Militare dell'Esercito Italiano condannato per illecita detenzione e cessione di sostanza stupefacente di tipo cocaina.
Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-02-2020) 29-05-2020, n. 16474
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACETO Aldo - Presidente -
Dott. GENTILI Andrea - Consigliere -
Dott. SCARCELLA Alessio - rel. Consigliere -
Dott. REYNAUD Gianni Filippo - Consigliere -
Dott. MENGONI Enrico - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) A.F., nato a (OMISSIS);
2) M.F., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 18/04/2019 della Corte di appello di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Reynaud Gianni Filippo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale SPINACI Sante, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi; udito il difensore del ricorrente A.F., avv. Luciana Francioso in sostituzione dell'avv. Nicola Martino, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 18 aprile 2019, la Corte d'appello di Bologna, rideterminando la pena in applicazione della sentenza Corte Cost. n. 40/2019, ha nel resto confermato la decisione con cui, all'esito del giudizio abbreviato, gli odierni ricorrenti erano stati ritenuti responsabili dei reati in materia di illecita detenzione e cessione di sostanza stupefacente di tipo cocaina loro rispettivamente ascritti.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati.
3. Con il primo motivo del ricorso proposto da M.F. si deduce violazione dell'art. 63 c.p.p., per essere state utilizzate le dichiarazioni dal medesimo rese in sede di perquisizione circa la riferibilità delle chiavi rinvenute ad un appartamento di Brindisi, piuttosto che all'appartamento in cui fu poi trovata la sostanza stupefacente. Se ne deduce l'inutilizzabilità trattandosi di dichiarazioni sollecitate dagli operanti e quindi non qualificabili come spontaneamente rese.
3.1. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell'art. 64 c.p.p., comma 3, lett. c) e la conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni rese a s.i.t. da B.P., sul rilievo che il medesimo doveva essere sin dall'inizio escusso come indagato, posto che nulla autorizzava gli inquirenti a ritenere che l'acquisto di stupefacente che lo stesso era sospettato di essere in procinto di compiere sarebbe stato destinato ad uso personale. Le sue dichiarazioni erano pertanto inutilizzabili nei confronti dell'imputato.
3.2. Con il terzo motivo si lamenta l'errata qualificazione giuridica del reato di cui al capo b), perchè, dovendosi ritenere insussistenti gli altri due addebiti in forza dei motivi di cui sopra, a carico dell'imputato residuerebbe soltanto l'illecita detenzione di 3,6 gr. di cocaina, da inquadrarsi nel fatto di lieve entità di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup. 3.3. Con l'ultimo motivo di ricorso si lamenta la violazione del divieto di reformatio in pejus sul rilievo che, rideterminando la pena detentiva base per il più grave reato di cui al capo a) - in applicazione della sent. Corte Cost. n. 49/2019 - in anni sette di reclusione rispetto ad un minimo edittale di anni sei, laddove il primo giudice l'aveva determinata in anni otto e mesi sei di reclusione a fronte di un minimo edittale di anni otto, ci si era illegittimamente discostasti dal minimo in termini superiori rispetto a quelli fissati in primo grado.
4. Con l'unico motivo del ricorso proposto da A.F. si lamentano violazione dell'art. 2 c.p. e art. 597 c.p.p., comma 3, nonchè mancanza della motivazione, per essere stata rideterminata la pena detentiva per il più grave reato di cui al capo a), negli stessi termini del coimputato, quali più sopra precisati, in violazione del divieto di reformatio in pejus senza specifica motivazione per essere stata la pena determinata, in proporzione, in termini più elevati rispetto al nuovo minimo edittale, non essendo al proposito sufficiente il mero riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p..
Motivi della decisione
1. Muovendo dal ricorso proposto da M.F., reputa il Collegio che il primo motivo sia inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, nel giudizio abbreviato sono utilizzabili a fini di prova le dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta alle indagini, perchè l'art. 350 c.p.p., comma 7, ne limita l'inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento (Sez. 5, n. 13917 del 16/02/2017, Pernicola, Rv. 269598) e dette dichiarazioni sono utilizzabili anche se inserite in un verbale di perquisizione o sequestro e non in un altro autonomo verbale (Sez. 6, n. 8675 del 26/10/2011, dep. 2012, Labonia, Rv. 252279; nello stesso senso, Sez. 4, n. 6962 del 14/11/2012, dep. 2013, Memoli, Rv. 254396). Vero è che l'utilizzabilità presuppone trattarsi di dichiarazioni che l'indagato ha scelto di rendere liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione (Sez. 3, n. 20466 del 03/04/2019, S., Rv. 275752; Sez. 5, n. 18048 del 01/02/2018, S., Rv. 273745; Sez. 2, n. 26246 del 03/04/2017, Distefano, Rv. 271148). Nel caso di specie, tuttavia, nulla porta a ritenere che non si tratti di dichiarazioni spontanee.
Ed invero, va innanzitutto rimarcato che, a quanto risulta dalla sentenza impugnata, la doglianza non era stata proposta con il gravame di merito, sicchè il ricorrente non ha sollecitato alcun accertamento in fatto sul punto. Dal contenuto dell'unico atto che viene sottoposto all'attenzione di questa Corte, quale trascritto in ricorso - vale a dire il verbale di perquisizione - non risulta che la dichiarazione resa dal M. circa il fatto che le chiavi rinvenute si riferissero ad un appartamento di Brindisi sia stata sollecitata dagli operanti e non sia stata spontaneamente resa. La doglianza proposta in ricorso, dunque, è generica e manifestamente infondata.
2. Lo stesso vale per il secondo motivo di ricorso, riproduttivo di doglianza avanzata con il gravame e correttamente e logicamente disattesa dalla sentenza impugnata.
B.P. - che non fu trovato in possesso di stupefacenti e non poteva dunque essere in alcun modo indiziato di un qualche reato in materia - fu correttamente escusso a s.i.t., a quanto si ricava dalla sentenza impugnata, per chiarire le ragioni per le quali si era recato presso l'abitazione dell' A., dov'era in quel momento in corso una perquisizione. Avendo egli spontaneamente ammesso di essere un consumatore di stupefacenti e di essersi recato lì per acquistare cocaina per uso personale, come in passato più volte aveva fatto, da M. come da A., non v'era ragione di ritenere inattendibile tale dichiarazione e, quindi, di sospenderne l'esame, ciò che, comunque, non avrebbe comportato l'inutilizzabilità delle pregresse dichiarazioni rese erga alios, giusta le previsioni contenute nell'art. 63 c.p.p..
Va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la sanzione di inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni assunte senza garanzie difensive da un soggetto che avrebbe dovuto fin dall'inizio essere sentito in qualità di imputato o persona soggetta alle indagini postula che a carico dell'interessato siano già acquisiti, prima dell'escussione, indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dall'autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti od intuizioni personali dell'interrogante (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243417), essendo necessario che i suddetti indizi attengano al medesimo reato ovvero al reato connesso o collegato attribuito al terzo (Sez. 2, n. 20936 del 07/04/2017, Minutolo, Rv. 270363). Il ricorso - sul punto irrimediabilmente generico - non allega per quali ragioni si sarebbero dovuti ritenere, già prima dell'assunzione delle informazioni, non equivoci indizi di reità a carico di B.P., indizi - a quanto consta sulla base degli atti conoscibili dal Collegio - non emersi neppure in seguito.
3. Essendo manifestamente infondati i due motivi che precedono, a cui il ricorrente connette la rilevanza della questione sulla qualificazione del reato di cui al capo b), stessa sorte deve riservarsi al terzo motivo di ricorso, posto che la complessiva considerazione del fatto di cui alla richiamata imputazione, collocato nell'ambito delle altre condotte illecite sub iudice, ne esclude la lieve entità.
Va al proposito ribadito il risalente principio di diritto - affermato sin da quando D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, configurava, con gli stessi presupposti contenuti nella norma oggi vigente, una circostanza attenuante secondo cui la fattispecie del fatto di lieve entità può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove venga meno anche uno soltanto degli indici previsti dalla legge, diviene irrilevante l'eventuale presenza degli altri (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera e aa., Rv. 216668; Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247911; Sez. 6, n. 39977 del 19/09/2013, Tayb, Rv. 256610; Sez. 3, n. 32695 del 27/03/2015, Genco e aa., Rv. 264491). Questo consolidato orientamento ha di recente trovato nuova conferma in una decisione assunta dalle Sezioni Unite, ove si afferma essere "necessario che il percorso valutativo così ricostruito si rifletta nella motivazione della decisione, dovendo il giudice, nell'affermare o negare la tipicità del fatto ai sensi dell'art. 73, comma 5, T.U. stup., dimostrare di avere vagliato tutti gli aspetti normativamente rilevanti e spiegare le ragioni della ritenuta prevalenza eventualmente riservata a solo alcuni di essi. Il che significa, come illustrato, che il discorso giustificativo deve dar conto non solo dei motivi che logicamente impongono nel caso concreto di valutare un singolo dato ostativo al riconoscimento del più contenuto disvalore del fatto, ma altresì di quelli per cui la sua carica negativa non può ritenersi bilanciata da altri elementi eventualmente indicativi, se singolarmente considerati, della sua ridotta offensività" (Sez U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo).
In questo quadro, la reiterazione nel tempo di una pluralità di condotte di cessione della droga quale accertata nel caso di specie con riguardo alle diverse condotte ascritte, pur non precludendo automaticamente al giudice di ravvisare il fatto di lieve entità, entra in considerazione nella valutazione di tutti i parametri dettati, in proposito, dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5; ne consegue che è legittimo il mancato riconoscimento della lieve entità qualora il singolo reato costituisca manifestazione effettiva di una più ampia e comprovata capacità dell'autore di diffondere in modo non episodico, nè occasionale, sostanza stupefacente, non potendo la valutazione della offensività della condotta essere ancorata al solo dato statico della quantità volta per volta ceduta, ma dovendo essere frutto di un giudizio più ampio che coinvolga ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva (Sez. 3, n. 6871 del 08/07/2016, dep. 2017, Bandera e aa. Rv. 269149; Sez. 4, n. 40720 del 26/04/2017, Nafia e aa., Rv. 270767).
4. L'ultimo motivo del ricorso proposto da M.F. e l'analogo motivo del ricorso proposto da A.F. - da trattarsi unitariamente sono manifestamente infondati.
Com'è noto, la sent. Corte Cost. 23/01-08/03/2019, n. 40, ravvisando la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., oltre che del principio di rieducazione della pena di cui all'art. 27 Cost., ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 73, comma 1, T.U. stup. nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anzichè di sei anni.
La sentenza impugnata, in applicazione del dictum della citata decisione, ha pertanto rideterminato, riducendola, la pena stabilita dal primo giudice, sia per il reato ritenuto più grave, sia per la continuazione con gli altri addebiti, qualificati pure questi quale violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1.
Premesso che i ricorrenti non si dolgono degli aumenti stabiliti a titolo di continuazione, osserva il Collegio che la rideterminazione della pena per il reato più grave di cui al capo a) non presta il fianco a censure, trattandosi di pena equamente determinata in termini di poco superiori al minimo edittale - così come superiore al più elevato minimo edittale in allora vigente era stata la pena quantificata dal primo giudice - con il richiamo ai criteri di cui all'art. 133 c.p. e non può dunque essere in questa sede sindacata alla luce di un consolidato orientamento interpretativo (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197). Nè può ritenersi che il richiamo a detti criteri non sia sufficiente allorquando si tratti di rimodulare la pena a fronte della declaratoria d'illegittimità costituzionale del minimo edittale precedentemente vigente, trattandosi di circostanza che - salvo il divieto di reformatio in pejus - non vincola il giudice nell'esercizio dei consueti poteri discrezionali al medesimo attribuiti con riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
4.1. Quanto alla dedotta violazione del citato divieto, la stessa va certamente esclusa perchè il giudice d'appello non aveva l'obbligo di ridurre la pena inflitta in primo a grado attenendosi agli stessi criteri di proporzionalità rispetto al minimo edittale utilizzati dal primo giudice. Ed invero, pronunciandosi in casi analoghi (v. Sez. 4, n. 46973 del 06/10/2015, Mentonis, Rv. 265209, concernente l'applicazione della disciplina più favorevole determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, con riferimento al trattamento sanzionatorio relativo ai delitti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, in relazione alle cosiddette "droghe leggere"), questa Corte ha già affermato che la riduzione dei limiti edittali di pena sopravvenuta alla decisione di primo grado non impone al giudice di appello o del rinvio di rimodulare la sanzione adeguandosi ai criteri in precedenza utilizzati dal giudice di merito, potendo egli rideterminarla nell'ambito della nuova cornice edittale, con il solo limite costituito dal divieto di sovvertire il giudizio di disvalore espresso dal precedente giudice. L'orientamento è stato successivamente seguito in numerose altre pronunce (Sez. 3, n. 13223 del 03/12/2015, dep. 2016, Boy, Rv. 266767; Sez. 6, n. 6850 del 09/02/2016, L'Astorina, Rv. 266105; Sez. 2, n. 29431 del 08/05/2018, Puglisi, Rv. 273809).
Nel caso di specie, all'esito del giudizio di primo grado, il reato più grave ascritto agli imputati era stato ritenuto meritevole di una pena detentiva superiore al limite minimo edittale allora vigente, sicchè, nonostante la significativa gravosità dello stesso in assoluto - ciò che aveva indotto ad un aumento di sei mesi - il giudizio di disvalore penale dato dal giudice era evidente. Ridotto il minimo - ma non il massimo - edittale, per consentire il rispetto dei principi più sopra indicati ed evitare che condotte non gravissime dovessero necessariamente essere sanzionate muovendo da un limite di pena obiettivamente assai elevato, il giudice d'appello, pur riducendo di un anno e mezzo la pena base inflitta per il reato più grave (in tal modo rispettando il divieto di reformatio in pejus e, anzi, certamente operando in una prospettiva pro reo), ha conservato, condividendolo, il giudizio sul non esiguo disvalore penale dato dal primo giudice, discostandosi dal (nuovo) minimo edittale. Il fatto che lo scostamento - pur decisamente contenuto rispetto alla forbice massima sia stato leggermente più elevato di quello operato dal primo giudice sull'allora vigente minimo editale significa soltanto che nel caso di specie la obiettiva gravità del fatto e capacità a delinquere degli imputati non giustificava un più contenuto trattamento sanzionatorio. Si tratta di valutazione discrezionale di merito che in questa sede non può essere sindacata.
4 Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, tenuto conto della sentenza Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00 per ciascun ricorrente.
Posto che agli atti risulta che A.F. è militare dell'Esercito, titolare di rapporto di impiego con il Ministero della Difesa, ai sensi dell'art. 154 ter disp. att. c.p.p., deve comunicarsi all'amministrazione di appartenenza copia del dispositivo della sentenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro. 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Dispone che ai sensi dell'art. 154 ter disp. att. c.p.p., copia del dispositivo della presente sentenza sia comunicata al Ministero della Difesa.
Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell'estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020 art. 1, comma 1, lett. a).
Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2020
07-06-2020 21:07
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