Appuntato dei Carabinieri diffama i superiori gerarchici su Facebook indicandoli come due bambini e psicopatici in divisa.
SENTENZA Sul ricorso proposto da: G.L. , nato il ...... Avverso la sentenza n. 90/2017 della Corte Militare di Appello di Roma in data 06/12/2017; Visti gli atti e il ricorso; Udita la relazione svolta dal Consigliere dott. Antonio Minchella; Udite le conclusioni del Procuratore Generale Militare, in persona del dott. Luigi Maria Flamini, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 23/11/2016 il Tribunale Militare di Napoli condannava G.L., appuntato scelto dei Carabinieri, alla pena di mesi due di reclusione militare per diffamazione aggravata e cioè per avere offeso la reputazione dei suoi superiori (nello specifico, il comandante della Compagnia ed il comandante del NORM) pubblicando sul suo profilo Facebook frasi che indicavano i predetti superiori come «due bambini» e come «psicopatici in divisa». Rilevava il Tribunale Militare che non difettava alcuna condizione di procedibilità poiché il reato contestato e ritenuto era aggravato ai sensi del comma 2 dell'art. 227 del codice penale militare di pace, in quanto vi era stato l'uso della pubblicità con il commento su di una bacheca di Facebook e ciò rendeva il reato procedibile d'ufficio; inoltre non poteva esservi dubbio sull'identificazione dell'utilizzatore dell'account utilizzato per la condotta, giacchè era stato registrato da una persona che aveva indicato quale nome e cognome quello di G.L. ed aveva dichiarato di lavorare nei Carabinieri: tuttavia l'imputato era appunto chiamato ordinariamente "Lucio" dai colleghi e nel profilo aveva palesato fotografie in cui era riconoscibile appunto l'imputato ed anche la moglie di questi; le frasi poi erano giudizi negativi gratuitamente offensivi, espressi con un linguaggio non rispettoso della continenza, le quali accusavano i superiori gerarchici (pacificamente riconoscibili) di essere deludenti, molesti e psicopatici, in un ambito di critiche feroci di cui chi scriveva era pienamente consapevole, tanto nel significato quanto nella diffusione di simili frasi su di un social network. 2. Interponeva appello l'imputato, contestando l'intempestività della richiesta di procedimento e la mancanza di prova della pubblicazione su Facebook, poiché non erano stati acquisiti gli screenshot delle immagini del social network; contestava poi la dichiarazione di responsabilità penale. 3. La Corte Militare di Appello con sentenza in data 06/12/2017 confermava la condanna di primo grado. Rilevava la Corte territoriale che, in ogni caso, la richiesta di procedimento era tempestiva poiché il termine doveva decorrere dal fatto sino al momento dell'esercizio della richiesta: così, poiché il fatto-reato risaliva alla data del dì 01/09/2014 e la richiesta di procedimento era contenuta in un atto del 30/09/2014, il mese rituale non era ancora decorso; parimenti, le persone offese erano chiaramente desumibili in via deduttiva e lo stesso imputato non aveva negato la paternità delle frasi offensive, sia pure sostenendo che erano dirette ad altri individui (che però, per età anagrafica, erano evidentemente diversi dai superiori gerarchici offesi); quanto alla mancanza degli screenshot, le testimonianze assunte erano state concordi e univoche sulle immagini apparse su Facebook, per cui vi era prova piena della diffamazione. Non si accoglieva la prospettazione di un diritto di critica, in quanto le offese erano state commesse in assenza di un fatto assunto ad oggetto di critica, ma erano generiche, e la motivazione che egli poi aveva offerto (il suo mancato trasferimento a Palermo) non era mai stato indicato nei messaggi. Il carattere tanto offensivo e la pubblicità data all'azione non consentivano di riconoscere la particolare tenuità del fatto. 4. Avverso detta sentenza propone ricorso l'interessato per mezzo del difensore Avv. Luigi Imperato. 4.1. Con il primo motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che la richiesta di procedimento era intempestiva poiché l'unico dato certo era che il fatto-reato risaliva al dì 01/09/2014, l'azione penale era stata esercitata dall'Arma con l'informativa del 04/09/2014 e che il deposito presso la Procura Militare e la trasmissione gerarchica erano avvenute il 06/09/2014, per cui la richiesta di punizione del 30/09/2014 era tardiva. 4.2. Con il secondo motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: afferma che l'individuazione delle persone offese era stata effettuata in modo apodittico ignorando che i diretti superiori del ricorrente erano due marescialli e non due ufficiali. 4.3. Con il terzo motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod.proc.pen., inosservanza di norme e manifesta illogicità della motivazione: lamenta che in mancanza degli screenshot le mere testimonianze non potevano contribuire alla concreta attribuibilità al ricorrente delle frasi offensive, visto che non era stato possibile rinvenire il codice identificativo dell'utente. 4.4. Con il quarto motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che al caso andava applicata la scriminante del diritto di critica, che, visto il contesto particolare ed il dispiacere del mancato trasferimento, aveva determinato una dialettica anche dura, ma non diffamatoria. 4.5. Con il quinto motivo deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: lamenta che, a fronte di una pena modesta e del riconoscimento di buone qualità di servizio, era stata negata la particolare tenuità del fatto solo per la potenzialità diffusiva, che era affermata e non provata e comunque diretta ad un numero ristretto di colleghi. 5. In udienza il P.G. Militare ha concluso come indicato in epigrafe. 3 Corte di Cassazione - copia non ufficiale
CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile poiché manifestamente infondato. Infatti, manifestamente infondate devono ritenersi le doglianze prospettate, in quanto sostanzialmente orientate a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte nel giudizio di merito, ed ivi ampiamente vagliate e correttamente disattese dal giudice, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, poiché imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica consequenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione. In relazione ai suindicati profili, dunque, il ricorso non è volto a rilevare mancanze argomentative , erronee applicazioni di norme o illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato sulla congruità di scelte valutative compiutamente giustificate dal giudice, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento del tema d'accusa. Si è di fronte ad una doppia condanna conforme e cioè a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che concordano nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che entrambe le pronunzie hanno offerto una congrua e ragionevole giustificazione del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti del ricorrente. Discende da tale evenienza, secondo una linea interpretativa in questa Sede da tempo tracciata, che l'esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369/2006, Rv. 235507). 2. Il primo motivo di doglianza lamenta un'asserita intempestività della richiesta di procedimento. In realtà, da un lato, è lo stesso riscorso ad rammentare che il fatto-reato risaliva al dì 01/09/2014, che l'azione penale era stata esercitata dall'Arma con l'informativa del 04/09/2014 e che il deposito presso la Procura Militare e la trasmissione 4 Corte di Cassazione - copia non ufficiale
gerarchica erano avvenute il 06/09/2014, per cui la richiesta di punizione del 30/09/2014 era rituale. D'altro lato, però, detta argomentazione si rivela irrilevante poiché già la sentenza di primo grado aveva precisato che il reato contestato e ritenuto era aggravato ai sensi del comma 2 dell'art. 227 del codice penale militare di pace, in quanto vi era stato l'uso della pubblicità con il commento su di una bacheca di Facebook, e ciò rendeva il reato procedibile d'ufficio: questa affermazione non è stata contestata dal ricorrente in appello, per cui il relativo motivo di doglianza non è accoglibile. Peraltro, si trattava di una conclusione corretta ed è appena il caso di rammentare che, ai sensi dell'art. 227, comma 2, del codice penale militare di pace, il reato di diffamazione è aggravato «se l'offesa è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità», come appunto avvenuto nel caso di specie (si ribadisce che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone: Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015, Rv. 264007); di conseguenza, l'entità della pena edittale massima prevista rendeva il reato stesso non più soggetto alla richiesta di procedimento. 3. Il secondo motivo di ricorso contesta l'individuazione delle persone offese: anche esso replica doglianze già esposte nel corso del processo di merito, ed ampiamente respinte dai giudici della cognizione. Si trattava di conclusioni corrette, poiché il giudice di appello, richiamando la prima sentenza, ha spiegato, con motivazione esente da vizi logici o giuridici, che il contesto in cui erano inserite le frasi offensive ed il tenore delle stesse non poteva far sorgere dubbi sulla identità dei "comandanti" cui faceva cenno il ricorrente: a quella qualifica egli aveva aggiunto espressioni che ne deridevano la giovane età e ciò consentiva di individuare i due ufficiali indicati in narrativa (poiché entrambi "comandanti" e l'uno avente circa ventiquattro anni di età e l'altro circa trenta anni di età) ed escludeva che persone offese potessero essere i due marescialli ora indicati nel ricorso (uno dei quali non in così giovane età al momento dei fatti e l'altro privo della qualifica di "comandante"). Parimenti, si rammenta che l'individuazione della persona offesa è deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell'offesa, quale si desume anche dal contesto in cui essa è inserita (Sez. 5, n. 24065 del 23/02/2016, Rv. 266861; Sez. 5, n. 2135 del 07/12/1999, Rv. 215476;) 4. Il terzo motivo di doglianza lamenta che in mancanza degli screenshot le mere testimonianze non potevano contribuire alla concreta attribuibilità al ricorrente delle frasi offensive, visto che non era stato possibile rinvenire il codice identificativo dell'utente.
E' una argomentazione che non si può accogliere: la sentenza impugnata evidenzia che, nel corso del dibattimento, erano state acquisite dichiarazioni testimoniali concordi ed univoche sulle immagini visibili sia su computer che su telefono cellulare consultando il citato profilo pubblico di Facebook; venivano riportate dette dichiarazioni e indicati i testimoni che avevano visto e letto le frasi offensive. Correttamente, pertanto, la Corte territoriale aveva concluso circa l'irrilevanza della mancata utilizzabilità degli screenshots, poiché le numerose testimonianze avevano fatto raggiungere l'evidenza della diffamazione: infatti, l'oggetto della testimonianza può essere una comunicazione o una dichiarazione di contenuto narrativo, e le comunicazioni rilevanti possono essere non soltanto verbali, ma altresì espresse in forma scritta o con qualsiasi altro mezzo. Quanto, infine, alla incertezza sull'utente, le indicazioni ricavabili dalle due sentenze di primo e secondo grado, hanno correttamente eliminato le incertezze, facendo riferimento al nome con il quale il ricorrente era noto ai colleghi ed alle fotografie nell'account che lo ritraevano in divisa, in una autovettura di servizio nonché insieme alla moglie. 5. Il quarto motivo di ricorso censura la mancata applicazione della scriminante del diritto di critica, la quale, in ragione del contesto particolare e del dispiacere del mancato trasferimento, aveva determinato una dialettica anche dura, ma non diffamatoria. La doglianza è manifestamente infondata: la Corte territoriale sottolinea che nelle dichiarazioni del ricorrente non vi era mai stata una indicazione precisa dei fatti oggetto dell'asserita mera critica e nel testo contestato non vi era alcun cenno al mancato trasferimento in altra sede di servizio. Al contrario, nel post vi erano soltanto frasi offensive, che indicavano i suoi comandanti come «bambini» e come «psicopatici in divisa»: la caratura offensiva delle espressioni era ritenuta di piena evidenza e va rammentato che, in tema di diffamazione, la sussistenza dell'esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto di critica, a condizione che l'offesa non si traduca in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo ma sia "contenuta" (requisito della "continenza") nell'ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto. La linea argomentativa così sviluppata risulta immune da qualsiasi caduta di conseguenzialità logica, evidenziabile dal testo del provvedimento, mentre il tentativo del ricorrente di prospettare - in relazione ai collegamenti tra la frase incriminata ed il presunto motivo del risentimento, non espresso nel testo contestato - una diversa ricostruzione del fatto si risolve nella prospettazione di una lettura soggettivamente orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito, nel tentativo di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi. 6. L'ultimo motivo di doglianza concerne il tema del diniego della particolare tenuità del fatto soltanto per la potenzialità diffusiva delle offese, che era affermata e non provata e comunque diretta ad un numero ristretto di colleghi, ad onta della pena particolarmente mite inflitta. In realtà, il fatto che sia stata inflitta una pena non elevata non è indice della considerata particolare tenuità del fatto da parte dei giudici del merito, atteso che questa scelta punitiva non è necessariamente sintomo di una siffatta valutazione, bensì solo della non ritenuta particolare gravità del medesimo. Non di meno, nel giudicare lo spessore della condotta, entrambe le sentenze ne hanno sottolineato l'insidiosità, giungendo ad esprimere nel complesso un giudizio sulla consistenza dell'offesa tutt'altro che compatibile con i presupposti necessari per l'applicazione dell'istituto della particolare tenuità del fatto. 7. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. sentenza n. 186 del 2000), al versamento di una somma alla cassa delle ammende, determinabile in 3.000,00 euro, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro Tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 18 dicembre 2018.
15-03-2019 22:01
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