coerentemente alle linee argomentative che si era posta, la corte ha ritenuto in uniformità all'opinare del Tribunale, che l'azione dei singoli militari di truppa richiedeva che fossero impartiti specifici ordini da parte degli ufficiali, cosicchè W., al pari degli altri ufficiali, contribuì ad operare nella catena di comando, impartendo le istruzioni necessarie per una coordinata ed efficace azione di rastrellamento e massacro, considerato l'elevato numero di uccisioni, in un ampio territorio, che non consentiva di ritenere l'estraneità di alcuna delle unità della divisione della Herman Goring operanti in loco, in termini di offerta di contributo causale. Il fatto che non risultasse alcuna fonte in grado di provare che W. avesse impartito direttive esecutive del programma di morte come rilevato dalla difesa, non poteva portare ad opinare diversamente, poichè come correttamente rilevato in sentenza, una volta comprovato che gli ordini erano di superare con disinibizione totale i limiti dello ius in bello, ogni comandante di piccolo o grande contingente che si uniformasse a quegli ordini, trasmettendoli ai suoi uomini, partecipava a pieno titolo (e non solo sotto forma di concorso anomalo) alla realizzazione degli eccidi in violazione alle regole che anche la guerra presidiavano. E' del tutto implausibile che W. abbia appreso degli eccidi (che ormai costituivano il modus operandi consueto delle operazioni sul territorio) solo a posteriori, nel corso di una telefonata con l'amico Hi.).
Nessun vizio in termini di logicità è dato apprezzare in questo passaggio della sentenza in cui sono state correttamente applicate le coordinate che i giudici della cognizione si erano prefisse.
Quanto alla contestata aggravante della premeditazione, la corte ha correttamente ritenuto, alla luce di quanto era stato motivato in primo grado, sulla pianificazione dei massacri della popolazione civile e della conoscenza del sanguinoso disegno da parte dei comandanti delle compagnie impiegate nell'operazione, che lo iato temporale rispetto all'esecuzione era più che sufficiente per vedere concretizzata la persistenza della risoluzione criminosa e quindi configurata la premeditazione. Corretta ed adeguata è stata la motivazione offerta dalla corte.
Sulle aggravanti dei motivi abietti veniva osservato che gli imputati agirono per puro spirito vendicativo accompagnato da esigenze di spettacolarità per infondere il terrore nella popolazione, nonchè per compiacere le gerarchie, in vista di avanzamenti in carriera. La motivazione si palesa congrua ed in linea con il parametro normativo di riferimento.
L'aggravante delle sevizie e crudeltà è stata correttamente ritenuta alla luce di comprovate azioni di aggiuntiva sofferenza provocata, soprattutto nei fatti di cui al capo C), protrattisi nel tempo e risultati di particolare afflittività e ferocia, così come hanno rappresentato i numerosi testimoni e gli storici assunti in primo grado. Anche sul punto la motivazione è adeguata. Infine le circostanze attenuanti generiche sono state negate sulla base di motivazione adeguata riportata alle pagg. 116 e 117 della sentenza, dando conto anche della non decisività del fatto di essere stati gli ufficiali assoggettati a decisioni prese dai più alti comandi; non risultando frutto di velleitaria decisione, ma di corretto esercizio di discrezionalità, la valutazione non può essere oggetto di monitoraggio nella presente fase.
Quanto alle statuizioni civili va esaminata l'eccezione sollevata dalla difesa di W. sul fatto che non fu esclusa la costituzione di parte civile dell'ANPI - costituitasi dopo il 1945 e quindi dopo i fatti de quibus - nonchè degli enti territoriali, essendovi costituzione di parte civile dello stato italiano che assorbirebbe le istanze degli enti intermedi. La difesa di W. contesta l'assunto secondo cui ognuno degli enti territoriali tutela interessi specifici connessi alle rispettive competenze, nei confronti delle comunità che subirono gli eccidi.
In primo luogo va detto che nella giurisprudenza di legittimità è consolidato il principio della risarcibilità del danno morale a favore di enti pubblici, nel senso che anche nei confronti di tali soggetti un fatto previsto dalla legge come reato può costituire titolo per il ristoro dei pregiudizi, patrimoniali e non. Questa Corte di legittimità (Sez. 1^, 8.11.2007, n. 4060/2008, Rv 239190) ha riaffermato che lo Stato, e per esso la presidenza del consiglio che lo rappresenta come organo di vertice, ha il potere e la legittimazione ad agire in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni cagionatigli da azioni contro le leggi e gli usi di guerra, e che non si vede come possa porsi in dubbio che il crimine di guerra abbia provocato dolore, sofferenza nella collettività di cui le parti civili sono enti esponenziali, creando nella memoria collettiva una ferita non rimarginabile, produttiva di danno non patrimoniale risarcibile che costituisce presupposto della legitimatio ad causam anche degli enti territoriali, ancorchè nati successivamente alla consumazione dei reati, per lo più titolari dell'interesse a testimoniare frammenti di storia così significativi di cui i territori furono sfortunati protagonisti. La corte de qua si è uniformata al principio di diritto suindicato, a cui questa corte di legittimità intende dare continuità.
Parimenti si deve opinare, per quanto riguarda la costituzione dell'ANPI, atteso che come correttamente rilevato a pag. 49 e segg.
della sentenza di primo grado, l'ANPI, (che risulta costituita il 1.6.1944 dal CLN del centro Italia, mentre il nord era ancora occupato dai nazifascisti) ebbe ad incorporare gruppi e formazioni partigiane preesistenti, subentrando per incorporazione nei diritti di quelle formazioni che operarono per liberare lo stato italiano dagli invasori tedeschi e restituire un regime di piena libertà e democrazia. I giudici della cognizione hanno ritenuto che la costituzione dell'ANPI fosse inquadrabile nella previsione dell'art. 74 c.p.p., che attribuisce l'azione civile al soggetto a cui il reato abbia recato danni, ovvero ai suoi successori universali, in linea con quanto affermato da questa Corte secondo cui il soggetto legittimato all'azione civile nel processo penale non è solo il soggetto passivo del reato, cioè il titolare dell'interesse protetto dalla norma, ma anche il danneggiato, ossia chiunque abbia riportato un danno riferibile all'azione o all'omissione del soggetto attivo del reato. Nella specie la costituzione di parte civile ove dovesse essere ritenuta non legittima in base dell'art. 91 c.p.p., avendosi riguardo ad enti o associazioni senza scopo di lucro, riconosciute anteriormente alla commissione del fatto (ancorchè sul punto si registri l'arresto suindicato in senso contrario, che legittima la costituzione degli enti territoriali ancorchè nati successivamente ai fatti di reato), la legittimazione deriva, come affermato dalla Corte, dall'art. 74 c.p.p., che attribuisce l'azione civile al soggetto al quale il reato ha arrecato danno ovvero ai suoi successori universali, per via della continuità per successione tra le associazioni partigiane e l'ANPI nato, come da statuto, per proseguire l'opera dei gruppi partigiani, incarnandone la storia e la tradizione, del diritto al risarcimento del danno per i crimini in oggetto, che ebbero ad interessare direttamente le formazioni partigiane.
Al rigetto del ricorso del W. segue la sua condanna al pagamento delle spese processuali.
In conclusione, deve essere ribadito che la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte militare d'appello, in relazione all'imputato OD. relativamente ai reati di cui ai capi A (fatti del 18.3.1944), B e C, nei confronti di K. per i reati sub B e C, nei confronti di S. e di W. relativamente al reato sub D. Poichè non è conclusa la fase della cognizione, viene riservata alla fase del merito la liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili anche nel presente giudizio.
PQM
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione all'imputato O., perchè estinti i reati per morte dell'imputato.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti dell'imputato OD. H., relativamente ai reati di cui ai capi A (fatti del 18.3.1944), B e C; nei confronti dell'imputato K.E. relativamente ai reati di cui ai capi B e C; nei confronti dell'imputato S.W.K. relativamente al reato di cui al capo D; nei confronti dell'imputato W.H.G.K. relativamente al reato di cui al capo D; rinvia per nuovo giudizio nei confronti degli indicati imputati ad altra sezione della Corte militare d'appello.
Rigetta il ricorso di W. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso di S. che condanna al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle Ammende.
Riserva alla fase del merito la liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 19 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2014
25-04-2017 10:45
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