Due militari dell'Arma, Tenenza Carabinieri di Cattolica, comandati in servizio di perlustrazione, interrompono il servizio recandosi presso un chiosco di piadine e poi presso un centro commerciale, intrattenendosi a conversare con tre donne, successivamente facendo salire a bordo dell'autovettura di servizio una della tre donne, inscenando un finto arresto e invitando le altre due a seguirle, azionando i dispositivi di emergenza, rientrando in caserma senza autorizzazione e facendo visitare i locali alle tre donne e con loro intrattenendosi senza autorizzazione per ragioni personali.
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 13-10-2020) 15-12-2020, n. 35842
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI TOMASSI Mariastefania - Presidente -
Dott. BIANCHI Michele - Consigliere -
Dott. MANCUSO Luigi F. A. - Consigliere -
Dott. ROCCHI Giacomo - rel. Consigliere -
Dott. MAGI Raffaello - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
A.G., nato a (OMISSIS);
I.L.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/06/2019 della CORTE MILITARE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dàl Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;
udito il Pubblico Ministero che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
Preliminarmente si dà atto che le difese depositano in udienza note difensive in cui si sintetizza l'oggetto della discussione e con il consenso del Procuratore Generale Militare che ha già avuto tempestivamente copia;
L'avvocato ROSA MICHELE, del foro di VERONA in difesa di I.L.A. conclude chiedendo l'accoglimento del ricorso e delle note d'udienza e in subordine la declaratoria per la prescrizione del reato ovvero il rinvio in attesa alle Sezioni Unite Penali;
L'avvocato CEOLETTA GIANFRANCO, del foro di VERONA in difesa di A.G. conclude chiedendo l'accoglimento dei motivi di ricorso e delle note d'udienza.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte Militare d'appello, in parziale riforma di quella del Tribunale militare di Verona emessa nei confronti di A.G. e I.L.A., riduceva la pena nei confronti di entrambi gli imputati a mesi quattro di reclusione militare, per I. previa concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti contestate; confermava nel resto la sentenza impugnata.
I. e A. sono stati condannati per il reato di concorso in violata consegna aggravata da parte di militare di guardia o di servizio, ai sensi dell'art. 110 c.p., art. 120 c.p.m.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2 e art. 58 c.p.m.p., n. 1.
Secondo l'imputazione i due militari, in servizio presso la Tenenza Carabinieri di Cattolica, comandati in servizio di perlustrazione con turno dalle ore 19'00 alle ore l'00, avevano interrotto il servizio recandosi presso un chiosco di piadine e poi presso un centro commerciale, intrattenendosi a conversare con tre donne, successivamente facendo salire a bordo dell'autovettura di servizio una della tre donne, inscenando un finto arresto e invitando le altre due a seguirle, azionando i dispositivi di emergenza, rientrando in caserma senza autorizzazione e facendo visitare i locali alle tre donne e con loro intrattenendosi senza autorizzazione per ragioni personali. Vengono contestate le aggravanti del servizio armato, del fatto che i due militari erano rivestiti di un grado e, per A., del concorso nel reato con l'inferiore.
Nel corso dell'istruttoria dibattimentale le tre donne coinvolte avevano deposto come testimoni. Per due di esse il Tribunale Militare aveva rigettato la richiesta della difesa di interruzione dell'esame ai sensi dell'art. 63 c.p.p. in relazione a dichiarazioni autoindizianti rese. Le tre testimoni avevano confermato i fatti così come contestati. Era emerso che una delle tre aveva raccontato quanto avvenuto ad un appuntato dei Carabinieri, che aveva registrato il colloquio e aveva consegnato la registrazione al suo comandante. L'ingresso anomalo in caserma era stato confermato anche dal piantone della caserma, al quale i due imputati avevano rivelato che stavano facendo uno scherzo.
Il Tribunale aveva rigettato l'eccezione di nullità del capo di imputazione per genericità con riferimento alla data del reato contestato, osservando che erano stati indicati in via alternativa tre giorni in cui il fatto era accaduto (si trattava dei tre giorni in cui i due imputati avevano prestato servizio insieme in quel periodo).
I due imputati, nelle spontanee dichiarazioni, avevano confermato l'ingresso delle tre donne nella caserma e di una di esse nell'autovettura di servizio.
Il Tribunale aveva concluso nel senso che, per oltre un'ora, i due imputati, passeggiando, chiacchierando e scherzando con le tre donne non avevano pensato in alcun modo alle incombenze determinate dal servizio di pattuglia, compromettendo le finalità del controllo del territorio e interrompendo di fatto il servizio.
Provvedendo sull'appello proposto dalla difesa degli imputati, la Corte territoriale rigettava il motivo di appello con cui si eccepiva la genericità del capo di imputazione con riguardo alla data del commesso reato. Secondo la Corte, l'indicazione delle tre date in via alternativa è compatibile con un'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto contestato. Il Pubblico Ministero avrebbe potuto indicare più genericamente l'epoca del fatto, ma aveva cercato di essere più preciso, estrapolando i giorni in cui i due militari erano comandati di perlustrazione insieme. In ogni caso, non era stato compromesso il diritto di difesa e gli imputati, nel corso delle spontanee dichiarazioni, avevano mostrato di avere ben presente il fatto oggetto di contestazione. Di conseguenza, l'ulteriore acquisizione documentale chiesta dalla difesa - quella di un fascicolo che avrebbe potuto permettere l'individuazione della data precisa della commissione del delitto contestato - non appariva decisiva, nè era utile, in quanto l'ingresso e il trattenimento delle tre donne nella caserma non avevano niente a che fare con il servizio e, quindi, non potevano avere lasciato traccia scritta nelle annotazioni di servizio.
La Corte riteneva utilizzabili le dichiarazioni testimoniali: le stesse non contenevano indizi di reità a carico delle testimoni, come richiesto dall'art. 63 c.p.p.: venendo in rilievo un reato militare quale la violata consegna, non era possibile ipotizzare una responsabilità in capo a soggetti estranei alle Forze Armate, che non potevano e non dovevano essere a conoscenza delle consegne ricevute dai due Carabinieri. Non era ipotizzabile nemmeno un concorso morale sotto forma di istigazione, poichè l'idea di inscenare un finto arresto per fare entrare in caserma le tre testimoni apparteneva ai due militari.
Veniva respinta la censura mossa verso l'ordinanza del Tribunale di rigetto della richiesta di sentire nuovamente la teste D.C. che, dopo la sua escussione, aveva fatto pervenire un dichiarazione scritta in cui dichiarava che di essersi ricordata che la De.Ch. (un'altra delle testimoni), in quell'occasione, aveva chiesto ai due imputati di conferire con le problematiche relative ai rapporti con il marito. Secondo la Corte, si trattava di circostanza non credibile, cui non aveva fatto riferimento nemmeno la diretta interessata; ella, piuttosto, per timore di incontrare il marito, aveva rifiutato la proposta di recarsi in un esercizio pubblico e per questo motivo i due militari avevano proposto alle tre donne di venire con loro in caserma per continuare a stare insieme. Ivi, secondo quanto riferito dalla De.Ch., lo I. le aveva proposto di avere un rapporto sessuale ma ella aveva opposto un rifiuto.
In definitiva, secondo la Corte, era evidente che la vicenda si era consumata per ragioni di tipo personale dei due militari, non per ragioni di servizio.
Quanto al merito dell'imputazione, la Corte riteneva raggiunta la prova degli elementi materiale e psicologico del reato contestato. Veniva ricostruito lo svolgimento dei fatti e sottolineata l'atmosfera rilassata e allegra che aveva contraddistinto quell'ora in compagnia, così come riferita dalle tre testimoni: la simulazione del finto arresto o di una falsa rissa tra donne (che doveva permettere l'ingresso in caserma di tutte e tre) nonchè il giro illustrativo dei locali della caserma; i rapporti erano amichevoli e confidenziali.
In definitiva, i due carabinieri, lungi dall'occuparsi delle questioni legate al loro turno di pattuglia, erano rimasti in compagnia delle tre amiche.
Veniva accolto il motivo di appello con cui si chiedeva una riduzione della pena, ma respinta la richiesta di disapplicazione dell'aggravante di cui all'art. 47 c.p.m.p., n. 2 applicabile ai militari rivestiti di un grado. La difesa aveva sottolineato che gli appartenenti all'Arma dei Carabinieri entrano con il titolo di Carabiniere semplice, corrispondente a quello di Caporale dell'Esercito: di conseguenza non può esistere un Carabiniere privo di un grado; la Corte osservava che l'art. 624 Codice dell'Ordinamento Militare stabilisce che le definizioni e classificazione del personale militare contenute nelle leggi penali militari restano ferme, per cui l'aggravante doveva essere applicata.
Veniva, infine, respinta la richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p.: la condotta criminosa non poteva essere ritenuta di particolare tenuità, in considerazione della futilità dei motivi che aveva ispirato il comportamento degli imputati e del pericolo che era derivato dall'interruzione del servizio per una durata apprezzabile di tempo.
2. Ricorre per cassazione il difensore di A.G., deducendo, in un primo motivo, violazione degli artt. 417 e 521 c.p.p. per indeterminatezza e genericità del capo di imputazione in ordine al tempus commissi delicti.
La contestazione delle tre date in forma alternativa era finalizzata a far sì che il dibattimento portasse ad una definizione più precisa dell'accusa, ma ciò non era avvenuto. La mancata individuazione del giorno in cui erano avvenuti i fatti aveva comportato un grave vulnus al diritto di difesa degli imputati, che non avevano potuto provare di non aver commesso il fato contestato. Il difensore evidenzia l'incertezza sull'epoca dei fatti e addirittura sull'anno in cui si erano verificati e rimarca che, se i fatti potevano essere accaduti nel (OMISSIS), non era stata scrutinata la possibilità che i due imputati avessero annotato nel foglio di servizio quanto avvenuto in quell'occasione.
In un secondo motivo si deduce inutilizzabilità delle dichiarazioni delle testimoni M., De.Ch. e D.C.. Le tre donne, fin dall'inizio degli accertamenti, avevano assunto la posizione di concorrenti nel reato, con la conseguenza che i giudici di merito non avrebbero potuto utilizzare le loro dichiarazioni, nemmeno per effettuare le contestazioni in dibattimento. In particolare, avevano commesso il delitto di simulazione di reato. Non a caso, il Tribunale aveva espressamente ammesso che gli elementi materiali del reato sussistevano, ma aveva utilizzato le dichiarazioni testimoniali sull'assunto della mancanza di dolo.
Il ricorrente ricorda che l'art. 14 c.p.m.p. dichiara soggette alla legge penale militare le persone estranee alle forze armate che concorrono a commettere un reato militare e prevede espressamente la punizione del civile per il delitto di forzata consegna (art. 140 c.p.m.p.), che era quello originariamente contestato. Le donne avevano riferito di avere simulato un finto arresto e una finta rissa.
In un terzo motivo il ricorrente denuncia l'illegittimità dell'ordinanza della Corte Militare d'appello di rigetto dell'istanza di rinnovazione della testimonianza di D.C.A. nonchè di quella del Tribunale di rigetto della richiesta della testimone di essere nuovamente sentita per ritrattare quanto già dichiarato. Secondo il ricorrente, la norma di riferimento è l'art. 376 c.p.: laddove un testimone intenda ritrattare, il Giudice ha il dovere di consentirlo, perchè la legge privilegia l'accertamento della verità.
In un quarto motivo il ricorrente deduce l'illegittimità dell'ordinanza della Corte Militare d'appello di rigetto dell'istanza della difesa di ordinare alla Tenenza dei Carabinieri di Cattolica di produrre il fascicolo P della signora De.Ch.. Il fascicolo avrebbe consentito di confermare quanto dichiarato dagli imputati e dalle testimoni. Viene denunciata la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) con riferimento al rigetto di entrambe le istanze probatorie. La motivazione del rigetto, sia da parte del Tribunale che da parte della Corte d'appello era carente.
In un quinto motivo si deduce mancanza di motivazione sullo specifico motivo di appello che censurava la mancata specificazione, nella sentenza di primo grado, delle norme violate per aver fatto salire sull'autovettura di servizio la sig.ra De.Ch.. In effetti, poichè la violata consegna configura una norma penale in bianco, occorre l'indicazione della norma regolamentare violata, che era mancata da parte del Tribunale.
In un sesto motivo si deduce omessa motivazione sullo specifico motivo di appello, con cui la difesa aveva evidenziato la contraddittorietà della sentenza di primo grado nel condannare l'imputato per il delitto sub A e nell'assolverlo per il delitto sub B, nonostante la sovrapposizione parziale delle due condotte.
In un settimo motivo si deduce difetto sostanziale di motivazione della sentenza impugnata che richiama integralmente quella di primo grado.
In un ottavo motivo si deduce violazione dell'art. 131 bis c.p. Il riferimento ai futili motivi che avevano spinto i due imputati era incongruo, essendo impossibile pensare che una violata consegna non sia sorretta anche da futili motivi; la Corte, inoltre, non aveva tenuto conto della breve durata temporale della permanenza in caserma.
In un nono motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla determinazione della pena.
3. Ricorre per cassazione anche il difensore di I.L., che deduce analoghi motivi.
4. I due difensori, in sede di discussione orale, hanno depositato note di udienza.
Motivi della decisione
I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili per manifesta infondatezza dei motivi. I ricorrenti ripropongono le censure già svolte nei due gradi di merito, alle quali la Corte Militare di appello ha fornito adeguata e logica risposta, coerente con il quadro normativo, senza incorrere in alcuna violazione di legge.
1. I ricorrenti ripropongono l'eccezione di nullità del capo di imputazione per genericità con riferimento alla data di consumazione del reato, sostenendo che la possibilità di una contestazione alternativa da parte del Pubblico Ministero sarebbe giustificata dall'obiettivo di raggiungere una definizione precisa dei confini fattuali dell'accusa in sede dibattimentale: obiettivo non raggiunto nel caso di specie, non risultando con certezza accertato in quale giorno i fatti contestati agli imputati sarebbero avvenuti. Si tratta di prospettazione manifestamente errata: la giurisprudenza di legittimità individua la ratio del requisito della contestazione "in forma chiara e precisa" del fatto (art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c)) nella garanzia del diritto di difesa dell'imputato, che deve potersi svolgere pienamente, cosicchè non sussiste alcuna incertezza sull'imputazione quando il fatto sia contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa, non essendo necessaria una indicazione assolutamente dettagliata dell'imputazione stessa (Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014 - dep. 04/09/2015, B e altri, Rv. 264877; Sez. F, n. 43481 del 07/08/2012 - dep. 09/11/2012, Ecelestino e altri, Rv. 253582); la contestazione, inoltre, non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l'imputato in condizione di conoscere in modo ampio l'addebito (Sez. 5, n. 51248 del 05/11/2014 - dep. 10/12/2014, Cutrera, Rv. 261741).
Entrambe le sentenze di merito argomentano ampiamente sul fatto che, nel presente processo, il diritto di difesa degli imputati era stato pienamente garantito, poichè il fatto storico - nonostante l'incertezza sul giorno preciso in cui si era svolto - era stato adeguatamente descritto e, soprattutto, pienamente compreso dagli imputati stessi. Correttamente viene posto l'accento sulle spontanee dichiarazioni rese dagli imputati, che avevano dimostrato di ricordare perfettamente l'episodio (come lo ricordavano le tre donne coinvolte e il piantone di servizio alla caserma dei carabinieri) e che, quindi, avevano la possibilità di concordare qualunque azione difensiva.
I ricorsi tacciono del tutto su tale motivazione, limitandosi ad insistere sul dato del mancato raggiungimento della certezza in ordine alla data esatta, elemento, come si è visto, niente affatto decisivo in presenza di una descrizione chiara e precisa del fatto e di un'istruttoria dibattimentale che lo aveva adeguatamente analizzato.
Pochi cenni merita l'osservazione secondo cui la mancata individuazione della data esatta del fatto non avrebbe permesso di "scrutinare la possibilità che, in corrispondenza del servizio automontato di perlustrazione dei due prevenuti per il turno dalle ore 19'00 alle 1'00, gli stessi non avrebbero potuto annotare nel foglio di servizio quanto poi invece contestato loro sotto forma di reato".
Tale considerazione non tiene conto di due fattori: il primo è la constatazione che i due imputati non avevano mai riferito di avere annotato l'ingresso in caserma delle tre donne nelle relazioni di servizio, cosicchè l'ipotesi formulata nel motivo risulta del tutto teorica e non trova alcun aggancio nei dati processuali; il secondo è che - come correttamente osservato nella sentenza impugnata - gli imputati avevano la possibilità di chiedere ed ottenere copia degli atti da loro redatti al fine di dimostrare che il fatto era stato annotato: la mancanza di tale attività difensiva conferma la convinzione dei giudici di merito che nessun atto, in realtà, era stato redatto.
2. Il secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto la dedotta inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali di M.A., De.Ch.Fr. e D.C.A., è manifestamente infondato.
In primo luogo, si deve rilevare che, mentre davanti ai giudici di merito i ricorrenti avevano sollevato la questione ai sensi dell'art. 63 c.p.p., comma 1, chiedendo al Tribunale di sospendere l'escussione dibattimentale delle tre testimoni in quanto le stesse avevano reso dichiarazioni autoindizianti, con il ricorso per cassazione viene proposta, in aggiunta, la questione di inutilizzabilità ai sensi del comma 2 della norma, sostenendosi che le tre donne, fin dalle sommarie informazioni testimoniali, avevano assunto la veste di indagate.
Oltre ad essere nuovo, non dedotto con i motivi di appello, il motivo è anche privo di autosufficienza, non essendo prodotti i verbali di sommarie informazioni testimoniali e i verbali delle deposizioni testimoniali di Ar. e S., pure evocati a sostegno dell'eccezione. L'inammissibilità del motivo sotto questo diverso profilo si riverbera sul complesso dell'argomentazione, in quanto i ricorrenti censurano l'utilizzazione da parte del Pubblico Ministero, in sede dibattimentale, delle sommarie informazioni rese dalle tre donne ai fini delle contestazioni, argomento del tutto nuovo.
Nel merito, la motivazione della sentenza impugnata appare del tutto logica e coerente con i principi generali e resiste facilmente alle censure svolte dai ricorrenti.
La previsione dell'art. 14 c.p.m.p. secondo cui "sono soggette alla legge penale militare le persone estranee alle forze armate dello Stato, che concorrono a commettere un reato militare", non è affatto risolutiva perchè non specifica quando e a quali condizioni le persone estranee possono concorrere nel reato militare; quindi, da tale norma (così come dal comma 2, che contempla espressamente la possibilità di concorso di persone estranee nel reato di forzata consegna, inizialmente contestato agli imputati) si evince soltanto che gli estranei alle forze armate possono concorrere nel reato militare e nulla più; certamente non si può ricavare - come sostengono i ricorrenti - che è sufficiente la conoscenza dello status di militare da parte degli estranei per ritenere sussistente il concorso nel reato proprio.
La motivazione della sentenza di appello è del tutto convincente nel sottolineare che le tre donne non dovevano nè potevano conoscere le consegne date ai due Carabinieri, anche perchè erano stati questi ultimi a prendere l'iniziativa, prima invitandole a prendere un caffè in un bar e poi ad elaborare il piano per farle entrare in caserma pur in mancanza di qualsiasi necessità di servizio.
Quanto, poi, alla presunta responsabilità delle tre testimoni nel delitto di simulazione di reato - ipotesi mai contestata alle stesse nè, sotto forma di istigazione, ai due imputati - i ricorsi sono del tutto generici nell'indicare sotto quale forma tale condotta illecita si sarebbe svolta: da quanto si coglie dalle due sentenze di merito, la De.Ch. si limitò a salire sull'autovettura di servizio (furono i due militari a compiere gesti che avrebbero potuto far pensare ad un arresto e, poi, ad accendere il dispositivo luminoso), mentre non risulta nemmeno dal ricorso che la D.C. e la M., davanti al piantone, avessero finto di inscenare una rissa tra loro. In ogni caso, è evidente che non sussisteva alcun pericolo dell'inizio di un procedimento penale.
3. Non sussiste palesemente la violazione di legge denunciata con il terzo motivo di ricorso con riferimento alla mancata nuova escussione della teste D.C..
In primo luogo, si deve rimarcare che i ricorrenti, censurando la decisione del Tribunale di non sentire nuovamente la testimone e quella della Corte di non provvedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per la sua escussione, non evidenziano le conseguenze di tali decisioni.
Ebbene, dovendosi escludere che la mancata nuova escussione della testimone comporti la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese precedentemente conseguenza non prevista da alcuna norma - è evidente che la Corte Militare doveva valutare la richiesta di rinnovazione sotto il profilo della impossibilità di decidere allo stato degli atti e della assoluta necessità di procedere all'atto ai fini della decisione: valutazione che la Corte ha effettuato sia in sede di ordinanza che di motivazione della sentenza, alla luce del quadro probatorio formatosi.
La motivazione è del tutto logica: nemmeno la diretta interessata (la Di.Ch.) aveva riferito di avere chiesto di accedere in caserma per riferire delle questioni legate alla separazione con il marito e anche le restanti testimonianze indicavano il contrario (si pensi al piantone, cui fu riferito che l'ingresso delle tre donne era legato ad uno scherzo), così come lo indicava la mancanza di qualsiasi annotazione di servizio da parte degli imputati.
In ogni caso, il richiamo da parte del ricorrente all'art. 376 c.p. è del tutto fuori luogo: da una parte, la mancata punizione della condotta di falsa testimonianza avrebbe costituito, al più, un obiettivo della testimone e non degli imputati; dall'altra, risulta evidente che la lettera scritta dalla D.C. al fine di essere nuovamente assunta in dibattimento non aveva niente a che fare con una pregressa falsa testimonianza, poichè ella riferiva di essersi ricordata di una circostanza prima dimenticata e, quindi, non riferita al Tribunale.
4. Il quarto motivo di ricorso, ancora, è manifestamente infondato.
In primo luogo, la richiesta istruttoria di acquisire il fascicolo P intestato alla De.Ch. era chiaramente esplorativa, nessuno conoscendo il suo contenuto; la richiesta era infatti così motivata: "tale prova avrebbe potuto consentire una verifica sui vari ingressi in caserma della teste e l'accesso ad altre informazioni utili ad individuare la data precisa della commissione del delitto contestato"; ma gli ingressi precedenti o successivi della Di.Ch. in caserma non erano affatto rilevanti, mentre - come già si è affermato - l'individuazione della data esatta dell'unico ingresso rilevante non costituiva un requisito ineliminabile.
Si deve sottolineare, comunque, che non si verte nemmeno astrattamente nella violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), evocata dai ricorrenti, atteso che l'acquisizione del fascicolo P non costituiva una prova a discarico sui fatti oggetto delle prove a carico indicate dal pubblico ministero.
Per concludere sul tema della asserita (ma negata dai giudici di merito) richiesta della Di.Ch. di voler riferire dei suoi problemi legati alla separazione con il marito, occorre rimarcare che tale circostanza non è affatto decisiva per, ritenere sussistente il delitto di violata consegna contestata agli imputati: non solo perchè - come ampiamente descritto nel corso dell'istruttoria dibattimentale - in quell'ora e mezzo molte delle attività e delle condotte delle cinque persone coinvolte non ebbero niente a che fare con quanto la donna voleva riferire circa i suoi problemi, ma soprattutto perchè la consegna ai due militari era di procedere a perlustrazione armata del territorio, attività cui la raccolta delle dichiarazioni di questo tipo era del tutto estranea.
Nell'ambito di tale attività, i carabinieri avrebbero potuto rientrare in caserma se avessero arrestato in flagranza qualcuno o per motivi simili (non a caso, simulati con il piantone); non certo per raccogliere, in piena notte, le sommarie informazioni testimoniali di una persona rispetto alla quale non emergeva alcuna urgenza. Se davvero la Di.Ch. si fosse rivolta ai Carabinieri riferendo di volere denunciare il marito o segnalare qualche evento, gli stessi, comandati di perlustrazione del territorio, avrebbero dovuto indirizzarla alla Caserma, magari segnalando gli orari di apertura e di ricezione delle denunce o comunque di ricevimento.
5. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile in quanto verte su circostanza del tutto irrilevante per la decisione.
Come già detto, la condotta di violata consegna era stata adeguatamente descritta nel capo di imputazione: la responsabilità per il delitto contestato discende dalla circostanza che tutte le condotte poste in essere erano state commesse in violazione dell'obbligo di perlustrazione armata del territorio oggetto della consegna.
Tra queste condotte vi era anche il trasporto sull'autovettura di servizio della Di.Ch.: ma la condotta non è contestata autonomamente, ma come parte di un'azione che, globalmente, violava la consegna.
6. Il sesto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
L'assoluzione per il delitto di cui al capo 13 non è affatto contraddittoria con la condanna per il delitto sub A. Ancora una volta, si deve ribadire che il capo di imputazione e l'istruttoria dibattimentale avevano evidenziato una serie di condotte, protrattesi per circa un'ora e mezzo, tutte poste in essere in violazione della consegna della perlustrazione armata del territorio; tra esse, quella di avere fatto entrare in caserma le tre donne senza alcuna motivazione se non di carattere privato.
Il fatto che, in conseguenza di quell'ingresso, fosse stato ipotizzata una ulteriore violazione (gli imputati avrebbero indotto il collega L., in servizio di piantone, a non identificare le persone che entravano e a non annotarle nel Registro degli ingressi) costituiva una specificazione che non mutava la sostanza della contestazione sub A: quell'ingresso era immotivato se non per ragioni estranee al servizio.
Quindi, l'assoluzione da questa specifica contestazione non incide in alcun modo sulla congruità della condanna per il delitto di violata consegna.
7. Il settimo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Dopo un'ampia esposizione della motivazione della sentenza di primo grado e dei motivi di appello, la sentenza in questa sede impugnata affronta autonomamente ogni questione posta, dovendosi escludere recisamente che la natura della motivazione sia apparente.
Il fatto che le soluzioni adottate coincidano con quelle del Giudice di primo grado, ovviamente, non integra un vizio.
8. La motivazione in ordine al rigetto del motivo di appello che invocava l'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p. è ampia e logica: da una parte, non ogni violazione della consegna è determinata da motivi futili, cosicchè correttamente i giudici di merito hanno tenuto conto della natura dei motivi che avevano indotto gli imputati alla condotta; dall'altra, risulta evidente la sollecitazione da parte dei ricorrenti perchè questa Corte sovrapponga la propria valutazione di merito a quella già adottata.
9. Infine, anche l'ultimo motivo risulta manifestamente infondato.
La motivazione della sentenza in punto di determinazione della pena è del tutto logica e coerente con il dato normativo e con la valutazione della gravità della condotta adeguatamente motivata.
10. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè di una somma in favore della Cassa delle Ammende, emergendo profili di colpa nella presentazione del ricorso.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2020
30-12-2020 23:41
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