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Sentenza

Maresciallo dell'esercito, del 2° Reggimento
Maresciallo dell'esercito, del 2° Reggimento "Orione", accusato di furto aggravato di tre biciclette parcheggiate dentro un hangar.
Penale Sent. Sez. 1   Num. 4966  Anno 2018
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: SARACENO ROSA ANNA
Data Udienza: 10/01/2017

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.D. N. IL ...
avverso la sentenza n. 155/2016 GUP PRESSO TRIB.MILITARE di
VERONA, del 28/04/2016
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/01/2017 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ROSA ANNA SARACENO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per ...
Udito, per la parte civile, l'Avv
Uditi difensor Avv.Uditi:
- il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Militare
dott. Luigi Maria Flamini, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
- il difensore dell'imputato, avvocato Alessandro Armaroli, che ha insistito
per il suo accoglimento.
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza deliberata in data 28 aprile 2016, all'esito di giudizio
celebrato con il rito abbreviato, il GUP del Tribunale militare di Verona dichiarava
non doversi procedere nei confronti di C.D. in ordine ai reati di
furto militare aggravato, ai sensi dell'art. 230 e 47, secondo comma, cod. pen.
mil . pace, riconoscendo la causa di non punibilità per la particolare tenuità del
fatto.
Secondo l'ipotesi di accusa il C., maresciallo ordinario dell'esercito,
in servizio presso il 2° Reggimento "Orione", nelle medesime circostanze di
tempo e di luogo, in Bologna il 18 giugno 2015, si era impossessato, al fine di
trarne profitto, di tre biciclette, due parcheggiate all'interno dell'hangar NH 90
della caserma sede del Reggimento, una parcheggiata davanti al ridetto hangar,
sottraendole ai proprietari maresciallo M. G., maresciallo B.A., sergente maggiore L.G..
1.1. In premessa il GUP dava atto che la sparizione delle biciclette era stata
portata a conoscenza del Comandante del reparto dal maresciallo M., una
delle tre parti lese, in data 30.06.2015; che i fatti erano stati denunziati alla
Procura Militare il 3.07.2015; che il 16.07.2015 dall'esame delle immagini del
sistema di videosorveglianza erano emersi indizi a carico dell'imputato, visto
transitare nei pressi del luogo ove le biciclette erano state riposte in orario
compatibile con la commissione dei furti; nello stesso giorno il C. veniva
sentito a sommarie informazioni testimoniali senza l'assistenza del difensore; il
giorno seguente forniva spontanee dichiarazioni, sostanzialmente confermate nel
successivo interrogatorio, rappresentando di aver ispezionato l'hangar nella data
del fatto, rimanendo contrariato per averlo trovato aperto in violazione delle
disposizioni interne; di aver istintivamente sottratto le biciclette per dimostrare
quanto la mancata chiusura del magazzino costituisse una falla nella sicurezza
della caserma; il suo era stato un gesto provocato da un momento di
indignazione e al tempo stesso un atto dimostrativo, volto a segnalare e a
stigmatizzare un disservizio.
1.2. Il decidente opinava che non ricorressero elementi sufficienti per
confutare la tesi difensiva dell'imputato; contro la sua versione militava la
circostanza che egli avesse atteso circa un mese prima di rendere noto il gesto
dimostrativo che aveva inteso realizzare e lo aveva fatto solo dopo aver saputo
dell'indagine in corso; d'altro canto non aveva adottato alcuna cautela per non
essere scoperto quale autore materiale della sottrazione, passando più volte
davanti ad un circuito di videosorveglianza, la cui presenza gli era nota, e aveva
nascosto le biciclette all'interno della caserma, spostandole da un luogo all'altro,
senza mai impossessarsene definitivamente e con il rischio del loro fortuito
ritrovamento.
Riteneva, però, che anche aderendo - stante l'incertezza probatoria - alla
tesi difensiva, nella vicenda, così ricostruita, gli elementi della fattispecie
incriminatrice risultassero pienamente integrati: il C. aveva comunque
sottratto i beni alla disponibilità dei possessori, rendendone impossibile il
recupero e, sotto il profilo soggettivo, aveva comunque agito in vista di un
profitto, sebbene immateriale, consistito nella soddisfazione di una propria
pretesa, ossia che l'hangar non fosse utilizzato come deposito di beni personali e
che fosse regolarmente chiuso e nel malcelato scopo di conseguire l'attenzione e
l'ammirazione dei superiori per lo zelo dimostrato nello svolgimento dei suoi
compiti.
1.3. Stimava, infine, di pervenire all'epilogo decisorio del proscioglimento
per la particolare tenuità del fatto, ricorrendo i presupposti della speciale causa
di non punibilità sia sotto il profilo della lieve intensità del dolo sia sotto quello
della lieve entità del fatto, avendo l'imputato agito secondo un modello
comportamentale improntato allo zelo e alla tutela degli interessi
dell'amministrazione, essendo, peraltro, militare dagli ottimi precedenti di
servizio ed avendo tenuto una condotta processuale trasparente e corretta.
2. Ricorre per cassazione l'imputato, col ministero del difensore di fiducia
avvocato Alessandro Armaroli, articolando le seguenti doglianze:
2.1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia inosservanza ed erronea
applicazione della legge penale in relazione all'art. 230 cod. pen. mil . pace,
deducendo che la decisione impugnata nel propendere per la versione dei fatti
proposta dall'imputato - che aveva affermato di aver agito al solo scopo di
richiamare l'attenzione sulla questione di sicurezza della struttura - era incorsa
nella denunciata violazione di legge lì dove aveva ritenuto sussistente l'elemento
soggettivo del reato. La nozione di profitto, come interpretata dal decidente,
confliggeva con il principio di tassatività della norma penale, risultando
indeterminata ed estensibile all'infinito; siffatta esegesi finiva per sovrapporre e
far coincidere il dolo generico ed il dolo specifico; viceversa, l'imputato aveva
agito per finalità diverse dal profitto, non aveva mai conseguito il possesso in
termini tecnico-giuridici delle biciclette, solo spostate e non già asportate e di cui
non aveva fatto alcun uso; non si era minimamente curato di essere filmato dalle
telecamere del sistema di videosorveglianza; aveva lasciato i beni in luogo
aperto e accessibile a chiunque, nel quale essi erano stati successivamente
rinvenuti, previa sua indicazione; aveva realizzato, in definitiva, una condottamateriale
e psicologica- affatto diversa da quella descritta nella fattispecie
incriminatrice.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia inosservanza ed erronea
applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener
conto nell'applicazione della legge penale in relazione agli artt. 717 e 723 d.P.R.
15 marzo 2010, n.90 e art. 15 del Regolamento " Norme per la vita e il servizio
interno di caserma".
Sostiene il difensore che il decidente aveva prescisso dai principi fissati dalle
disposizioni richiamate, alla stregua delle quali ogni militare è tenuto al senso di
responsabilità e cioè all'adempimento integrale dei doveri che derivano dalla sua
condizione per la realizzazione dei fini istituzionali delle Forze armate (art. 717);
deve opporsi ad ogni atto che possa, anche indirettamente, determinare pericolo
o arrecare danno alle armi, ai mezzi, ai materiali, alle installazioni militari (art.
723); come pure aveva trascurato l'art. 15 del Regolamento che sancisce i
requisiti di sicurezza dei magazzini e delle armerie.
Tenuto conto dei richiamati principi e della posizione del C., titolare
di un rapporto qualificato di dipendenza pubblicistica, risultava evidente che egli
si era dato una rappresentazione del fatto completamente diversa rispetto a
quella dell' impossessamento, avendo agito con l'intenzione di spostare le
biciclette da un luogo all'altro al solo fine di sensibilizzare i militari sul problema
dell'elevato grado di insicurezza a cui era esposta l'installazione e in un momento
in cui in tutte le basi militari vi era un livello di allarme generale elevato, tale da
rendere ancora più stringente l'osservanza dei protocolli di sorveglianza.
Il rispetto e la concreta applicazione di tali disposizioni erano stati
erroneamente interpretati dal GUP laddove aveva ritenuto che l'imputato avesse
agito per egoismo, mosso dal desiderio di distinguersi per zelo e scrupolo nell'
osservanza della disciplina militare.
1.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce mancanza, contraddittorietà e
manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'art. 533 cod. proc. pen.
e all'art. 6 CEDU.
Richiamando alcuni passaggi della motivazione, rimarca la persistenza del
dubbio circa l'avvenuto e definitivo impossessamento delle biciclette e, quindi,
circa l'effettiva integrazione della fattispecie incriminatrice; di conseguenza era
evidente che la decisione non aveva fatto corretta applicazione del canone di
giudizio dell' « oltre ogni ragionevole dubbio ».
2.4. Con il quarto motivo il ricorrente eccepisce l'illegittimità costituzionale
dell'art. 443 cod. proc. pen. con riferimento agli artt. 24, 111 Cost. e 6 CEDU,
nella parte in cui la norma non prevede che l'imputato possa proporre appello
avverso la pronuncia assolutoria per la tenuità del fatto che presenta i caratteri
di una tipica sentenza di condanna quanto alla sussistenza dell'elemento
oggettivo e soggettivo del reato ed è, al pari della sentenza dì condanna, iscritta
nel casellario giudiziale.
Considerato in diritto
1. Osserva il Collegio che il primo motivo di ricorso è fondato, restando in
esso assorbite le ulteriori censure.
In proposito occorre considerare che sebbene, sul piano astrattamente
concettuale, la proposta eccezione di illegittimità costituzionale, afferendo al rito,
si inserisca del novero delle questioni preliminari da scrutinare in limine, trova
tuttavia applicazione, trattandosi di incidente di legittimità costituzionale, la
particolare deroga alla stregua del principio di diritto (che il Collegio riafferma)
secondo il quale, in considerazione dell'epilogo liberatorio che nella specie si
profila a favore del ricorrente (v. infra il paragrafo sub 4.), l'obbligo della
immediata declaratoria della causa di proscioglimento, ai sensi dell'articolo 129,
comma 1, cod. proc. pen., osta alla elevazione della questione di legittimità
costituzionale la quale comporta la sospensione del procedimento, in evidente
contrasto con l'obbligo suddetto e con lesione del diritto del giudicabile a
ottenere immediatamente la pronuncia favorevole (Sez. 1, n. 19915 del
17/12/2013, dep. 2014, Gabetti, Rv. 26068801).
2. E' approdo pacifico che nel delitto di furto il dolo specifico, che si
identifica nel trarre profitto dall'impossessamento della cosa sottratta, non è
necessariamente rivolto alla realizzazione di un vantaggio economico, ben
potendo dirigersi soltanto ad una semplice soddisfazione morale o di qualsiasi
altra natura.
Nella giurisprudenza di legittimità secondo un orientamento (per vero
minoritario) al quale il Collegio, col conforto di condivisa Dottrina, aderisce,
un'eccessiva estensione della nozione di profitto, ricomprendente qualsivoglia
utilità, conduce alla non consentita dilatazione dell'operatività della norma
penale, finendo per vanificare la presenza del dolo specifico, svilendola a
connotazione priva di effettiva valenza limitativa della responsabilità.
E' stato, perciò, posto l'accento sulla necessità, perché risulti integrato il
dolo specifico richiesto dalla fattispecie, che l'azione del soggetto agente sia
sorretta dalla finalità di percepire dal bene asportato un'utilità "diretta e
immediata" anche se non di carattere patrimoniale od economico.
Pertanto si è escluso il fine di profitto nel caso, ad esempio, della sottrazione
di un telefono cellulare finalizzata ad impedire alla vittima di inviare sms alla
fidanzata dell'imputato (Sez. 4, n. 47997 del 18/09/2009, Nutu, Rv. 245742);
mentre, viceversa, si è ravvisata la sua esistenza nella condotta di chi si era
impossessato di un apparecchio cellulare sottratto alla persona offesa per
controllare messaggi eventualmente inviati, in quanto in tal caso l'azione del
soggetto agente era sorretta dalla finalità di percepire un'utilità diretta, e non
mediata, sia pure non patrimoniale, dall'impossessamento del telefono mobile,
consistente nel controllo dei messaggi e del traffico telefonico memorizzati
all'interno del sistema operativo dell'apparecchio cellulare (Sez. 5, n. 51904 del
5/07/2013, M., n.m.; Sez. 4, n. 39104 del 8/07/2009, Dianese, n.m.).
Il Collegio, in consapevole contrasto col difforme orientamento (Sez. 5, n.
19882 del 16/02/2012, Aglietta, Rv. 25267901; Sez. 2, n. 9983 del 26/04/1983,
Lo Nardo, Rv. 16135201; e Sez. 2, n. 9411 del 06/03/1978, Sessa, Rv.
13969401), intende, dunque, ribadire il principio di diritto, fissato dalla sentenza
Sez. 1, Nutu, cit., e conferire continuità al relativo indirizzo, secondo il quale,
appunto, « il dolo specifico del reato di furto è integrato dalla finalità di
percepire dal bene asportato un'utilità diretta, non mediata, anche se non di
carattere patrimoniale od economico ».
Per vero gli arresti successivi alla ridetta sentenza, ufficialmente
massimatì come « difformi », non offrono apprezzabili elementi per rimeditare
l'opzione ermeneutica operata.
Infatti delle due sentenze censite come contrarie: l'una, Sez. 2, n. 40831 del
08/10/2012, Sesta, Rv. 253593, si limita ad argomentare che « il profitto avuto
di mira dall'agente può consistere in una qualsiasi utilità [...] anche di natura non
patrimoniale » e, pur affermando di dissentire dall' « orientamento interpretativo
minoritario », ha trascurato di confutare - se non in termini puramente assertivi
- la necessità del requisito della derivazione immediata e diretta del profitto
dalla cosa mobile sottratta; l'altra sentenza, Sez. 4, n. 30 del 18/09/2012, dep.
2013, Caleca, Rv. 254372, offre soltanto un mero obiter dictum, peraltro
affatto immotivato, in quanto dopo aver qualificato non condivisibile Sez. 1,
Nutu, cit. - pur apprezzandone « lo sforzo di giungere a una interpretazione
mediana » - ha imperniato la ratio decidendi sulla osservazione - non
pertinente ai fini della questione controversa - che nel caso esaminato « gli
imputati s'impossessarono di beni [l'apparato di video registrazione installato
dalla polizia giudiziaria] dai quali era possibile trarre un significativo
controvalore, a prescindere dall'obiettivo di procurare l'interruzione delle
operazioni d'indagine [...] - al cui fine sarebbe bastata la mera manomissione -
ricavando il profitto diretto derivante dall'impossessamento delle
apparecchiature in parola, utilizzabili per la vendita o per diretto uso - non
importa se - lecito o illecito ».
La conclusione raggiunta è confortata dall'incontrovertibile tenore testuale
della norma penale che - per quanto qui rileva - è identico negli artt. 230,
primo comma, cod. pen. mil . pace e 624, primo comma, cod. pen. : « si
impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola [...] al fine di trarne profitto per
se o per altri » (e non genericamente: ... al fine di "trarre" profitto).
La particella pronominale enclitica « ne », apposta al verbo e - con costrutto
sintattico anaforico - riferita alla « cosa mobile altrui », esprime, appunto, in
modo icastico "il nesso di derivazione diretta e immediata" del profitto
(perseguito dall'agente) dal bene oggetto della condotta delittuosa e in tal senso
tipizza l'elemento psicologico del reato, escludendo, così, dal relativo ambito il
perseguimento di ogni generico - e differente - profitto che, invece, in modo
"indiretto" e "mediato", possa trarsi (si ribadisce: non dalla « cosa » sottratta, di
per sé stessa, bensì) dalla complessiva situazione che consegua al compimento
della azione nel particolare contesto nel quale è attuata.
3. Ebbene, dalla lettura della decisione impugnata, emerge come il giudice
abbia adeguatamente dato conto della tesi difensiva, finendo per riconoscerle la
valenza di ragionevole opzione ricostruttiva del fatto, ed ha espressamente
annotato come l'utilità non patrimoniale (l'apprezzamento da parte dei superiori
dello zelo e dell'impegno profuso nello svolgimento dei suoi compiti, come pure
la riaffermazione della sua insistita presa di posizione in ambito lavorativo sulla
custodia dei materiali riposti nell'hangar) costituisse un'utilità riflessa della
condotta di impossessamento, l'intenzione di ricavare un vantaggio dalla cosa
sottratta non apparendo difatti conciliabile con la condotta globalmente
apprezzata (l'aver spostato le biciclette da un posto all'altro della caserma per
circa un mese senza mai impossessarsene definitivamente e senza curarsi del
rischio che potessero essere fortuitamente ritrovate).
4. Pertanto, alla luce dell'opzione ricostruttiva cui il decidente ha di fatto
aderito, deve ritenersi insussistente o comunque non accertata nella condotta
dell'imputato la finalità di percepire un profitto immediato e diretto dai beni
asportati, tal che in difetto di prova dell'elemento soggettivo del delitto
contestato la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il
fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce
reato.
Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2017
Il Presidente
Avv. Antonino Sugamele

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