Sergente della Marina Militare condannato per insubordinazione con minaccia aggravata e di insubordinazione con ingiuria aggravata in danno del superiore gerarchico, maresciallo della Marina.
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 19-02-2020) 16-04-2020, n. 12313
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente -
Dott. VANNUCCI Marco - rel. Consigliere -
Dott. APRILE Stefano - Consigliere -
Dott. MINCHELLA Antonio - Consigliere -
Dott. CAIRO Antonio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.C., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 03/04/2019 della CORTE MILITARE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. VANNUCCI MARCO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Militare Dr. UFILUGELLI FRANCESCO che conclude chiedendo l'inammissibilità del ricorso. L'avvocato MAZZOTTA VINCENZO chiede l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa il 8 aprile 2019 la Corte militare di appello ha confermato la sentenza resa dal Tribunale militare di Napoli il 21 giugno 2018 recante condanna di P.C., sergente della Marina Militare, per la commissione, in (OMISSIS), in esecuzione del medesimo disegno criminoso dei delitti di insubordinazione con minaccia aggravata e di insubordinazione con ingiuria aggravata in danno del superiore gerarchico, maresciallo F.A..
1.1 In risposta ai motivi di appello, la motivazione è nel senso che: l'avere l'imputato profferito le parole "se non t'n vai t'mett i man n'guol" all'indirizzo del superiore gerarchico, conseguente al comportamento da questi tenuto in ragione dell'atteggiamento non collaborativo dell'imputato nell'esecuzione dell'ordine, impartito dal capitano C., di trasferire l'ufficio in altro locale, è qualificabile come delitto di insubordinazione aggravata con minaccia, non anche, come dedotto dall'appellante come reato di ingiuria (art. 226 c.p.m.p.) ovvero minaccia (art. 229 c.p.m.p.); la frase a contenuto minaccioso venne infatti pronunciata mentre il maresciallo F. tentava di far riflettere l'imputato in ordine al suo atteggiamento di omessa collaborazione nei confronti delle disposizioni impartite dal comandante; la condotta dell'imputato non era quindi diretta a contestare direttamente l'ordine di trasloco dato dal capitano C., "ma il comportamento del M.llo F., al quale era chiesto di allontanarsi (in quanto altrimenti gli avrebbe messo le mani addosso)"; il fatto è attinente alla disciplina, avendo il maresciallo F. "tutto il diritto di chiedere spiegazioni al P. circa il suo comportamento (in una situazione in cui egli non solo non stava collaborando all'esecuzione dell'ordine, ma si stava allontanando mentre il superiore si rivolgeva a lui e senza attendere di essere congedato)"; la frase pronunciata ha oggettiva valenza intimidatoria, avendo l'imputato prospettato al superiore gerarchico un male ingiusto dipendente dalla sua volontà quale conseguenza "di una eventuale mancata ottemperanza della persona offesa a quanto intimato dal P. (se non te ne vai)"; offensiva dell'onore e del prestigio del superiore gerarchico è poi la frase "non tieni le palle", che ha "un evidente significato di persona debole, incapace di far valere le proprie ragioni, offesa che appare particolarmente pregiudizievole per il prestigio di un superiore"; il fatto che una espressione volgare del tipo di quella profferita dall'imputato sia sovente usata nel linguaggio comune non elide la sua connotazione offensiva ove la stessa sia pronunciata verso un superiore gerarchico in violazione delle regole di disciplina militare; non vi sono i presupposti per ritenere sussistente la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis c.p. in quanto l'imputato è stato in passato condannato per la commissione quale pubblico ufficiale di reati di falsità ideologica in atti pubblici, "il fatto ha offeso in modo significativo libertà morale e onore della persona offesa ed è stato compiuto con una intensità del dolo particolarmente elevata, anche in considerazione delle frasi da lui pronunciate nel corso del processo (nella sentenza trascritte), evidenzianti una rivendicazione del comportamento tenuto accompagnata da espressioni polemiche nei confronti dei propri superiori.
2. Per la cassazione di tale sentenza P. ha presentato ricorso (atto sottoscritto dal relativo difensore di fiducia, avvocato Vincenzo Mazzotta) contenente quattro motivi di impugnazione.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere qualificato i fatti accertati, rispettivamente, come delitti di insubordinazione con minaccia (art. 189 c.p.m.p., comma 1) e di insubordinazione con ingiuria (art. 189 c.p.m.p., comma 2), anzichè come delitti di minaccia da militare ad altro militare (art. 229 c.p.m.p.) e di ingiuria da militare ad altro militare (art. 226 c.p.m.p.), in quanto, alla luce delle dichiarazioni rese dal testimone maresciallo F. all'udienza del 15 marzo 2018 circa il comportamento da lui tenuto dopo che P. aveva profferito al suo indirizzo le parole sopra indicate, tali parole, per come pronunziate e percepite, non avevano attinenza diretta al servizio; tali accadimenti "hanno avuto esclusivamente natura personale, non certo di contrasto alla disciplina e, quindi, al rapporto gerarchico-militare"; "seppure l'elemento scatenante il comportamento del P. può rinvenirsi nel fatto del trasferimento del suo ufficio", le azioni sono collegate "in un rapporto di semplice occasionalità con gli interessi connessi alla tutela del servizio e sono pacificamente di natura strettamente personale".
La Corte di appello, in considerazione di tale diversa qualificazione dei fatti, avrebbe dunque dovuto dichiarare improcedibile l'azione penale esercitata dal pubblico ministero per l'assenza di richiesta di procedimento del comandante del Corpo della Guardia di Finanza di cui all'art. 260 c.p.m.p..
2. Con il terzo motivo, la motivazione della sentenza è criticata nella parte in cui si afferma la sussistenza del delitto di insubordinazione con minaccia: il testimone maresciallo F. aveva dichiarato di non essersi riuscito a spiegare il comportamento di P., contestativo del disposto trasloco dell'ufficio, di avergli solo chiesto cosa stesse facendo onde farlo riflettere sul proprio comportamento e, alla pronuncia della frase "se non t'n vai t'mett i man n'guol", di avere provato dispiacere perchè detta "senza motivo"; lo stesso testimone aveva inoltre affermato che, dopo la pronuncia di tale frase, P. rimase immobile ed entrò nell'ascensore; le qualificazione di quella frase in termini di minaccia risulta quindi frutto di un travisamento dei fatti, non avendo, in buona sostanza, il maresciallo F. percepito alcuna minaccia, essendosi solo dichiarato "dispiaciuto per l'accaduto".
3. Con il quarto motivo il ricorrente evidenzia che la motivazione della sentenza è illogica nella parte in cui erroneamente qualifica la frase "non tieni le palle" in termini di insubordinazione con ingiuria: nella situazione di concitazione del momento il ricorrente non aveva utilizzato tale espressione per offendere il proprio superiore che, udite tali parole, nulla aveva replicato; sì che tale frase "costituisce esclusivamente un'espressione volgare, frutto certamente di impoverimento del linguaggio, ma pure di linguaggio comune, inidonea comunque ad offendere il bene giuridico tutelato dalla norma di legge".
4. I sopra indicati motivi di impugnazione, da esaminare congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, sono manifestamente infondati e, come tali, inammissibili (art. 606 c.p.p., comma 3): essi sostanzialmente riproducono i motivi di appello formulati avverso la sentenza di primo grado, mentre la sentenza impugnata ha dato alle questioni, in fatto e in diritto, da essi implicate, specifica e non illogica risposta, improntata a corretta interpretazione delle norme di legge sostanziale rilevanti nel caso di specie.
Le parole riportate nei due capi di imputazione costituiscono atti di insubordinazione: la sentenza impugnata, con motivazione immune da vizi, osserva che il maresciallo F. aveva "tutto il diritto di chiedere spiegazioni al P. circa il suo comportamento (in una situazione in cui egli non solo non stava collaborando all'esecuzione dell'ordine, ma si stava allontanando mentre il superiore si rivolgeva a lui e senza attendere di essere congedato)" e che, per tutta risposta, il ricorrente aveva pronunziato al suo indirizzo le parole indicate nei capi di imputazione; il comportamento in precedenza tenuto dal ricorrente, manifestamente insoddisfatto dell'ordine di servizio impartito dal capitano C., manifestava una contestazione di tale ordine.
In buona sostanza, la sentenza impugnata ha accertato che il maresciallo non usò verso il subordinato toni autoritari per indurlo a collaborare all'esecuzione dell'ordine (come era sua facoltà), utilizzando invece l'arma della persuasione; ottenendo dal subordinato le frasi indicate nei due capi di imputazione.
I fatti commessi dal ricorrente furono dunque strettamente attinenti al rapporto di servizio e costituiscono, quindi, atti di insubordinazione.
Il reato di minaccia di cui all'art. 612 c.p. costituisce reato di pericolo: la minaccia di un male ingiusto dipendente dal comportamento dell'agente va dunque valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto (cfr. Cass. Sez. 5, n. 644 del 6 novembre 2013, dep. 2014, B., Rv. 257951), sicchè non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito (cfr. Cass. Sez. 4, n. 8264 del 2 settembre 1985, Giannini, Rv. 170482), essendo sufficiente che la condotta dell'agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo (cfr.: Cass. Sez. 2, n. 21684 del 12 febbraio 2019, Bernasconi, Rv. 275819; Cass. Sez. 1, n. 44128 del 3 maggio 2016, Nino, Rv. 268289; Cass. Sez. 5, n. 46528 del 2 dicembre 2008, Parlato, Rv. 242604).
Tali principi valgono anche quanto alla minaccia propria del delitto di insubordinazione; pertanto correttamente la sentenza impugnata afferma che la frase "se non t'n vai t'mett i man n'guol", profferita, non in tono scherzoso, dal ricorrente all'indirizzo del superiore gerarchico, era oggettivamente intimidatoria, prospettando un male futuro e dipendente dalla volontà dell'agente nell'ipotesi di mancata ottemperanza all'intimazione di lasciare il luogo.
Nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, integra l'offesa all'onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore gerarchico nonchè l'uso di tono arrogante (che nel diritto comune non viene preso in considerazione), perchè contrari alle esigenze della disciplina militare, per la quale il soggetto di grado più elevato deve essere tutelato, non solo nell'espressione della sua personalità umana, ma anche nell'ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell'autorità del grado e della funzione di comando (in questo senso, cfr., per tutte: Cass. Sez. 1, n. 3971 del 28 novembre 2013, dep. 2014, De Chiara, Rv. 259013; Cass. Sez. 1, n. 7957 del 20 dicembre 2006, dep. 2007, Frantuma, Rv. 236355; Cass. Sez. 1, n. 1172 del 12 luglio 1989, dep. 1990, Pesola, Rv. 183159).
Inoltre, per la sussistenza di tale delitto è sufficiente il dolo generico, e cioè la cosciente volontà di pronunciare parole o di compiere gesti di univoco significato offensivo, non richiedendosi anche l'animus iniurandi (in questo senso cfr.: Cass. Sez. 1, n. 35385 del 7 marzo 2019, M., Rv. 276612; Cass. Sez. 1, n. 42367 del 16 novembre 2006, Toraldo, Rv. 235569; Cass. Sez. 1, n. 314 del 5 novembre 2001, dep. 2002, Stien, Rv. 220433), tutelando la fattispecie delineata dall'art. 189 c.p.m.p., comma 2, tanto la dignità e l'onore del "superiore" quanto l'integrità e l'effettività del rapporto gerarchico, funzionale al mantenimento della disciplina e della compattezza delle forze armate.
E' immune dunque da censura di sorta la sentenza impugnata che ha considerato offensiva dell'onore e del prestigio della persona offesa la frase, al suo indirizzo profferita dal ricorrente non ioci causa ovvero nell'ambito di conversazione dai toni scherzosi, "non tieni le palle", avente "un evidente significato di persona debole, incapace di far valere le proprie ragioni, offesa che appare particolarmente pregiudizievole per il prestigio di un superiore".
5. Con il secondo motivo il ricorrente deduce che la sentenza impugnata è caratterizzata da motivazione illogica e contraddittoria, determinante violazione di legge, nella parte in cui esclude che i fatti possano essere considerati di particolare tenuità, ai sensi dell'art. 131-bis c.p.; secondo il ricorrente, il riferimento alla precedente condanna (relativa a fatto commesso nel corso dell'anno 1995) è "del tutto fuori luogo e contra legem, in quanto la norma nega i benefici previsti dall'art. 131-bis c.p. soltanto al delinquente abituale"; le dichiarazioni rese da P. nel corso del processo di primo grado sono state richiamate "estemporaneamente ed in palese violazione di legge richiamate dalla Corte Militare di Appello, non essendo esse oggetto dei motivi d'appello"; le stesse riguardano comunque il comandante, non già il maresciallo F. "e, quindi, del tutto irrilevanti ed inconferenti ai fini del fatto oggetto di reato e della conseguente valutazione ai fini della concedibilità"; d'altra parte, concedendo le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e nella loro massima estensione, il giudice di primo gravo aveva affermato che l'episodio era isolato e che il ricorrente "era stato sempre garbato nei modi ed attento in servizio".
6. Il motivo è infondato.
La ragione fondante l'accertamento di non sussistenza nel caso concreto della causa di non punibilità costituita dalla particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) è quella, esplicitamente enunciata, dell'offesa significativa della libertà morale e dell'onore della persona offesa arrecata con la condotta contestata nonchè della particolare intensità del dolo caratterizzante i comportamenti illeciti del ricorrente, desunta sia dalla significativa offesa alla libertà morale e all'onore della persona offesa, sia dal contenuto delle dichiarazioni da lui rese nel corso del processo; tali dichiarazioni evidenziavano una rivendicazione del proprio comportamento illecito e ad esse erano aggiunte "anche espressioni polemiche nei confronti dei propri superiori" che "contribuiscono a delineare l'atteggiamento che il P. è solito avere nei confronti dei propri superiori".
Premesso che il contenuto di tali dichiarazioni era utilizzabile ai fini della decisione sul motivo di appello (anche perchè la sentenza di primo grado omise di pronunciarsi sulla richiesta del ricorrente di considerare i fatti come particolarmente tenui), essendo le stesse acquisite al processo, si deve ribadire che, ai fini del riconoscimento della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis c.p., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessiva e congiunta di tutte le peculiarità del caso concreto, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da essa desumibile e dell'entità del danno o del pericolo (cfr. Cass. S.U., n. 13681 del 25 febbraio 2016, Tushaj, Rv. 266590).
La valutazione della non particolare tenuità dell'offesa è stata dunque compiuta dal giudice di appello alla luce dell'intensità del dolo caratterizzante il comportamento del ricorrente nella commissione dei fatti medesimi, costituenti insubordinazione; intensità desunta anche dal contenuto delle dichiarazioni successive, che dimostravano una spiccata insofferenza del ricorrente "nei confronti dei propri superiori" nella gerarchia militare; dunque, utilizzando il criterio di valutazione indicato dall'art. 133 c.p., comma 1, n. 3), espressamente richiamato dal precedente art. 131-bis, comma 1.
Tale valutazione sfugge al sindacato di legittimità in quanto ancorata a motivazione non manifestamente illogica e non intrinsecamente contraddittoria. In particolare, non sussiste la dedotta contraddizione fra tale motivazione e quella, caratterizzante la sentenza di primo grado, alla base della concessione di circostanze attenuanti generiche (il ricorrente "era stato sempre garbato nei modi ed attento in servizio"), sul semplice rilievo che le circostanze attenuanti innominate vennero concesse alla luce dei pregressi comportamenti del ricorrente nel corso dello svolgimento del proprio servizio mentre la sentenza impugnata nega l'applicabilità della causa di non punibilità in considerazione della intensità del dolo che caratterizzò i reati di insubordinazione.
7. Il ricorso è in conclusione da rigettare, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali anticipate dallo Stato per il giudizio di cassazione (art. 616 c.p.p.).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Si dà atto che il presente provvedimento, redatto dal relatore consigliere Dr. Vannucci Marco, è da lui solo sottoscritto anche quale Consigliere anziano del collegio per impedimento alla firma del suo Presidente, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).
Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2020
07-06-2020 21:31
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