Attenuante per sabotaggio di lieve entità: la parola alla Corte Cosstituzionale.E' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 167 c.p.m.p. in relazione agli articoli 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui non prevede, per l'ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità, attenuazioni della pena per fatti di lieve entità.
Cass. pen., sez. I, ud. 24 marzo 2021 (dep. 28 settembre 2021), n. 35595
Presidente Boni - Relatore Cairo
Ritenuto in fatto
1. La Corte militare d'appello, con sentenza in data 4 luglio 2019, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale militare di Napoli dichiarava B.M. colpevole del reato di sabotaggio di opere militari aggravato e continuato (art. 167 c.p.m.p., comma 1, art. 47 c.p.m.p., n. 2, con riferimento alle condotte di cui ai numeri da 1 a 3 della rubrica) e, concessegli le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, lo condannava alla pena di anni sei e mesi due di reclusione, oltre alla degradazione con ogni conseguenza di legge. Confermava l'assoluzione dai reati ascritti ai capi 4 e 5 per non aver commesso il fatto. Al ricorrente, luogotenente specialista di Elicotteri della Guardia di Finanza, era stato addebitato di avere reso inservibili tre locali militari - un deposito per velivoli, un laboratorio elettroavionico e un'officina meccanica -, fatti commessi il (omissis). Egli aveva fatto più volte accesso (cinque volte) e aveva avvicinato un barattolo, dal contenuto non conosciuto, al filtro rilevatore di fibre di amianto. All'esito degli accertamenti condotti dal personale dell'A.S.L. nella stessa data del (omissis), nei tre locali il livello di amianto disperso era risultato superiore ai limiti e il comandante del reparto era stato costretto a interdirne l'accesso, tra il (omissis) e il (omissis) successivo. Era seguita l'imputazione di sabotaggio di opere militari aggravato e continuato ex art. 167 c.p.m.p., comma 1, art. 1 c.p., comma 1, art. 47 c.p.m.p., n. 2, fatto da cui B. era stato assolto per non aver commesso il fatto dal Tribunale militare di Napoli in quanto l'unico episodio, in cui il filmato consentiva d'individuare l'imputato, era quello avvenuto nel deposito di elicotteri. Al contrario, con riferimento agli altri episodi nell'officina meccanica e nel laboratorio elettroavionico, le immagini non consentivano il riconoscimento dell'imputato, né cosa avesse fatto in quei locali. Anche con riguardo all'episodio avvenuto alle ore 13.17 del (omissis), i primi giudici ritenevano non provato il nesso di causalità e addivenivano ad assoluzione. Il Giudice di secondo grado ripercorreva l'iter processuale, indicando come il Tribunale militare di Napoli avesse assolto l'imputato dalle contestazioni mosse con la formula indicata esplicitando che, oltre alla documentazione allegata dalle parti e all'esame dei testi di lista, erano state disposte due perizie, di cui una avente carattere antropometrico - per verificare se le immagini registrate corrispondessero effettivamente a quelle dell'imputato - e l'altra sulla possibilità e sulla modalità di diffusione della polvere di amianto nell'hangar di (omissis), struttura teatro dei fatti. (All'esito del dibattimento, si era annotato che il Tribunale era giunto ad assoluzione dell'imputato). Il perito C. assumeva che la diffusione della fibra d'amianto nella sala interessata era dipesa dall'avvicinamento di essa fibra al sensore dell'impianto di rilevazione, così assumendo che non si potesse ipotizzare una contaminazione legata ai lavori programmati, né accidentale. Valori normali di amianto erano stati registrati nell'area in cui si svolgevano lavori ordinari, ma non anche in quella in cui si eseguivano lavorazioni straordinarie. Escludevano, quindi, i giudici di primo grado che si trattasse di diffusione legata alle lavorazioni o al contatto con una tuta inquinata, che aveva inciso sulla rilevazione dei sensori, come indicato in chiave difensiva, (ed) eventualità che avrebbe richiesto passaggi ripetuti nel tempo, non registrati dall'impianto di videosorveglianza. Invero, nessuna delle immagini aveva documentato un avvicinamento prolungato nel tempo di una tuta all'anzidetto sensore. La comparazione dell'esito della perizia e delle dichiarazioni testimoniali inducevano, pertanto e come anticipato, il Tribunale all'assoluzione da tutte le condotte ascritte. Impugnava la decisione il Pubblico Ministero e la Corte militare d'appello, in riforma della decisione anzidetta, condannava l'imputato per le condotte di cui ai nn. 1, 2 e 3, confermando l'assoluzione per le contestazioni residue. Spiegava, innanzitutto, il giudice a quo la ragione della rinnovazione d'ufficio dell'istruttoria dibattimentale, (La rinnovazione era stata) ritenuta assolutamente indispensabile anche in difetto di una richiesta dell'impugnante ex art. 606 c.p.p., comma 3. Corretta era, poi, stimata la qualificazione del fatto come sabotaggio che era stato realizzato, rendendo inservibili i locali per l'alterazione dei valori di amianto rilevati, azione che aveva indotto la chiusura degli stessi. In ordine alla valutazione del nucleo centrale della prova si era ritenuto che la condotta si fosse concretizzata nell'avvicinamento intenzionale al sensore dell'area dell'hangar di oggetti contenenti fibre di amianto (essenzialmente un barattolo). Le fibre erano state rilevate non in maniera omogenea, cosa che si sarebbe dovuta riscontrare, là dove la diffusione non fosse stata indotta da azione specifica. Il perito Iannaccone aveva evidenziato la congruità dell'azione ripresa dalle telecamere con la condotta contestata di diffusione delle fibre, escludendo che potesse essersi trattato dell'avvicinamento (accidentale in lavorazione) al sensore di una tuta contaminata. Quanto alla attribuibilità della condotta all'imputato erano di valenza significativa gli accertamenti svolti da C., maresciallo dei carabinieri incaricato delle verifiche antropometriche. Il perito era giunto a individuare nell'imputato il soggetto che aveva fatto accesso al sito per la compatibilità con le foto 9-14, che documentavano la descrizione dei fatti ascritti nel primo capo ai numeri 1, 2 e 3. Non era stata raggiunta certezza per le altre condotte. Per altro verso, L.P., in servizio di vigilanza ai monitor dell'impianto di videosorveglianza attivo nei locali oggetto del rilevato inquinamento, aveva percepito la presenza di un soggetto dalla condotta ritenuta anomala ed aveva azionato in diretta lo zoom della telecamera, seguendo dalla cabina del corpo di guardia l'azione posta in essere. Erano, a giudizio della Corte militare d'appello, poi, significative le deposizioni del teste F. e dello stesso L.P., che avevano riconosciuto l'imputato nelle immagini video riprese, anche in ragione delle movenze del militare. A differenza di quanto ritenuto dai primi giudici il rinnovato quadro probatorio aveva evidenziato come l'imputato fosse autore delle tre condotte ascritte e non della sola azione documentata alle ore 13:17. Si riteneva, poi, che non vi fosse dubbio sul nesso causale e che nessuna ragione, legata alle mansioni svolte, giustificasse quel gesto: egli aveva sfregato un oggetto non meglio specificato contro il sensore e lo aveva inserito in un barattolo poco prima recuperato. Il reato, poi, a dolo specifico, era ritenuto pienamente integrato ricorrendo la rappresentazione e la volizione del fatto tipico. 2. Ricorre per cassazione B.M. - con il ministero dei difensori di fiducia avvocati Franco Coppi e (avvocato) Massimiliano Strampelli e deduce quanto segue. 2.1. Con il primo motivo lamenta la violazione dell'art. 167 c.p.m.p. (sviluppando il vizio di violazione di legge e) osservando che il delitto di sabotaggio deve concretizzarsi in una condotta che realizza un danno fisico. E' il danneggiamento materiale della cosa, pertanto, il nucleo centrale che fornisce la chiave ermeneutica per ipotizzare l'inservibilità dell'opera militare. Nella specie nessun danneggiamento dell'hangar si configura nelle condotte di cui alle imputazioni numeri 1, 2, e 3 e al più si sarebbe potuta configurare la condotta di cui all'art. 635 c.p.p., comma 2, n. 3. L'hangar del resto, si osserva, aveva continuato a svolgere la sua funzione come area per il ricovero degli elicotteri, sia pur essendo stato assunto un provvedimento di sospensione da parte dell'amministrazione per ragioni di opportunità. Si insiste, dunque, nella richiesta di annullamento senza rinvio della decisione impugnata ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. l) perché il fatto non sussiste. 2.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell'art. 40 c.p. in relazione all'art. 41 c.p., comma 3, per la dedotta sussistenza di cause sopravvenute idonee eziologicamente a produrre l'evento. Si e', in particolare, prefigurata un'alterazione del sensore dell'hangar indotta dall'avvicinamento di oggetti contenti fibre di amianto. Mentre il Tribunale era pervenuto ad assoluzione dell'imputato per le condotte ascritte, la Corte d'appello è giunta a conclusione diversa, condannandolo e ritenendo sussistente il rapporto di causalità tra le condotte di cui all'art. 167 c.p.m.p. comprese tra i numeri 1- 3 e il risultato di inservibilità dell'hangar. La Corte di merito non ha, tuttavia, valutato le cause cumulative di cui ai capi 4 e 5, per le quali è giunta ad assoluzione. Non vi è stata nessuna valutazione sulla cd. concorrenza alternativa o doppia causalità per non essere stata valutata la condotta di terzi, che aveva alterato e inquinato gli ambienti dell'hangar relativamente al laboratorio elettroavionico. Eliminando la condotta dell'imputato, l'evento del sabotaggio si sarebbe comunque verificato, trattandosi di inservibilità dell'opera ex art. 167 c.p.m.p. attribuibile a terzi, diversi da B.. L'applicazione dell'art. 41 c.p., comma 2 sulle cause sopravvenute confermava la conclusione indicata. Per il difetto del nesso causale si e', dunque, richiesta una sentenza assolutoria con formula del non aver commesso il fatto. 2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione di legge per mancata sussunzione del fatto nella fattispecie di cui agli artt. 56 e 234 c.p.m.p. con erronea applicazione dell'art. 42 c.p. in ordine all'elemento soggettivo. Ha errato la sentenza nel ritenere il profitto un mero movente dell'azione là dove esso ne era il fine ultimo; pertanto, si sarebbe dovuto qualificare il reato nella forma del tentativo piuttosto che nella forma consumata. Non si sarebbe potuto configurare il fatto in difetto dell'erogazione di benefici economici. La riqualificazione determinava l'annullamento con rinvio ai sensi dell'art. 623 c.p.p., lett. c). 2.4. Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione in ordine alle dichiarazioni del perito Iannaccone e della Dott.ssa V. consulente di parte. La sentenza sconta una contraddizione con quanto affermato dal perito Iannaccone, che aveva postulato anche la possibilità che la contaminazione derivasse da contatto con una tuta inquinata. Quel giorno del resto erano diversi i soggetti presenti nell'hangar ed era possibile il loro passaggio ripetuto nei pressi dei sensori. La sentenza va, dunque, annullata con rinvio ex art. 620 c.p.p., lett. l. 2.5. Con il quinto motivo si lamenta il vizio di motivazione in ordine alla perizia antropometrica e a quanto accertato dal maresciallo C., oltre che alle dichiarazioni rese in sede di rinnovazione istruttoria. La questione riguarda l'identificazione nell'imputato del soggetto ripreso dalle immagini secondo le dichiarazioni dei testi F. e L.P.. Il perito C. è giunto alla conclusione di non poter, a parte le immagini contraddistinte dai numeri da 9 a 14, procedere alla identificazione dell'imputato con il volto del soggetto ritratto dai filmati disponibili. La Corte territoriale ha, tuttavia, in funzione della condanna, valorizzato le dichiarazioni di F. e L.P., anche ritenendole prevalenti su quanto affermato dal perito antropometrico. Il tutto senza procedere a una motivazione rafforzata. F., del resto, aveva ipotizzato un interesse al pensionamento anticipato da parte dell'imputato e L.P. era soggetto inferiore in grado e in chiara sudditanza psicologica rispetto al primo teste. 2.6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) per nullità della decisione della Corte d'appello che aveva disposto la rinnovazione istruttoria, in difetto della condizione di assoluta necessità ex art. 606 c.p.p., comma 3. La rinnovazione va oltre le premesse giurisprudenziali che hanno ispirato l'intervento riformatore. Posto il principio di presunzione di completezza dell'istruttoria dibattimentale, la rinnovazione si sarebbe potuta disporre solo in caso di assoluta necessità a fronte di prove decisive e non di mera utilità.
Considerato in diritto
I motivi di ricorso, attinenti al giudizio di responsabilità, non appaiono risolutivi con la conseguenza che la relativa reiezione determina la rilevanza della questione di costituzionalità sul trattamento sanzionatorio. Essa, pur riguardando l'entità della pena, a giudizio del collegio, per quanto si passa a esporre, rileva, per un aspetto diverso e nella parte in cui l'art. 167 c.p.m.p. non prevede un'ipotesi attenuata. Ciò per le condotte di particolare tenuità, comminando un trattamento, comunque, non inferiore ad anni otto di reclusione militare, diversamente da quanto accade per l'art. 253 c.p.. Il tema di costituzionalità appare, pertanto, rilevante e non manifestamente infondato, di guisa che va sollevata d'ufficio, in parte qua, la relativa questione. 1. Deve premettersi che l'art. 167 c.p.m.p. punisce le condotte del militare che, fuori dai casi preveduti dagli artt. 105 a 108, distrugge, rende inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle forze armate dello Stato, con conseguente punizione con la reclusione non inferiore a otto anni. La tipicità del fatto di distruzione o di sabotaggio di opere militari, prevista dall'art. 167 c.p.m.p., è sostanzialmente sovrapponibile al paradigma "comune" di cui all'art. 253 c.p., con la particolarità che l'art. 167 c.p.m.p. ha una categoria di possibili soggetti attivi più ristretta rispetto all'art. 253 c.p. e che prevede al comma 3 la punibilità anche per colpa. Il legislatore ha proposto la disposizione, creando specificamente un delitto commesso dal militare e, dunque, un "reato speciale, per categoria", parallelo; esso, tra gli effetti, ha quello di diversificare, in sostanza, la giurisdizione, in ragione della qualità del soggetto attivo. L'art. 167 c.p.m.p. incrimina la distruzione ovvero la disintegrazione o la completa eliminazione, di "opere militari" e ogni fatto che, in vario modo, le rende inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente. La definizione dei contenuti delle condotte, per quanto qui rileva, può essere così riassunta. Rendere "inservibile" comprende, secondo la tecnica di incriminazione delle fattispecie causalmente orientate, ogni comportamento idoneo a incidere sulla res, rendendola inidonea, anche solo parzialmente o temporaneamente, a essere impiegata per il suo scopo tipico. Se il fine della disposizione è di tutelare la caratteristica del bene e, dunque, il suo impiego secondo la finalità strutturale tipica, esso si deve assicurare mettendo a disposizione un apparato sanzionatorio che raggiunga obiettivo siffatto, preservando la finalità anzidetta da tutti i comportamenti che producono danno fisico ovvero una compromissione funzionale o economica, incidente sull'utilizzabilità del bene stesso. La tutela obiettiva e', pertanto, apprestata in funzione dell'uso della cosa e non solo in funzione della sua integrità patrimoniale. Può, cioè, ipotizzarsi sabotaggio anche senza siano arrecati danni veri e propri alla consistenza della res. La disposizione in analisi tutela alcune "cose" destinate a scopi militari, siano esse originariamente militari oppure appartenenti a privati, ma destinate con provvedimento dell'autorità a scopi militari o, addirittura, anche solo adoperate nell'interesse primario e per fini istituzionali delle forze armate (benché di genesi diversa e nate per diverse destinazioni). Il profilo soggettivo dell'art. 167 c.p.m.p., e', poi, costruito come dolo generico consistente nella coscienza e volontà di intervenire sulla res, con la mera consapevolezza della sua destinazione al servizio delle forze armate. Assai diffusa, pertanto, è l'idea dell'irrilevanza dello scopo del soggetto agente, il quale può spaziare dall'intenzione di danneggiare il consegnatario della res fino a conseguire anche una utilità economica o un obiettivo distinto. 2. Ciò posto i motivi di ricorso, in funzione della questione di costituzionalità e della sua rilevanza, ai fini del decidere sulla regiudicanda, salva e impregiudicata ogni ulteriore valutazione, non sono decisivi e non consentono l'annullamento della decisione impugnata. 2.1. Con il primo motivo si censura la qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell'art. 167 c.p.m.p. In ricorso, in sostanza, si è affermato che l'inservibilità funzionale-economica sarebbe stata collegata ad un atto amministrativo di interdizione dell'area. Avrebbe fatto difetto un atto che, anche in via transitoria, avesse determinato un danno fisico. Contrariamene, in difetto di danneggiamento e di evento naturalistico di danno, afferma il ricorrente, non vi sarebbe sabotaggio. L'interdizione dell'area, d'altro canto, non sarebbe stata equiparabile all'inservibilità. Il rilievo, si è già avuto modo di anticipare, è infondato. Affrontando la questione dell'inservibilità temporanea della res la Corte territoriale ha, appunto, annotato che essa non richiede necessariamente un evento di danno naturalistico e che si può configurare in tutti quei casi che determinano un'inservibilità economico-funzionale, incidente sul suo impiego, secondo la sua destinazione naturale. Non avrebbe, dunque, rilievo decisivo il difetto di un danno materiale alla res e, nella specie, al deposito dell'hangar, né il fatto che l'inservibilità sia stata prodotta attraverso un meccanismo mediato di realizzazione della lesione, ovvero il provvedimento amministrativo di interdizione della struttura. In questa logica basta qui osservare che il provvedimento assunto dal Comandante della base si è imposto quale atto dovuto a fronte della rilevazione dei valori di fibra di amianto superiori ai limiti permessi. L'inservibilità temporanea nell'uso del deposito, dunque, non è derivata dall'adozione dell'atto amministrativo, ma dalla condotta del B. che, ponendo in essere un atto tipico, ha imposto la doverosa azione di tutela del luogo di lavoro e l'interdizione dell'accesso alla struttura da parte del Comandante della base, in applicazione del principio secondo cui causa causae est causa causati. In altri termini, eliminata la condotta iniziale, si sarebbe evitato l'intero avviarsi della sequenza causale (sublata causa tollitur effectus) e non sarebbe stato necessario attivarsi per interdire l'accesso al sito in esame. Da ciò consegue l'infondatezza del motivo sviluppato. 2.2. Infondato, al pari, risulta anche l'ulteriore rilievo con cui si deduce la violazione dell'art. 40 c.p. e art. 41 c.p., comma 3, oltre al vizio di motivazione per non aver considerato nella sentenza impugnata un apporto causale ulteriore, offerto dall'azione di terzi e che si ricava dall'inquinamento degli altri ambienti (laboratorio elettroavionico e officina meccanica), inquinamento posto in essere da parte di soggetti diversi da B.. Il motivo di ricorso non è correlato alla decisione e, per altro verso, risulta intrinsecamente generico. Non sussiste, invero, la certezza che altri soggetti, diversi dall'imputato, abbiano volutamente inquinato gli ambienti del laboratorio elettroavionico e dell'officina meccanica. La decisione del Tribunale militare di pervenire ad assoluzione sul punto è motivata dalla ritenuta impossibilità di individuare con certezza il soggetto ripreso dalle registrazioni all'interno di questi due specifici ambienti della struttura. Ciò non equivale, tuttavia, a ritenere che vi fosse in positivo la prova che oltre l'imputato all'interno del deposito fossero intervenuti altri soggetti e che avesse operato una concausalità alternativa o da sola sufficiente a produrre l'evento. In questa logica non potrebbe farsi richiamo all'art. 41 c.p., comma 3, assumendo che, anche eliminando la condotta di B., l'evento si sarebbe comunque realizzato per effetto dell'azione di un terzo. Ciò sarebbe stato, invero, possibile solo richiamando una causa da sola sufficiente a determinare la lesione, dato non acquisito con incontrovertibile sicurezza all'esito dell'istruttoria ed escluso dalla Corte di appello in base a quanto emerso dalle riprese video e dalle dichiarazioni di L.P., come si avrà modo di dire. Costui aveva, infatti, negato di avere percepito l'accesso di soggetti che avessero caratteristiche fisiche incompatibili con quelle dell'imputato. Inoltre, il ricorso solleva ulteriori questioni in punto di fatto, attinenti alla configurazione dell'hangar ed all'assenza di separazione con i due locali laboratorio elettroavionico ed officina meccanica, per prospettare la possibile diffusione delle fibre di amianto da tali ambienti, la cui presenza sarebbe ascrivibile a terzi ignoti, alla restante area risultata inquinata. Si tratta di deduzione che non può accogliersi, sia perché, per quanto riportato nella sentenza impugnata sulla scorta dei dati conoscitivi offerti dalla perizia i due locali sono stati descritti come separati e distinti, sia perché nessun dato probatorio acquisito e reso disponibile per questa Corte di legittimità avvalora l'assunto difensivo, risultando l'impugnazione priva di autosufficienza sul punto. 2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione di legge e si prospetta la sussumibilità del fatto negli artt. 56 e 234 c.p.m.p., con conseguente erronea individuazione dell'elemento psicologico del reato. Secondo il ricorrente, il non essersi verificato l'inquinamento ambientale, come dimostrato dall'istruttoria, esclude possa parlarsi di sabotaggio ed avrebbe dovuto indurre a ravvisare il mero tentativo di truffa militare. Peraltro, è stato frainteso il concetto di profitto, non considerato come fine ultimo dell'azione. Anche il motivo in esame non è risolutivo. Si è già avuto modo di anticipare che nella tipicità del fatto in esame si punisce ogni condotta causalmente orientata a determinare una inservibilità del bene, sia producendo un danno materiale, sia una compromissione funzionale che ne inibisce l'uso, secondo la sua naturale destinazione. L'azione non e', dunque, delineata dalla norma incriminatrice come volta a realizzare un profitto economico, che al più potrebbe caratterizzarne il movente. La condotta incide, piuttosto, sul bene con il proposito tipico di renderlo inservibile, danneggiando il servizio. Questo connotato contraddistingue il fatto di sabotaggio e ne definisce il dolo relativo, ancorandolo alla rappresentazione e volizione dei suoi elementi costitutivi e concentrando il nucleo di tutela sul danneggiamento o sull'inservibilità del bene militare, a prescindere dai fini intimistici che sorreggono l'azione e che, al più, possono rilevare come moventi del gesto antigiuridico. L'agente, in altri termini, non pone in essere artifici o raggiri per il solo fine di procurare a sé o altri un profitto, ma si attiva, attraverso una condotta materiale, per rendere inservibile la res militare. Ciò basta a integrare il reato in esame, per l'impossibilità di fare uso della res stessa, impossibilità che consegue alla condotta e che è oggetto della consapevolezza e della volontà dell'autore, integrando il dolo. Esso, allora, non comprende, nello spettro dell'antigiuridicità, eventuali finalità ulteriori e individuali della condotta e rende irrilevante che il ricorrente non abbia conseguito utilità economiche, come ritenuto correttamente dalla Corte di appello. 2.4. Il quarto motivo è parimenti infondato. Con esso si deduce il vizio di motivazione in ordine alle dichiarazioni del perito Iannaccone e della Dott.ssa V., consulente di parte. Non sussiste, contrariamente a quanto dedotto, alcuna contraddizione tra quanto affermato dal primo, che aveva rilevato la presenza delle fibre di amianto e la ricostruzione della consulente tecnica di parte, V., che aveva ipotizzato che i risultati individuati dal perito fossero originati dalla bonifica del sito. Ricorda il ricorrente che la consulenza a discarico aveva rilevato come i cd. cluster (cioè amianto in forma di fibra aggregata), trovati a distanza anche di tre mesi, fossero indicativi di attività di lavoro su materiali contenenti amianto. I cluster, invero, non erano stati rinvenuti presso i rilevatori di amianto oggetto di manipolazione e ciò escludeva che vi fosse stata, secondo la tesi a discarico, un'attività di sfregamento. Il perito, in definitiva, dopo aver dato atto di un ventaglio di ipotesi, aveva sostenuto che, per convenire con la tesi difensiva, si sarebbe dovuto postulare il passaggio di una tuta inquinata, mossa per più tempo, così delineando e concretizzando un'ipotesi decisamente remota. Inoltre, il teste F., durante il suo esame dibattimentale, aveva riferito indubbiamente della presenza di più persone al momento delle rilevazioni, oltre che dello stesso rilievo di tracce significative di amianto sugli elicotteri PH139. Nessuna attività, osserva il ricorrente, né motivazione era stata sviluppata, al contrario, sulla catena di custodia dei filtrini, altro aspetto rilevante che avrebbe potuto attestare come l'inquinamento fosse avvenuto in un momento antecedente all'intervento di B.. La Corte di appello ha motivatamente aderito alle conclusioni rassegnate dal perito, per il quale la tipologia di condotta posta in essere da B., come attestata dalle immagini estratte dal sistema di videosorveglianza, ove era visibile l'azione specifica di inserimento del sensore di rilevazione all'interno di un oggetto, quale un barattolo, era congrua e adeguata a determinare l'alterazione dei valori rilevati. Si trattava, infatti, di una condotta che, per caratteristiche meccaniche ed estensione temporale, era idonea a produrre i valori alterati riscontrati sul filtro del sensore. Al contempo, sulla scorta di questo quadro istruttorio era stato escluso che l'inquinamento fosse dovuto all'avvicinamento al sensore stesso di una tuta inquinata, evenienza esclusa dalle videoriprese, che avevano documentato nella sua continuità quanto accaduto quel giorno e nella fascia oraria interessata. La sentenza ha altresì richiamato la ricostruzione alternativa della consulente V., spiegando le ragioni della ritenuta infondatezza, poiché le guarnizioni in gomma e amianto, secondo quanto accertato dal perito, avrebbero dovuto subire uno sfregamento prolungato, aspetto non emerso probatoriamente ed escluso dalla stessa sequenza ripresa. Altrettanto privo di vizi risulta l'apparato argomentativo in ordine alle dichiarazioni del teste C.. I contrari rilievi sviluppati in ricorso non assumono sul tema carattere di decisività, né altra valenza risolutiva e si traducono in un'astratta e generica diversa valutazione del risultato della prova, secondo un giudizio non ammissibile in sede di legittimità. E' stato, infatti, assodato che l'unico soggetto presente in base -che presentasse caratteristiche compatibili con l'autore della condotta ripresa - era, appunto, B.. Il giudizio è stato apprezzato dalla Corte di appello come viepiù concludente alla luce della cerchia limitata di soggetti presenti alla base e comparati e della conferma mediante la perizia antropometrica di quella indicazione di corrispondenza per l'imputato, avvalorata dalla esclusione della compatibilità per tutti gli altri soggetti, aventi tra l'altro capigliatura differente. I fotogrammi n. 9-14 avevano ripreso la scena ed erano stati estratti dagli ingrandimenti operati da L.P. in diretta durante lo svolgimento dell'azione incriminata. Costui, sentito come teste, era in servizio di videosorveglianza e seguiva in estemporanea, attraverso i monitors allocati nel corpo di guardia, l'andamento dell'azione, insospettendosi e inquadrando l'immagine all'interno del sito. Le sembianze fisiche e l'andamento, per le modalità della deambulazione avevano, invero, rivelato allo stesso L.P. e a F. che il soggetto ripreso era, appunto, B.. Ne' vale, per contrastare la apprezzata convergenza tra l'apporto dichiarativo dei due testi anzidetti, evocare una ipotizzata sudditanza psicologica di L.P. a F., onde inferire la sovrapponibilità delle rispettive dichiarazioni, non svolgendo il grado militare, in questa prospettiva ed a fronte della responsabilizzazione e dell'impegno assunto con l'ufficio di testimone, nessuna rilevanza, né incidenza, in difetto di ogni elemento che potesse far ritenere concertazioni o preordinazioni del relativo portato dichiarativo. In questa logica risulta, pertanto, corretto e immune da censure il giudizio di attendibilità operato dai giudici territoriali. 2.5. Con il quinto motivo si lamenta il vizio di motivazione, in ordine alla perizia antropometrica e a quanto affermato dal maresciallo C., oltre che in ordine alle dichiarazioni rese in sede di rinnovazione istruttoria. La questione riguardava l'identificazione nell'imputato del soggetto ripreso dalle immagini secondo le dichiarazioni dei testi F. e L.P.. Secondo il ricorrente, sebbene il perito C. fosse giunto alla conclusione di non poter, a parte le immagini contraddistinte dai numeri da 9 a 14, procedere alla identificazione dell'imputato nel volto del soggetto ritratto dai filmati disponibili, la Corte territoriale ha pronunciato condanna in base alle dichiarazioni di F. e L.P., ritenendole prevalenti su quanto affermato dal perito in sede di analisi antropometrica. Il tutto senza procedere a una motivazione rafforzata. Il teste F., si indica in ricorso, aveva ipotizzato un interesse al pensionamento anticipato da parte dell'imputato e L.P. era soggetto inferiore in grado e in chiara sudditanza psicologica. Anche il rilievo in esame risulta infondato e, per più versi, inammissibile. La motivazione è adeguata anche sotto il profilo degli obblighi di esplicitazione rafforzata, avendo in sostanza chiarito la Corte territoriale come il giudizio espresso nella perizia antrometrica fosse stato, in realtà, ampiamente confermato dalle dichiarazioni dei due testi indicati. Sia F. che L.P. avevano, invero, riconosciuto l'imputato e quella spiegazione era tale da soddisfare gli obblighi di motivazione rafforzata che competevano al Giudice di secondo grado. Sulle possibili intese e su un condizionamento di L.P., inferiore in grado, basta qui rilevare che il giudizio riguarda il merito della valutazione di attendibilità e rinviare a quanto già esplicitato, chiarendo che non vi erano elementi che in concreto potessero far ritenere che le due deposizioni avessero concertato o precostituito il relativo portato descrittivo o che l'inferiore in grado fosse stato condizionato dal superiore. Il motivo, pertanto, va respinto. 2.6 Quanto alla rinnovazione istruttoria disposta dalla Corte militare d'appello, oggetto del sesto motivo di ricorso, la sentenza impugnata fa corretta applicazione dei principi che ne disciplinano l'attuazione (fl. 28 sent. impugnata). Si deve evidenziare, invero, che essa rinnovazione è sempre possibile ex officio (art. 603 c.p.p., comma 3), anche in difetto di una richiesta di parte. Si tratta, infatti, di uno strumento di integrazione della cognizione processuale che spetta al giudice per chiarire lo spessore istruttorio e dimostrativo dell'attività svolta. Alla luce del principio di completezza dell'attività istruttoria svolta in primo grado deve ribadirsi che la rinnovazione è un istituto di carattere eccezionale, cui il giudice può fare ricorso, in attuazione della sua discrezionalità, nei casi in cui ritiene di non poter decidere allo stato degli atti (S.U. n. 12602 del 17/12/2015, Ricci, Rv. 266820). La relativa decisione è insindacabile, in quanto rimessa alla discrezionalità del decidente, ad eccezione dei casi in cui essa si trasformi in un atto d'arbitrio, funzionalmente non collegato alla decisione da assumere. Esiste, pertanto, uno stretto legame funzionale tra la rinnovazione delle prove e la decisione. Inoltre, avendo proceduto la Corte di appello alla riforma parziale di sentenza assolutoria, la rinnovazione dell'istruttoria in riferimento alle prove dichiarative ha dato più ampia attuazione al contraddittorio tra le parti ed attuazione al principio di oralità a garanzia dei diritti difensivi dell'imputato, che non ha quindi nessun titolo per dolersene, essendo stato rispettato il disposto dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis. Ne' il giudizio di decisività delle prove rinnovate risulta smentito da argomentazioni concrete e valutabili in questa sede. 3. La questione di legittimità costituzionale. 3.1. La difesa con separata memoria, in data 11/3/2021, ha eccepito l'incostituzionalità della disposizione di cui all'art. 167 c.p.m.p., per violazione degli artt. 3,25 e 27 Cost. Si è soffermata sull'esegesi della norma e sulla difficoltà di ricostruirne un'interpretazione costituzionalmente orientata, in relazione al principio di tassatività, determinatezza e prevedibilità della relativa incriminazione. Chiarito che il bene tutelato è il servizio militare ha osservato che non si considera il significato polisemico di esso. La norma risulterebbe sempre protesa a sanzionare la violazione del servizio a prescindere dalla violazione dei doveri relativi al servizio stesso e dall'effettivo nocumento apportato al suo buon andamento. Si sarebbe reso necessario costruire il dolo, dunque, in termini di specificità o intenzionalità del medesimo. Il trattamento sanzionatorio risultava, poi, lontano dai valori costituzionali e in contrasto con i principi di proporzione ed eguaglianza. Da ciò una funzione essenzialmente intimidatoria della pena e la violazione dell'art. 3 Cost. in relazione alla sanzione comminata dall'art. 168 c.p.m.p. La individuazione di un limite edittale fisso, che può risultare sproporzionato rispetto al fatto di reato, risulta violativo degli artt. 3 e 27 Cost. Ricostruiti gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale in materia, si è osservato, ancora, che una pena fissa è anacronistica e sproporzionata rispetto alla violazione, sicché si individua quale tertium comparationis l'art. 168 c.p.m.p. 3.1. La questione di legittimità costituzionale, nei termini prospettati, pur risultando rilevante, appare manifestamente infondata. Essa risulta in concreto rilevante, poiché dal suo accoglimento potrebbe apparire necessaria una sua applicazione e la rideterminazione del trattamento sanzionatorio cui è stata commisurata la risposta penale. Nei termini in cui, tuttavia, è impostata, la pregiudiziale di costituzionalità è manifestamente infondata. Essa si incentra sull'entità del trattamento sanzionatorio, là dove la commisurazione delle pene, nella creazione della figura astratta di reato, è affidata alla discrezionalità del legislatore, poiché involge valutazioni e aspetti tipicamente politici, con il limite che l'anzidetta discrezionalità non si traduca in arbitrio. Le scelte nella determinazione del quantum sanzionatorio sono, pertanto, censurabili solo nei casi in cui trasmodino nella manifesta irragionevolezza. Ciò avviene ad esempio al cospetto di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee, non sorrette da una giustificazione razionale (Corte Cost. 161 del 2009, n. 324 del 2008, 22 del 2007 e 394 del 2006). - Il richiamo dell'art. 168 c.p.m.p. come tertium comparationis, d'altro canto, non ha rilevanza, non palesandosi, dal confronto tra norme, (una condizione di) la determinazione, tra fattispecie tendenzialmente omogenee, di un trattamento sanzionatorio sperequato e definito irrazionalmente, in una logica comparativa sulla tipicità dei fatti. Da ciò discende la manifesta infondatezza della questione secondo quanto la Corte costituzionale ha già ritenuto (con sentenza n. 9 del 1972 e n. 93 del 1972), laddove ha affermato che l'equiparazione quoad poenam di ipotesi criminose di natura omogenea, sebbene non ugualmente gravi, rientra nella discrezionalità del legislatore. 3.2. Il tema di costituzionalità, piuttosto, risulta rilevante e non manifestamente infondato sotto altro aspetto, con la conseguenza che va sollevata d'ufficio la relativa questione. Invero, in punto di rilevanza, là dove fosse accolta la questione relativa si potrebbe determinare un effetto favorevole diretto sulla determinazione del trattamento penale del fatto. L'art. 167 c.p.m.p. prevede, invero, una pena non inferiore ad anni otto di reclusione militare, per i fatti di sabotaggio, senza contemplare ipotesi attenuate del fatto. Al contrario, l'ipotesi analoga, che incrimina la condotta comune, inserita nel codice penale, per il sabotaggio prevede all'art. 253 c.p., una pena identica, ma autorizza il giudice ad applicare la circostanza attenuante comune della cd. lieve entità. La rilevanza si configura come necessità di applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione e si riconnette all'incidenza della pronuncia della Corte costituzionale su qualsiasi tappa di tale percorso. L'applicabilità della disposizione censurata e', perciò, sufficiente a fondare l'incidenza stessa della questione proposta (sentenze n. 254 del 2020 e n. 174 del 2016) sulla decisione da assumere. Là dove fosse accolta l'impostazione che l'art. 167 c.p.m.p. è norma incostituzionale, nella parte in cui si censura la condotta di sabotaggio, senza prevedere un'ipotesi attenuata - come al contrario si prevede per il sabotaggio ordinario, che rinvia all'applicazione dell'art. 311 c.p. e alla circostanza attenuante anzidetta - l'effetto conseguibile sarebbe non marginale per l'applicazione dell'elemento circostanziale, con diversa e meno affittiva determinazione del trattamento sanzionatorio. Lo scrutinio della Corte costituzionale, del resto, si arresta se il rimettente ha offerto una motivazione non implausibile in ordine alla sussistenza delle condizioni dell'azione, non potendo la Corte sostituire la propria valutazione a quella già compiuta dal giudice a quo, eventualmente anche in via implicita, con il supporto di argomenti non arbitrari (sentenze n. 241 del 2016, n. 120 del 2015 e n. 241 del 2008). Solo la manifesta implausibilità della motivazione del rimettente, che ricorre quando nessun dubbio possa nutrirsi sul punto, potrebbe riflettersi sulla rilevanza della questione incidentale prospettata (sentenza n. 154 del 2015). Quanto alla "non manifesta infondatezza" deve osservarsi, come anticipato, che per l'art. 167 c.p.m.p. sussiste l'anzidetta disomogeneità di trattamento che non trova una giustificazione razionale. La questione non sarebbe superabile in via d'interpretazione, non sussistendo, nel sistema, un controllo di costituzionalità cd. diffuso, attribuito al giudice ordinario che lo legittimi alla disapplicazione della norma ritenuta non conforme a Costituzione ovvero che renda applicabili disposizioni - che pur alimentate da omogeneità e identità di ratio - non sono espressamente richiamate dal precetto della cui legittimità costituzionale si dubita. Le due norme (art. 253 c.p. e art. 167 c.p.m.p.) sono essenzialmente sovrapponibili nella struttura e in punto di tipicità. Unico aspetto che sembra diversificarne i paradigmi di incriminazione è che, in definitiva, il sabotaggio militare è condotta posta in essere dal militare su res militare, mentre il sabotaggio ordinario è delitto, in generale, posto in essere da chiunque su res militare. La fattispecie, prevista dall'art. 253 c.p., rientra, pertanto, nell'ambito dei fatti che possono beneficiare dell'attenuante della cd. lieve entità, per effetto del richiamo espresso operato all'elemento circostanziale di specie. L'art. 311 c.p. stabilisce, invero, che le pene comminate per i delitti di cui al titolo I libro II - delitti tra cui rientra anche il sabotaggio comune - sono diminuite quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo il fatto risulti di lieve entità. Il combinato disposto degli artt. 253 e 311 c.p. e, in particolare, la norma da ultimo indicata si rivela, pertanto, idonea ad assumere il valore di tertium comparationis, nella vicenda oggetto d'esame. L'art. 253 c.p. non risulta una figura residuale, ma un modello di incriminazione strettamente affine e sostanzialmente omogeneo rispetto al sabotaggio militare, con il tratto specializzante che per quest'ultima disposizione (art. 167 c.p.m.p.) non trova applicazione la circostanza attenuante più volte richiamata. In una lettura comparata tra le disposizioni si comprende come non emergano elementi di differenziazione tra i due paradigmi normativi (sabotaggio ordinario e militare in senso stretto) tali da giustificare l'esclusione dell'applicazione della circostanza attenuante in questione, per l'uno (il delitto militare) e ammetterla, per l'altro (il delitto comune). Si assiste, così, a una violazione dei principi di ragionevolezza ed eguaglianza e si esclude, nella stessa logica normativa, che possano validamente ritenersi esistenti proiezioni della finalità delle due norme tali da fondare razionalmente un trattamento differenziato. Ammesso che si intenda giustificare un trattamento penale di maggiore rigore per il sabotaggio militare, in considerazione della poliedricità del bene protetto in collegamento con la qualità del soggetto attivo del reato e della necessità di tutelare nella sua interezza il servizio militare e la sua integrità, specie alla luce della qualità dell'agente, non si spiegherebbe, comunque, la scelta di riservare alla sola figura adelfa, di sabotaggio comune, un'attenuante come quella della lieve entità del fatto, che incide sulla portata lesiva concreta ed oggettiva della condotta. Del resto una riduzione di offensività del bene protetto non può in assoluto escludersi anche in riferimento al reato di sabotaggio militare, specie quando, come nel caso di specie, il bene sia reso solo temporaneamente inservibile in assenza di un pregiudizio permanente ed irreversibile e di una qualsiasi compromissione di altri beni giuridici tutelati, quali il patrimonio, oppure la salute o l'integrità personale. Da ciò il dubbio di una possibile irrazionalità del quadro normativo e di una conseguente lesione del valore di eguaglianza sostanziale e di ragionevolezza, sancito dall'art. 3 Cost. La mancata previsione della circostanza in esame, per il sabotaggio militare, non ne fa intendere immediatamente la ratio, specie alla luce della circostanza che la proiezione della tutela penale deve, comunque, essere coerente con la finalità dell'incriminazione e deve esprimere un rapporto di proporzione e adeguatezza che sia collegato all'entità concreta della aggressione al bene protetto. Del resto, la circostanza attenuante in esame ha lo scopo di mitigare il trattamento sanzionatorio base, attribuendo al giudice il potere discrezionale (e non arbitrario) di attenuare la sanzione anzidetta, adeguando pena e fatto, nella logica proporzionale che deve caratterizzare la risposta punitiva. La finalità perseguita dalla circostanza, infatti, - che rientra tra gli elementi cd. accessori a struttura indefinita - si collega, allo spessore del "danno criminale" o "del pericolo". Sarebbe, pertanto, non risolutivo il richiamo alla diversità del soggetto agente per giustificare la differenziazione nel trattamento stesso, emergendo piuttosto come l'attenuante, nella tipicità descrittiva, sia legata allo spessore offensivo della condotta. Là dove la risposta penale, al contrario, sia fissa e inderogabile e sia improntata nello stesso minimo edittale ad asprezza eccezionale essa rischia di perdere il suo profilo di duttilità dinamica e di adattarsi solo in parte alla varietà delle situazioni che astrattamente possono rientrare nell'ambito di applicazione del paradigma legale d'incriminazione. La circostanza attenuante è elemento accessorio della condotta e, a fronte di incriminazioni a condotta multipla, essa va comparata alla singola azione posta in essere e all'entità della lesione realizzata. Si comprende, allora, come la pena fuoriesca da una prospettiva generalizzante, accomunando in maniera indifferenziata le fattispecie che, congiuntamente o alternativamente, compongono l'incriminazione e si adegui esclusivamente all'azione realizzata in concreto, in una logica di proporzione corrispettiva tra fatto e lesione, rapporto essenzialmente interno al paradigma legale. Un trattamento eccessivamente severo, non mitigabile in funzione del concreto disvalore del fatto e non adeguabile, in presenza delle medesime condizioni sostanziali, alla sua tenuità, rischia di violare anche l'art. 27 Cost., comma 3, presentando al colpevole una situazione percepita come ingiusta e, come tale, inidonea ad attuare la tipica finalità di rieducazione (sentenze n. 341 del 1994 e 343 del 1993). La pena si consoliderebbe come ritorno a una sola concezione etica e come attuazione d'un rapporto punitivo che si traduce in una pura matrice retributiva. Essa non sarebbe avvertita come adeguata nel suo operare dall'alto e finirebbe, in questa logica, per presentare un solo volto nella complessa dinamica del suo operare. Si finirebbe, cioè, per valorizzare il solo aspetto autoritativo che la muove, tenendosi discosti dalle finalità parallele, oggetto di presidio superprimario, tra cui, in primo luogo, il fine di rieducazione, cui è ispirato l'intero apparato esecutivo. Questa condizione non si rivelerebbe sussistente per il cittadino comune che, commettendo il delitto di cui all'art. 253 c.p., ben potrebbe beneficiare della circostanza di cui all'art. 311 c.p. della lieve entità del fatto. Quello descritto, pertanto, risulta uno statuto che rischia di ledere il principio di eguaglianza e di non disparità di trattamento per situazioni caratterizzate da nuclei di tutela strutturalmente omogenei, in funzione dell'incriminazione. In altri termini una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del 1994). L'esigenza di mobilità, o individualizzazione, della sanzione - e la conseguente attribuzione al giudice, nella sua determinazione in concreto, di una certa discrezionalità nella commisurazione tra il minimo e il massimo previsti dalla legge costituisce naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d'uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale, rispetto ai quali l'attuazione di una giustizia riparatrice e distributiva esige la differenziazione più che l'uniformità (sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963). Essenziale a garantire la compatibilità della pena con il "volto costituzionale" della sanzione penale è che essa non risulti manifestamente sproporzionata per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato, tanto da vanificare lo stesso obiettivo di "rieducazione" del reo, imposto dall'art. 27 Cost., comma 3. La Corte costituzionale ha spiegato, altresì, che "l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento - contribuisce da un lato, a rendere quanto più possibile "personale" la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall'art. 27, comma 1; nello stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile "finalizzata", nella prospettiva dell'art. 27 Cost., comma 3. Il principio d'uguaglianza trova in tal modo dei concreti punti di riferimento, in materia penale, nei presupposti e nei fini (e nel collegamento fra gli uni e gli altri) espressamente assegnati alla pena nello stesso sistema ordinamentale. L'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, "proporzione" di essa rispetto alle "personali" responsabilità e alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale" (sentenza n. 50 del 1980). La conclusione è nel senso che "in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il "volto costituzionale" del sistema penale; ed il dubbio d'illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che,- per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente "proporzionata" rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato" (richiami completi sono in: Cass. Ord. n. 52613 del 6/7/2017 che ha rimesso la questione di legittimità costituzionale del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, u.c. e art. 223, u.c., - recante "Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa"-, nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e della incapacità a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, questione accolta con sentenza n. 222 del 2018). Ne' convince la tesi esposta dal Procuratore generale sulla questione, che ha ritenuto esistente, tra i fatti di cui agli artt. 169,168 e 167 c.p.m.p., un crescendo di tutela penale e, per l'effetto, di tutela sanzionatoria. La disomogeneità strutturale tra paradigmi esclude che si possa condividere l'impostazione prospettata, non rilevando qui la diversità di trattamento penale, ma la mancata previsione di una circostanza attenuante che possa trovare applicazione, anche per il reato militare, nei casi di lieve entità del fatto. L'art. 167 c.p.m.p., si è osservato da parte del Procuratore generale, sottratta l'ipotesi della distruzione fisica, raccoglie una serie di condotte che realizzando un'inservibilità temporanea della res, incidono sulla durata della pena e sull'astratta comminatoria di legge. L'impianto codicistico avrebbe, pertanto, una sua coerenza. Si partirebbe dal danneggiamento sino a giungere alle condotte di maggiore spessore e di diversa lesività. La questione, ritiene il Collegio, non sia correttamente impostata, neppure per l'ipotesi indicata rispetto alla quale la questione di legittimità è sollevata d'ufficio. La circostanza attenuante della particolare tenuità del fatto riguarda, invero, le singole fattispecie. Anche a fronte di un fatto tipico di struttura differenziata e che raccoglie un insieme di fattispecie, in un crescendo di tutela, non può escludersi la possibilità che si debba configurare una lesività di esso, caratterizzata da forme di aggressione graduali al bene giuridico, che aprono spiragli per ritenere che la condotta nella sua tipicità sia, comunque, da recuperare a forme attenuate di aggressione al bene giuridico, secondo quanto si è avuto modo di dire. Da ciò discende che la tenuità del fatto va parametrata alla singola condotta e al danno che essa realizza. Alla luce di quanto premesso, la questione descritta risulta rilevante e non manifestamente infondata e va, pertanto rimessa al giudizio della Corte costituzionale. Là dove fosse accolta, legittimerebbe il Giudice a verificare se e in che termini la condotta tenuta da B. possa rientrare nei fatti di particolare tenuità, così incidendo sul trattamento sanzionatorio della condotta ascritta e ritenuta a suo carico. In particolare, il quesito posto riguarda l'art. 167 c.p.m.p. nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando, per la natura, la specie, le modalità ovvero le circostanze dell'azione o la particolare tenuità del danno il fatto risulti di particolare tenuità.
P.Q.M.
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 167 c.p.m.p., in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui non prevede nell'ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità attenuazioni della pena per fatti di lieve entità. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. Ordina che a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al ricorrente al procuratore generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento.
30-09-2021 20:24
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