Un sottoufficiale della Guardia di Finanza condannato per accesso abusivo ad un sistema informatico, per essersi introdotto nel sistema SDI in uso alle forze di polizia in due distinte occasioni, per reperire informazioni concernenti una persona, che era controparte contrattuale del cognato e che era stata da questi citata in giudizio.
Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 09-07-2020) 11-09-2020, n. 25944
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VESSICHELLI Maria - Presidente -
Dott. ZAZA Carlo - Consigliere -
Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -
Dott. SCORDAMAGLIA Irene - Consigliere -
Dott. BORRELLI Paola - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 12/04/2019 della CORTE APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere PAOLA BORRELLI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore CARDIA DELIA, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
udito il difensore Avv. GIOVANNI CARUSO, che si è riportato ai motivi di ricorso e, nel sollecitare la Corte ad attivare d'ufficio i poteri di rimessione alla Corte Costituzionale sulla questione della retroattività della prescrizione, ha chiesto comunque che venga diversamente calcolato il termine della prescrizione e riconosciuta l'avvenuta integrazione della causa di estinzione del reato.
Svolgimento del processo
1. La sentenza impugnata è stata emessa il 12 aprile 2019 dalla Corte di appello di Venezia, che ha confermato la pronunzia del Tribunale di Vicenza del 27 febbraio 2018, che aveva condannato P.A., sottufficiale della Guardia di Finanza, per il reato di cui all'art. 615-ter c.p., comma 1, comma 2, n. 1) e comma 3; il P. è stato riconosciuto responsabile di essersi abusivamente introdotto nel sistema SDI in uso alle forze di polizia in due distinte occasioni (il 6 maggio 2010 ed il 13 ottobre 2011), al fine di reperire informazioni concernenti un soggetto ( G.G.), che era controparte contrattuale del cognato e che era stato da questi citato in giudizio.
2. Ricorre avverso detta sentenza il difensore di fiducia dell'imputato, affidandosi a due motivi.
2.1. Il primo motivo denunzia violazione dell'art. 515-ter c.p. (rectius 615-ter c.p.) in relazione alla mancanza di prevedibilità della disposizione quanto alla configurabilità del reato anche per chi, come il ricorrente, fosse autorizzato ad accedere al sistema informatico in tesi violato. A sostegno della doglianza, la parte effettua un'ampia ricostruzione dogmatica del tema dell'overruling in chiave convenzionale, per giungere alla conclusione che la condanna di P. sarebbe violativa dell'art. 7 della CEDU. Difetterebbe, infatti, la prevedibilità della disposizione all'epoca della commissione dei fatti, quando esisteva un contrasto di giurisprudenza circa la sussumibilità della condotta nella fattispecie penale laddove realizzata da soggetto autorizzato all'accesso nel sistema, contrasto che era stato risolto dalle Sezioni Unite di questa Corte solo con la sentenza Savarese del 2017. Aveva errato, dunque, la Corte di merito quando, in risposta al corrispondente motivo di appello, aveva evocato due precedenti di questa sezione a sostegno della tesi dell'irrilevanza dell'overruling in punto di prevedibilità della norma incriminatrice. Conclude il ricorrente assumendo che la disposizione in discorso debba essere interpretata alla luce della giurisprudenza di Strasburgo sull'art. 7 CEDU nonchè della sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988.
2.2. Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione del ne bis in idem sostanziale, reputando che il riconoscimento dell'ipotesi aggravata di cui all'art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1), abbia dato luogo ad una duplicazione punitiva rispetto allo stesso fatto. Esordisce la parte ricordando che, con l'appello, aveva sostenuto che l'asserito mantenimento abusivo nel sistema cui aveva avuto accesso con credenziali legittimamente possedute era consistito in una "definalizzazione" della condotta rispetto agli scopi attinenti alla funzione svolta e che la medesima qualifica rivestita gli veniva addebitata anche quale substrato fattuale dell'ipotesi aggravata. La Corte di appello - ricorda il ricorrente - aveva opposto alle censure anzidette due argomenti non condivisibili. Da una parte, aveva ricordato che la circostanza aggravante in parola era stata coinvolta in un giudizio di equivalenza con le circostanze attenuanti generiche, dimenticando che la rilevanza in malam partem di una circostanza aggravante non è neutralizzata quando essa rientri nel giudizio di comparazione, persistendo effetti negativi come, per esempio, la durata del tempo necessario a prescrivere. Dall'altra, la Corte distrettuale aveva fatto leva sulla valenza aggravatrice della qualifica soggettiva rivestita, interpretando la disposizione in discorso e la circostanza oggi ivi contemplata come aggravante a carattere soggettivo (aderendo alla sentenza delle Sezioni Unite Casani), mentre si tratterebbe di circostanza aggravante a carattere oggettivo, come l'identica circostanza di cui all'art. 61 c.p., n. 9).
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
1. Il primo motivo di ricorso - laddove predica l'esistenza di un overruling in malam partem in violazione dell'art. 7 CEDU - è infondato.
La parte invoca, a sostegno della propria tesi, la giurisprudenza della Corte EDU - prima fra tutte la sentenza Contrada c/ Italia - a proposito della necessaria prevedibilità dell'interpretazione di una norma di legge; sostiene, quindi, che, in virtù della mancanza di tale requisito legata all'evoluzione giurisprudenziale che aveva riguardato il reato ex art. 615-ter c.p., la condotta sub iudice dovrebbe andare esente da pena perchè, all'epoca in cui era stata posta in essere, non era prevedibile l'interpretazione secondo cui è penalmente rilevante anche l'accesso da parte di soggetto autorizzato alla consultazione dell'archivio informatico, che tuttavia utilizzi detta autorizzazione per ottenere dati per scopi diversi da quelli per cui l'autorizzazione era stata concessa.
Ebbene, il ricorso non coglie nel segno.
1.1. Come ripetutamente e condivisibilmente già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 10659 del 20/02/2020, Najim Abdelouahad, Rv. 278750; Sez. 5, N. 4455 del 14/11/2019, dep. 2020, Mustafa Arafat, Rv. 278552; Sez. 5, n. 13178 del 12/12/2018, dep. 2019, Galvanetti, Rv. 275623; Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Dilaghi, Rv. 274406; Sez. 5, n. 41846 del 17/05/2018, Postiglione, Rv. 275105; Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi e altro, Rv. 273876; Sez. 5, n. 31648 del 17/06/2016, Falzone, non massimata; Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016, Tronchetti Provera, Rv. 267164; Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama e altri, Rv. 256584) e dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 230/2012), intanto l'overruling legato ad un mutamento esegetico non è suscettibile di interpretazione retroattiva in malam partem per violazione dell'art. 7 CEDU, in quanto l'opzione ermeneutica che ne è alla base non sia ragionevolmente prevedibile al momento della commissione del fatto (in tema, cfr. Corte EDU 22 novembre 1995, s. W. c. Regno Unito, ric. n. 20166/92, Corte EDU, Grande Camera, sent. 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, ric. n. 42750/09). Tale interpretazione è stata altresì convalidata, di recente, dalle Sezioni Unite di questa Corte, chiamate a decidere circa la possibilità di applicare i principi della sentenza della Corte EDU Contrada c/ Italia anche ad altri condannati per il reato di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p. (Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054).
Sempre secondo le direttrici ermeneutiche evincibili dai precedenti sopra menzionati, non vi è overruling in contrasto con l'art. 7 CEDU quando l'interpretazione colpevolista sia già emersa precedentemente alla commissione del fatto nell'ambito della giurisprudenza di legittimità. In particolare, quando vi sia un contrasto giurisprudenziale poi risolto dalla Sezioni Unite di questa Corte, non può dirsi imprevedibile l'interpretazione che, aderendo al dictum del supremo Consesso, fondi su uno dei due o più orientamenti interpretativi analizzati dalla decisione (Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, Genco; Sez. 6, n. 10659 del 20/02/2020, Najim Abdelouahad; Sez. 5, N. 41846 Del 17/05/2018, Postiglione; Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi e altro; Sez. 5, n. 31648 del 17/06/2016, Falzone, non massimata, tutte citt.).
1.2. E' proprio fondando su questo presupposto interpretativo che le pronunzie di questa Corte che si sono occupate dell'eventuale overruling in tema di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (Sez, 5, Dilaghi, Fabbrizzi e Falzone, citt.) hanno escluso che vi fosse violazione dell'art. 7 CEDU, a dispetto del fatto che vi siano stati due interventi delle Sezioni Unite a proposito dei confini precettivi del delitto di cui all'art. 615-ter c.p..
1.2.1. Va infatti ricordato, a quest'ultimo proposito, che Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251269, ha stabilito che integra il delitto previsto dall'art. 615-ter c.p. la condotta di colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema.
Nell'ottica di una precisazione del principio già sancito, Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061 ha poi statuito che integra il delitto previsto dall'art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1, la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l'accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita.
1.2.2. Il Collegio ritiene che, nel caso di specie, venga in particolare rilievo il primo dei due precedenti citati, tenuto conto delle epoche dei due accessi abusivi, entrambi collocati prima della citata decisione (6 maggio 2010 e 13 ottobre 2011). Ebbene, come sostenuto da questa Corte (Sez. 5 Fabbrizzi e Falzone, citt.), l'interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite era già accreditata nella giurisprudenza di questa Corte prima della sentenza Casani (Sez. 5 n. 39620 del 22/09/2010, Rv. 248653, Lesce; Sez. 5 n. 19463 del 16/02/2010, Rv. 247144, Jovanovic; Sez. 5 n. 2987 del 10/12/2009, dep. 2010, Rv. 245842, Matassich; Sez. 5 n. 18006 del 13/02/2009, Rv. 243602, Russo; Sez. 5 n. 37322 del 08/07/2008, Rv. 241201, Bassani; Sez. 5 n. 12732 del 07/11/2000, Zara, Rv. 217743), donde non poteva ritenersi imprevedibile che rientrasse nello statuto punitivo anche l'accesso abusivo del soggetto autorizzato che deviasse rispetto ai limiti ed ai fini connessi alla sua autorizzazione. In altri termini, le Sezioni unite, lungi dall'avere introdotto un'innovazione giurisprudenziale eccentrica rispetto alle precedenti riflessioni svolte nell'ambito delle Sezioni semplici, una volta effettuata la ricognizione dei due indirizzi giurisprudenziali contrapposti, hanno optato poi per l'interpretazione più estensiva già oggetto di numerose pronunce, secondo la quale è penalmente rilevante anche la condotta del soggetto che, pur essendo abilitato ad accedere al sistema informatico o telematico, vi si introduca con la password di servizio per raccogliere dati protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione dell'archivio informatico, utilizzando sostanzialmente il sistema per finalità diverse da quelle consentite. L'autorevole precedente è giunto a questa conclusione opinando che la norma in esame punisce non soltanto l'abusiva introduzione nel sistema (da escludersi nel caso di possesso del titolo di legittimazione), ma anche l'abusiva permanenza in esso contro la volontà di chi ha il diritto di escluderla e che, se il titolo di legittimazione all'accesso viene utilizzato dall'agente per finalità diverse da quelle consentite, dovrebbe ritenersi che la permanenza nel sistema informatico avvenga contro la volontà del titolare del diritto di esclusione.
A dispetto del particolare rilievo che pare attribuirvi il ricorrente, la successiva sentenza delle Sezioni Unite (imputato Savarese), invece, non ha fatto altro che precisare, rispetto ad alcune incertezze interpretative (in effetti legate ad un contrasto tra due sole pronunzie di questa Sezione), la direzione esegetica di Sezioni Unite Casani quanto, in particolare, alla rilevanza o meno della violazione di norme specifiche che disciplinassero l'accesso al sistema. Più precisamente, con la sentenza Savarese, è stato approfondito e specificato il concetto di "operazioni ontologicamente estranee" a quelle consentite, qualora la condotta criminosa sia posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, evocando sia la L. n. 241 del 1990, art. 1 che gli artt. 54, 97 e 98 Cost.. Nel sancire il principio di diritto precedentemente riportato, il supremo Consesso si è comunque collocato sia nel solco di Sezioni Unite Casani, dal quale era già evincibile come fosse sufficiente, per integrare la fattispecie penale, che il soggetto avesse travalicato i limiti propri dell'autorizzazione che gli era stata concessa (il soggetto agente così Sezioni Unite Casani - è penalmente responsabile "sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema (....) sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l'accesso era a lui consentito"); sia sulla scia di un corposo filone giurisprudenziale che aveva preceduto anche Sezioni Unite Casani (come ricostruito da Sez. 5, Dilaghi, cit.).
1.2.3. Si conviene ulteriormente con la sentenza Dilaghi di questa sezione laddove ha escluso la pertinenza, rispetto al preteso overruling in malam partem, del riferimento alla decisione del 14 aprile 2015 della Corte Europea, Contrada c. Italia, evocata anche nel ricorso oggi al vaglio di questa Corte. Quella decisione, infatti, muove dal presupposto che il concorso esterno nel delitto di cui all'art. 416-bis c.p. sia un "reato di origine giurisprudenziale", non affrontando affatto, quindi, il diverso profilo, concernente il caso oggi sub iudice, delle fisiologiche oscillazioni nell'interpretazione del dato normativo, ragionevolmente suscettibili di ricevere accoglimento attraverso la lettura fornita, in sede di composizione del contrasto giurisprudenziale, dalle Sezioni Unite.
2. Il ricorso è, anche quanto al secondo argomento di censura, infondato.
Il ricorrente denunzia violazione del ne bis in idem sostanziale, reputando che il riconoscimento dell'ipotesi aggravata di cui all'art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1), abbia dato luogo ad una duplicazione punitiva rispetto allo stesso fatto. Ebbene, l'impugnativa non coglie nel segno perchè muove da un presupposto errato, in quanto non sussiste alcuna integrale sovrapponibilità fattuale tra la disposizione di cui al comma 1, come interpretata dalle Sezioni Unite di questa Corte, e quella del comma 2, che prevede una circostanza aggravante (configurabile laddove "il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato, o con abuso della qualità di operatore del sistema").
Come sopra chiarito, per chi è autorizzato ad accedere al sistema, il reato può configurarsi anche semplicemente allorchè ci si muova al di fuori dell'autorizzazione stessa. Quanto all'aggravante in discorso e tralasciate le figure dell'investigatore privato e dell'operatore del sistema (estranee al tema oggi all'attenzione della Corte), invece, essa trova applicazione laddove, a violare i limiti dell'autorizzazione, non sia un privato o un pubblico dipendente non iscrivibile nel novero dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio, ma, appunto, un individuo dotato di una di queste due qualifiche, che viola contestualmente sia l'autorizzazione concessagli che il dovere di fedeltà che lo lega alla pubblica amministrazione ed abusa dei poteri che quest'ultima gli ha attribuito rispetto all'accesso al sistema, distogliendoli dal perseguimento dell'interesse pubblico cui dovrebbero essere funzionali. Altrimenti detto, a conferma del quid pluris della disposizione di cui al comma 2, va osservato che la ratio dell'aggravamento sanzionatorio è legata al fatto che la "forzatura" dell'autorizzazione concessa è effettuata da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, la cui violazione dei doveri di fedeltà e l'abuso dei poteri propri della funzione o del servizio svolto che sono insiti nella condotta abusiva vanno sanzionati più severamente, sia per l'intrinseca gravità della condotta, sia perchè la qualifica ha agevolato la commissione del reato. D'altra parte, del tema della applicabilità coeva delle norme di cui ai commi 1 e 2, si sono occupate le Sezioni Unite, non solo nella sentenza Casani che ha sancito la natura di aggravante della disposizione di cui al comma 2 come sostenuto dal ricorrente - ma anche in Sezioni Unite Savarese, che l'hanno peraltro espressamente qualificata - a smentire una delle argomentazioni del ricorrente quale circostanza di carattere soggettivo. In quest'ultima pronunzia si è condivisibilmente opinato, infatti, che "quella prevista dal comma 2, n. 1, della norma incriminatrice è qualificabile come circostanza aggravante esclusivamente soggettiva, nel senso che descrive la condotta punibile in quanto posta in essere da determinati soggetti. Il pubblico ufficiale, l'incaricato di pubblico servizio, l'investigatore privato e l'operatore del sistema possono rispondere del reato solo in forza della previsione del comma 2. Per tali soggetti il reato è sempre aggravato, proprio perchè la circostanza è inscindibilmente collegata a quella qualità soggettiva ed in tutti i casi la configurata aggravante comporta un abuso, che ben può connotarsi delle caratteristiche dell'esecuzione di "operazioni ontologicamente estranee" rispetto a quelle consentite. Invero la norma si riferisce a soggetti che accedono al sistema e vi si trattengono abusando della propria qualità soggettiva, che rende più agevole la realizzazione della condotta tipica, oppure che connota l'accesso in sè quale comportamento di speciale gravità".
3. Occorre, ora, affrontare la questione della maturazione del termine prescrizionale del reato, con particolare riferimento al più risalente dei due accessi abusivi, quello avvenuto il 6 maggio 2010.
Ebbene, premesso che il termine massimo di prescrizione di dieci anni (otto anni più un quarto) è spirato il 6 maggio 2020, a detto termine va però aggiunto il periodo di sospensione di sessantaquattro giorni cui al combinato disposto del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, commi 1, 2 e 4 conv. con modifiche con L. 24 aprile 2020, n. 27, trattandosi di procedimento originariamente fissato per l'udienza del 30 aprile 2020 e poi rinviato in ragione della sospensione dell'attività giudiziaria legata all'emergenza da Covid-19; il procedimento, infatti, era fissato nell'ambito del periodo di sospensione generale (salve le eccezioni di legge, nelle quali il ricorso sub iudice non rientra) dal 9 marzo al 15 aprile 2020 di cui ai commi 1 e 2 citt., termine poi prorogato all'11 maggio 2020 ex D.L. n. 23 del 2020.
Sulla scorta dell'anzidetta dilatazione ex lege di sessantaquattro giorni, il termine prescrizionale trova scadenza alle ore 24.00 della data odierna, 9 luglio 2020; sul tema del computo del termine di prescrizione, la giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, sancito il principio secondo cui il decorso inizia, per i reati consumati, dal giorno in cui si è esaurita la condotta illecita e, quindi, il computo incomincia con le ore zero del giorno successivo a quello in cui si è manifestata la previsione criminosa e termina alle ore ventiquattro del giorno finale calcolato secondo il calendario comune (Sez. 3, n. 23259 del 29/04/2015, Richichi, Rv. 263650; Sez. 6, n. 4698 del 16/03/1998, Carpinteri, Rv. 211066).
Non è, al contrario, condivisibile la tesi esposta dal difensore del ricorrente in udienza, allorchè ha dubitato che la sospensione di cui all'art. 83 cit., comma 4 operi per tutto il periodo 9 marzo-11 maggio, sostenendo che esso andrebbe considerato solo a partire dall'entrata in vigore del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 non potendo quest'ultimo disporre per il passato. Nè consentirebbe di far retroagire la sospensione al 9 marzo 2020 - ha altresì opinato il difensore - la circostanza che detta sospensione fosse già stata prevista dal D.L. 8 marzo 2020, n. 11 giacchè la norma era stata abrogata dal D.L. n. 18.
Ebbene, la tesi propugnata non è fondata, dal momento che, se è vero che la L. 24 aprile 2020, art. 1, comma 2, di conversione del decreto n. 18 ha abrogato, tra gli altri, anche il D.L. 8 marzo 2020, n. 11 (così come già disposto dall'art. 83, comma 22), esso ha tuttavia aggiunto che "Restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi D.L. 2 marzo 2020, n. 9, D.L. 8 marzo 2020, n. 11 e D.L. 9 marzo 2020, n. 14". Tra questi effetti, il Collegio ritiene che vada senza dubbio iscritta la sospensione del termine prescrizionale già disposta con il D.L. n. 11 (entrato in vigore il 9 marzo 2020), sospensione peraltro collegata a quella del procedimento pure già prevista per legge e, quindi, direttamente ancorabile - quale concretizzazione della previsione generale ivi prevista legata al ricorrere della situazione emergenziale all'art. 159 c.p., comma 1.
In conclusione deve quindi affermarsi che il presupposto da cui muove la tesi esposta dalla difesa del ricorrente in udienza quello della retroattività della previsione della sospensione del termine di prescrizione di cui al D.L. n. 18 - deve considerarsi destituita di fondamento; ogni altra questione concernente la prescrizione è stata solo accennata in udienza, donde la genericità della prospettazione esime il Collegio dal pronunziarsi sul punto.
4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 9 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2020
04-10-2020 21:24
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