Il mobbing militare.
Cons. Stato Sez. II, Sent., (ud. 13-04-2021) 12-05-2021, n. 3770
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7171 del 2013, proposto dal sig.-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avv. Angelo Fiore Tartaglia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in Roma, viale delle Medaglie d'Oro, n. 266
contro
Ministero della Difesa e Stato Maggiore della Marina Militare, in persona del legale rappresentante pro tempore, ex lege rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati presso gli Uffici della stessa, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12
per l'annullamento e/o la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la -OMISSIS-, resa tra le parti, con cui è stato respinto il ricorso R.G. n. -OMISSIS-, proposto dal sig. -OMISSIS-per l'accertamento del diritto al risarcimento dei danni conseguenti alla condotta della P.A. che ha comportato la lesione del diritto alla riservatezza ed all'identità personale del ricorrente, nonché la lesione delle sue chances di progressione in carriera.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore della Marina Militare;
Visti la memoria e i documenti depositati dalla difesa erariale;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 25 del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con L. 18 dicembre 2020, n. 176;
Visto l'art. 4 del D.L. 30 aprile 2020, n. 28, convertito con L. 25 giugno 2020, n. 70;
Relatore nell'udienza del giorno 13 aprile 2021 il Cons. Pietro De Berardinis ed udito per l'appellante l'avv. Angelo Fiore Tartaglia, in collegamento da remoto in videoconferenza;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
-OMISSIS-1. L'appellante, sig. -OMISSIS-, Sottufficiale della Marina Militare con il grado di Capo di 2^ -OMISSIS-, in servizio presso la base navale di -OMISSIS-, espone di essersi recato il -OMISSIS- presso il Centro Trasfusionale della Marina Militare per donare il proprio sangue, e di aver appreso, a seguito del prelievo, di essere -OMISSIS-per "-OMISSIS-".
1.1. In data -OMISSIS- l'esponente si sottoponeva a visita di controllo di un pregresso trauma presso la Commissione Medico Legale della base di -OMISSIS-: in tale occasione veniva indotto dai sanitari a rendere nota la propria situazione -OMISSIS-, tanto da autorizzare la comunicazione del suo stato di -OMISSIS-.
1.2. Successivamente il militare aveva modo di lamentare come il trattamento dei propri dati sensibili attinenti allo stato di salute effettuato dall'Amministrazione di appartenenza (Ministero della Difesa) non rispettasse la normativa sulla privacy; in particolare, dopo la comunicazione e l'inserimento in via informatica nell'archivio nominativo del personale, il suo stato di -OMISSIS- sarebbe divenuto accessibile alla generalità del personale sanitario medico ed agli stessi infermieri. Per conseguenza, egli sollecitava più volte l'intervento del Garante per la protezione dei dati personali.
1.3. L'Ufficio del Garante si attivava ed emanava un provvedimento con cui impartiva al Ministero istruzioni sulle modalità del trattamento dei dati; senonché - lamenta il militare - neppure a seguito di siffatto intervento l'Amministrazione della Difesa avrebbe conformato il trattamento dei suoi dati sensibili alla normativa sulla privacy.
2. Ritenendo, pertanto, di essere stato leso dalla condotta dell'Amministrazione, il sig. -OMISSIS-, all'esito di vicende analiticamente descritte nell'appello, presentava ricorso al T.A.R. -OMISSIS- per ottenere la condanna dell'Amministrazione stessa al ristoro dei seguenti danni:
a) il danno non patrimoniale per lesione dei diritti alla riservatezza ed alla dignità personale, perché la P.A. avrebbe trattato i dati attinenti al suo stato di salute in spregio alle regole dettate per i dati cd. supersensibili dalla normativa di riferimento e, in specie, senza adottare idonee misure di sicurezza e senza impedire che tali dati fossero facilmente accessibili nell'ambiente militare, come si evincerebbe anche dai provvedimenti emessi dal Garante. Il militare ha lamentato di aver patito un'emarginazione per effetto della conoscenza nell'ambiente militare delle sue condizioni di salute;
b) il danno per la lesione delle chances di progressione in carriera, poiché il Ministero della Difesa, nell'indire un concorso straordinario per il reclutamento di tre Guardiamarina, gli avrebbe precluso la partecipazione allo stesso, inserendo nel bando una clausola sulla produzione da parte dei candidati di certificazione medica attestante l'accertamento della -OMISSIS- per -OMISSIS- -OMISSIS-.
2.1. Con sentenza n. -OMISSIS- l'adito T.A.R. -OMISSIS-, Sez. II, dopo aver qualificato l'azione del ricorrente, in base agli elementi da questi forniti, in termini di azione di risarcimento del danno da "mobbing lavorativo", con conseguente responsabilità contrattuale dell'Amministrazione datrice di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c., ha respinto il ricorso.
2.2. In particolare, il primo giudice ha ritenuto:
- che nella fattispecie esaminata non sussistessero i presupposti del mobbing ed anzi i fatti acquisiti al giudizio avessero significato antitetico, tanto da richiamare la (presunta) concessione del cd. equo indennizzo in favore del militare;
- che l'impossibilità di partecipare al concorso per i tre posti da Guardiamarina dipendesse da una clausola del bando rimasta inoppugnata e riguardasse comunque tutta la platea degli aspiranti, e che la suddetta clausola fosse in ogni caso ragionevole, attesa la natura delle mansioni sanitarie messe a concorso;
- che il ricorrente avesse evocato un trattamento illecito dei dati personali senza darne dimostrazione e che non fosse stata neppure provata la lesione del diritto della personalità, essendo anzi emerso che, a seguito dell'intervento del Garante per la Privacy, l'Amministrazione si era uniformata alle direttive del Garante stesso;
- che la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale fosse generica nell'an e nel quantum, e che non fosse stata data dal ricorrente alcuna prova di un concreto pregiudizio derivante dall'asserita lesione del diritto della personalità;
- che per quanto riguarda infine il danno da perdita di chances e da mancata progressione in carriera, il ricorrente non avesse fornito alcuna prova né della lesione al diritto vantato, né del pregiudizio (di tipo economico) che avrebbe subito.
3. Avverso l'ora vista sentenza è insorto il sig. -OMISSIS-, impugnandola con l'appello in epigrafe e chiedendone la riforma.
3.1. A supporto del gravame, il militare ha dedotto le censure di erroneità della sentenza impugnata, carenza, illogicità, apoditticità e genericità della motivazione; manifesta illogicità, contraddittorietà, incoerenza, irragionevolezza, sviamento, ingiustizia manifesta; violazione dell'art. 32 Cost., del D.Lgs. n. 196 del 2003 (cd. Codice privacy), degli art. 5 e 6 della L. n. 135 del 1990, dell'art. 15, comma 3, della L. n. 359 del 1990, degli artt. 10, 11 e 12 del Codice di deontologia medica (in tema di segreto professionale nell'esercizio della professione medica), del d.m. 13 aprile -OMISSIS-, n. 203, del D.M. 31 marzo 2008 (recante l'istituzione del sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi da -OMISSIS-) e delle Linee guida di comportamento degli operatori sanitari per il controllo delle infezioni da -OMISSIS-.
3.2. L'appellante lamenta anzitutto di non essere stato adeguatamente informato dalla P.A. in ordine all'obbligatorietà o meno di rendere noto il suo stato di -OMISSIS-; inoltre i dati sugli accertamenti sanitari da lui effettuati sarebbero circolati all'interno della P.A. senza rispetto della normativa posta a tutela della riservatezza delle persone -OMISSIS-.
3.2.1. In particolare, da un lato i verbali e gli atti relativi agli accertamenti sanitari eseguiti nei riguardi del sig. -OMISSIS- dalla Commissione medico legale del Comando di appartenenza e inviati all'Ispettorato di Sanità della Marina Militare conterrebbero dati sanitari ulteriori rispetto al giudizio medico-legale formulato (l'unico dato da indicare nel caso di specie) e riguardanti l'esame clinico, lo stato attuale, l'esame obiettivo ed il giudizio diagnostico in ordine all'infezione da -OMISSIS-. Dall'altro, gli atti relativi a detti accertamenti sarebbero stati trasmessi con modalità tali da rendere indirettamente intelligibile la diagnosi riscontrata. Ancora, le informazioni sullo stato di salute dell'appellante sarebbero circolate in modo illecito all'interno del Ministero della Difesa (poiché le stesse avrebbe dovuto essere limitate al solo giudizio medico-legale di accertata temporanea inidoneità al servizio).
3.2.2. A conferma di quanto appena detto, il Garante per la Privacy avrebbe rilevato la fondatezza del reclamo del sig. -OMISSIS-, inibendo alla P.A. ulteriori trasmissioni dei dati sul suo stato di salute senza il rispetto della normativa in tema di protezione dei dati personali, vietando ogni ulteriore utilizzo dei predetti dati sensibili, a parte il giudizio di temporanea inidoneità al servizio, obbligando la P.A. ad adottare misure per la conservazione dei documenti contenenti i dati in discorso e dettando all'Ufficio del ricorrente (Comando base navale di -OMISSIS-) ulteriori prescrizioni.
3.3. Tutti gli elementi ora riferiti proverebbero la lesione della privacy del militare, cosicché il primo giudice avrebbe errato nell'affermare che la stessa non sarebbe stata dimostrata.
3.4. Tanto premesso, l'appellante si preoccupa poi della qualificazione giuridica dell'illecito ascritto alla P.A., configurandolo in termini di condotta di mobbing tenuta dall'Amministrazione a suo danno, con conseguente responsabilità contrattuale dell'Amministrazione datrice di lavoro ex art. 2087 c.c.: la divulgazione di informazioni avrebbe leso il militare sia in quanto rivolta a terzi, così ledendo la corretta percezione sociale della sua identità personale, sia in quanto rivolta allo stesso militare, che si sarebbe visto discriminato in ogni ambito della vita sociale con conseguenti ripercussioni anche sul piano psicologico. La P.A. avrebbe poi violato il principio di finalità, poiché i dati acquisiti sarebbero stati impiegati per un uso diverso da quello per cui era stato prestato il consenso.
3.4.1. L'appellante si premura, ancora, di sottolineare la natura permanente dell'illecito da ascrivere alla P.A., così come il fatto che la configurazione della responsabilità della P.A. quale responsabilità contrattuale non osterebbe al riconoscimento in suo favore del diritto di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali.
3.5. Oltre al danno arrecatogli dall'illegittima circolazione dei dati sensibili sulla sua -OMISSIS-, il militare lamenta il pregiudizio per la mancata progressione di carriera conseguente all'illegittima richiesta di accertamenti sanitari prevista nei bandi di concorso interni. Evidenzia, al riguardo, che il T.A.R. sarebbe incorso in errore sia nel ritenere ragionevole le clausole dei bandi che richiedono gli accertamenti in questione (in quanto la L. n. 135 del 1990 vieta al datore di lavoro di indagare sullo stato -OMISSIS- del personale e la Raccomandazione della Conferenza Generale dell'O.I.L. n. 200 del 2010 stabilisce che nessun lavoratore deve essere obbligato a fare il test -OMISSIS- od a rivelare il proprio stato -OMISSIS-), sia nell'affermare che al dipendente è stato riconosciuto il cd. equo indennizzo, poiché in realtà tale beneficio economico è stato negato al sig. -OMISSIS-.
3.5.1. A questo riguardo - e ad ulteriore riprova della condotta illecita della P.A. - l'appellante ricorda di avere ottenuto l'idoneità incondizionata al servizio solo il -OMISSIS-, di essere stato giudicato temporaneamente non idoneo al servizio per un lungo periodo (circa otto mesi), con il conseguente collocamento in aspettativa e con rilevanti svantaggi sul piano economico e che prima dell'intervento del Garante gli sarebbe stato proposto il cambio di categoria, poi non portato a compimento. Quanto al diniego del cd. equo indennizzo, sostiene che il parere negativo del C.V.C.S. (Comitato di Verifica delle Cause di Servizio), che ha determinato detto diniego, sarebbe verosimilmente dovuto all'invio, ad opera dell'Amministrazione di appartenenza, di un rapporto informativo reticente sul servizio da lui realmente svolto, soprattutto nel periodo dal novembre -OMISSIS- al giugno -OMISSIS-. Peraltro, la diagnosi palesata nel parere del C.V.C.S. sarebbe stata inviata al Comando di Nave presso cui il sig. -OMISSIS- presta servizio senza alcuna precauzione, comportando un'ulteriore violazione della privacy a danno dello stesso appellante.
3.6. Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Difesa e lo Stato Maggiore della Marina, versando in atti una memoria difensiva con la documentazione già prodotta in primo grado e concludendo per la reiezione dell'appello. La difesa erariale ha poi depositato istanza di invio della causa in decisione sulla base degli scritti difensivi.
3.7. All'udienza del 13 aprile 2021 - tenutasi in collegamento da remoto in videoconferenza ai sensi dell'art. 25 del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con l. 18 dicembre 2020, n. 176 - dopo una sintetica discussione da remoto del difensore dell'appellante, la causa è stata trattenuta in decisione.
4. L'appello - di lettura non sempre agevole - è infondato.
4.1. Va premesso in argomento che, come precisato da questo Consiglio di Stato (cfr., ex multis, Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 284, con i precedenti ivi richiamati), nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al G.A., nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (in base al quale chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, comma 1 e 64, comma 1, c.p.a. (secondo cui l'onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il cd. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio, ma il ricorrente deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda.
4.2. Tanto premesso in linea generale, ai fini della decisione è opportuno riportare alcuni passaggi di una sentenza di questo giudice di appello (C.d.S., Sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1282), ripresa anche da pronunce successive, dove sono state fornite le coordinate normative e giurisprudenziali entro cui inquadrare il cd. danno da mobbing e la responsabilità del datore di lavoro pubblico ai sensi dell'art. 2087 c.c..
4.2.1. Si è in particolare evidenziato in tale pronuncia che:
"6.1.- La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nell'affermare che "per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l'ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (Cons. Stato, III, 1 agosto 2014, n. 4105; IV, 6 agosto 2013, n. 4135; VI, 12 marzo 2012, n. 1388).
Sotto il profilo oggettivo è stato puntualizzato che nel lavoro pubblico, per configurarsi "una condotta di mobbing sia necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a cui sono normalmente diretti" (Cons. Stato, IV, 19 marzo 2013, n. 1609; VI, 15 giugno 2011, n. 3648).
Sotto il profilo soggettivo è stato chiarito che la "sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini dell'enucleazione del mobbing" (Cons. Stato, IV, n. 4105 del 2014; 16 febbraio 2012, n. 815).
Sotto il profilo probatorio si è chiarito che il lavoratore "non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione" (Cons. Stato, IV, 6 agosto 2013, n. 4135; VI, 12 marzo 2012, n. 1388). La giurisprudenza ha aggiunto che "la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo" (Cons. Stato, VI, 4 novembre 2014, n. 5419; V, 27 maggio 2008, n. 2515).
6.2.- L'art. 2087 Cod. civ. prevede che "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Questa previsione può trovare applicazione anche al di fuori delle ipotesi di mobbing.
La Corte di Cassazione ha affermato che "nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili" (Cass., 18 settembre 2013, n. 21344) (……).
La stessa Corte ha aggiunto che "l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi". La stessa giurisprudenza ha anche affermato che "né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici" (Cass., 29 gennaio 2013, n. 2038)."
4.3. Orbene, come affermato dal primo giudice, il militare ricorrente non ha fornito alcuna prova della sussistenza, nella vicenda che lo riguarda, degli elementi costitutivi del cd. mobbing, e in particolare non ha dimostrato l'esistenza:
- né della molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato dall'Amministrazione nei suoi confronti sulla base di un disegno persecutorio;
- né di alcun evento lesivo del suo benessere psico-fisico, limitandosi sul punto ad affermazioni del tutto generiche, come si dirà meglio infra;
- né del nesso eziologico tra la condotta del datore (o dei superiori gerarchici) e la lesione della sua integrità psico-fisica;
- né dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio e neppure dell'esistenza di singoli atti che, pur senza essere accomunati dal suddetto intento, si prestino a essere considerati come vessatori o mortificanti per il dipendente.
4.4. Invero, la sussistenza di condotte mobbizzanti è qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito, che è imprescindibile ai fini della configurazione del mobbing (C.d.S., Sez. III, 14 maggio 2015, n. 2412). Nel caso di specie gli episodi di cui si duole l'appellante denotano, verosimilmente, una scarsa conoscenza della normativa sui dati personali da parte dell'Amministrazione di appartenenza prima dell'intervento del Garante, ma non individuano alcun intento persecutorio o disegno sistematico a danno del sig. -OMISSIS-: è sintomatico, al riguardo, che l'unico episodio concreto nel quale potrebbe, in ipotesi, ravvisarsi la prova di un intento di dequalificazione e marginalizzazione perseguito dalla P.A. nei confronti del militare sia la proposta per il cambio di categoria fattagli e che però - per ammissione dello stesso militare ricorrente - tale proposta non abbia avuto alcun seguito.
4.5. Il Collegio ritiene che la prova di un intento persecutorio non possa certo ravvisarsi nel mancato riconoscimento, in favore del militare, del cd. equo indennizzo, che è questione che esula in toto dalla presente controversia e avrebbe dovuto essere affidata, semmai, ad apposita impugnativa. Ciò, senza trascurare che per stessa ammissione dell'appellante, egli beneficia dell'indennizzo ex L. n. 210 del 1992 corrispostogli dal Ministero della Difesa: di tal ché, ha ragione il primo giudice ad affermare che nella fattispecie in esame vi sono elementi che depongono in senso antitetico all'esistenza di una strategia persecutoria posta in essere dalla P.A. per emarginare il militare e lederne la dignità professionale, pur se detti elementi antitetici devono ravvisarsi non - come fa il T.A.R. - nella concessione del cd. equo indennizzo, ma, appunto, nel riconoscimento a suo favore dell'indennizzo ex L. n. 210 del 1992 (che spetta anche ai soggetti contagiati da infezioni da -OMISSIS-).
4.6. Nemmeno è possibile ravvisare una strategia persecutoria e di emarginazione perseguita dalla P.A. nella circostanza dell'inserimento, nel bando di concorso per Guardiamarina, di una clausola la quale ha imposto la certificazione sulla -OMISSIS-, essendo dirimente, in contrario, la riflessione che si tratta di clausola che si rivolge a tutti gli aspiranti indistintamente. Quanto, poi, ai dubbi circa la legittimità e la ragionevolezza di una clausola di tal tipo, ancora una volta si tratta di questione che il militare avrebbe dovuto far valere, semmai, attraverso la tempestiva impugnazione in parte qua del bando di concorso: ma non vi è prova che contro lo stesso egli si sia mai gravato (presentando, altresì, istanza cautelare) e dunque non residua spazio per le pretese risarcitorie legate alla perdita di chances di progressione in carriera, tenuto conto dell'operatività del principio di non risarcibilità dei danni evitabili attraverso l'ordinaria diligenza, stabilito dall'art. 1227, secondo comma, c.c. ed ora recepito dall'art. 30, comma 3, c.p.a., che menziona espressamente i danni evitabili con l'esperimento degli strumenti di tutela previsti (cfr. C.d.S., A.P., 23 marzo 2011, n. 3).
5. Sotto distinto e concorrente profilo, la sentenza di prime cure merita di essere condivisa anche lì dove ha evidenziato la genericità del ricorso in ordine al quantum risarcitorio, derivante dall'omesso assolvimento da parte del ricorrente dell'onere della prova del danno non patrimoniale per la lesione del diritto alla riservatezza ed alla dignità personale.
5.1. Va premesso, sul punto, che anche il danno non patrimoniale, al pari di quello patrimoniale, deve formare oggetto di prova ad opera della parte che lo richiede e non può considerarsi sussistente in re ipsa.
5.1.1. Ed invero, secondo la giurisprudenza della Cassazione "in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (cfr. Cass. 05/12/2017 n. 29407). Si tratta di prova che può essere offerta con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento ed assume in tal senso rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno (Cass. 19/12/2008 n. 29832). In definitiva escluso che il pregiudizio sia in re ipsa collegato all'esistenza della dequalificazione, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (cfr. Cass. 23/01/2011 n. 1248 e comunque già Cass. Sez. U., Sentenza n. 6572 del 24/03/-OMISSIS-)" (Cass. civ., Sez. lav., 16 dicembre 2020, n. 28810).
5.1.2. Nello stesso senso è la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo la quale "come ogni forma di danno anche quello non patrimoniale, nella specie danno psicologico, rappresenta una forma di danno conseguenza che, come tale, non è in re ipsa ma deve essere debitamente provato; in secondo luogo il danno de quo non si identifica nel mero transeunte patema d'animo (che, come noto, assume rilievo risarcitorio solo in presenza della commissione di un illecito penale), ma, di contro, presuppone la lesione dell'integrità psichica della persona, ossia un'alterazione patologica e scientificamente dimostrabile del fisiologico equilibrio psichico dell'interessato ovvero comunque una profonda, strutturale, endemica compromissione dell'ordinario tessuto esistenziale del danneggiato, sconvolto dall'illecito con proporzioni ed effetti dirompenti" (così Sez. IV, 15 maggio 2018, n. 2888).
5.2. Orbene, la sentenza appellata ha condivisibilmente rilevato come nel caso di specie il ricorrente abbia chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione della propria dignità personale senza allegare alcun concreto pregiudizio: all'asserita lesione del diritto della personalità, infatti, non fa seguito la deduzione, né la prova (nemmeno in via presuntiva) del danno conseguente effettivamente risentito.
6. In conclusione, ai fini dell'affermazione della responsabilità della P.A. (anche di quella contrattuale ex art. 2087 c.c.), non basta l'allegazione della non conformità a legge degli atti o dei comportamenti della P.A. stessa: non conformità che nel caso di specie risulta in effetti sussistere, alla luce di quanto emerge dagli atti di causa e dall'intervento del Garante per la privacy. Occorre, invece, la prova degli altri requisiti necessari per configurare l'illecito della P.A.: prova che però, per quanto si è visto, il ricorrente ed odierno appellante non è stato in grado di fornire.
6.1. Ne discende l'infondatezza dell'appello, che deve, perciò, essere respinto, meritando la sentenza di primo grado di essere confermata.
7. Sussistono comunque giusti motivi per disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio d'appello, visti l'oggetto della controversia e la complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
-OMISSIS-Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sezione Seconda (II^), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, all'art. 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 ed all'art. 2-septies del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, dà mandato alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualunque dato idoneo a rivelare lo stato di salute dell'appellante.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 13 aprile 2021, tenutasi, ai sensi dell'art. 25 del D.L. n. 137 del 2020, conv. con L. n. 176 del 2020, tramite collegamento da remoto in videoconferenza, con l'intervento dei magistrati:
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Presidente FF
Hadrian Simonetti, Consigliere
Francesco Frigida, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere
Pietro De Berardinis, Consigliere, Estensore
29-05-2021 12:50
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