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Sentenza

REATI MILITARI - Reati contro la disciplina militare - In genere - Reato di mina...
REATI MILITARI - Reati contro la disciplina militare - In genere - Reato di minaccia o ingiuria ad inferiore - Aggravante dell'essere l'agente rivestito di un grado o investito di un comando - Applicabilità - Esclusione - Ragioni
Cass. pen. Sez. I Sent., 13/10/2020, n. 8268 (rv. 280531-01)
EPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Mariastefania - Presidente -

Dott. BIANCHI Michele - Consigliere -

Dott. MANCUSO Luigi F. - rel. Consigliere -

Dott. ROCCHI Giacomo - Consigliere -

Dott. MAGI Raffaello - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

V.V., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 15/05/2019 della CORTE MILITARE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. LUIGI FABRIZIO MANCUSO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FILIPPO Casa, che ha concluso chiedendo;

Il P.G. conclude chiedendo l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente all'aggravante dell'art. 47 C.P.M.P. contestato al capo B e l'annullamento con rinvio in relazione alla rideterminazione della pena. Rigetto nel resto.

udito il difensore:

L'avvocato NOTARFONSO ANTONIO del foro di LATINA in difesa di V.V. conclude insistendo nell'accoglimento integrale del ricorso.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 25 ottobre 2018, il Tribunale militare di Roma dichiarava il tenente colonnello V.V. colpevole di sette episodi di ingiuria e diffamazione, indicati alle lettere "a", "b", "c", "d", "e", "f", "g" del capo di imputazione "A", e di due episodi di ingiuria a un inferiore, indicati alle lettere "a" e "b" del capo di imputazione "B", tutti reati commessi in danno di militari dipendenti. Riconosciuto il vincolo della continuazione, ritenute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, V.V. era condannato alla pena di dieci mesi e venti giorni di reclusione militare. Il Tribunale concedeva il beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione.

2. L'imputato proponeva gravame, rigettato dalla Corte di appello militare con sentenza del 15 maggio 2018 che riteneva infondate sia le questioni processuali sia quelle sostanziali e richiamava le dichiarazioni delle persone offese I.D., M.R., Va.V., R.C. e dei testi G.P. e A.B..

3. Il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione, con atto articolato in sette motivi.

3.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, richiamando l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), la violazione del principio del ne bis in idem di cui all'art. 649 c.p.p., nonchè motivazione mancante o contraddittoria e illogica. A seguito dell'informativa di reato proposta dal generale A. in data 11 luglio 2014, contemporaneamente all'indagine che ha dato luogo al presente processo ne fu avviata un'altra presso l'autorità giudiziaria ordinaria, avente ad oggetto i medesimi fatti. Tale altro procedimento de eadem re si concluse con provvedimento di archiviazione emesso il 13 settembre 2016 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina, il quale affermò l'insussistenza di elementi idonei a sostenere una eventuale accusa in giudizio nei confronti di V.V. in ordine al reato di atti persecutori ivi ascrittogli, specificando che si trattava di mere avances in relazione alle quali non risultava comunque esser stata presentata querela. Contrariamente rispetto a quanto affermato dal giudice dell'appello nella sentenza ora impugnata, il citato provvedimento di archiviazione precludeva un secondo giudizio nei confronti di V.V. per gli stessi fatti.

3.2. Con il secondo motivo di ricorso si deducono le violazioni di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione alla mancanza della richiesta di procedimento del Comandante del Corpo ai sensi dell'art. 260 c.p.m.p., comma 2; nullità della sentenza per mancanza assoluta della motivazione in relazione allo specifico motivo di gravame sollevato dalla difesa (Pagg. 4-7 dell'atto di appello, secondo motivo) e dotato del requisito della decisività. Il giudice dell'appello ha ignorato che il Comandante di Corpo, con la richiesta di procedere penalmente del 25 luglio 2014, aveva risposto a una specifica richiesta della Procura militare del 16 luglio 2014, che faceva riferimento a un periodo preciso (compreso tra il 2013 e il marzo 2014) ed esclusivamente a due persone offese (Va.V. e I.D.). Pertanto, nel caso in esame, vi è stata arbitraria integrazione della richiesta di procedimento del Comandante di Corpo, avallata dal giudice dell'appello con argomentazione altrettanto arbitraria. Il giudizio non poteva essere proseguito con riferimento alle ipotesi di reato di cui alle lettere "c", "e", "f" e "g" del capo di imputazione "A", in quanto attinenti a fatti commessi fino al luglio 2014, periodo non previsto nella citata richiesta (le ipotesi di cui alle lettere "e" e "g", peraltro, riguardano R.C., persona offesa non presente e mai indicata in alcuna richiesta di procedimento).

3.3. Con il terzo motivo di ricorso si deducono, richiamando l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'elemento oggettivo e soggettivo dei reati di cui al capo di imputazione "A", in relazione al terzo e quarto motivo dell'atto di appello, travisamento della prova e contraddittorietà della motivazione, nonchè violazione dei canoni di valutazione della prova ai sensi dell'art. 192 c.p.p. e inversione del corretto ragionamento logico probatorio, con riguardo alle dichiarazioni rese da I.D. e Va.V. e con riguardo alla credibilità del teste G.P. La sentenza ora impugnata è nulla e inesistente, in quanto non si confronta con le questioni dedotte con il terzo motivo di appello (pagg. 7-12), nè con le emergenze probatorie risultanti dal giudizio di primo grado. Il giudice dell'appello, omettendo di valutare le censure rivolte alla sentenza di primo grado, non ha considerato che le presunte frasi riferite dalle persone offese non sono mai state collocate temporalmente. Inoltre, ha ritenuto accertati i fatti sulla base delle mendaci dichiarazioni rese dalle persone offese (l'una a favore dell'altra) e da G.P.; soggetti, questi, non credibili, come emerge dalle considerazioni che seguono.

3.4. Con il quarto motivo di ricorso si deducono le violazioni di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), con riferimento alla ritenuta insussistenza della clausola di non punibilità di cui all'art. 228 c.p.m.p., comma 2, in relazione al reato di cui alla lettera "e" del capo "A"; nullità della sentenza per omessa motivazione in ordine al quinto motivo di appello (pagg. 14-15) dotato del carattere della decisività. Con riferimento all'episodio contestato alla lettera "e" del capo di imputazione "A", il giudice dell'appello, a pag. 46 della sentenza, travisando le risultanze processuali, ha arbitrariamente ritenuto di poco conto l'inconveniente scatenante lo stato d'ira dell'odierno ricorrente, cioè il mancato scollegamento dalla presa elettrica dell'elettrocardiografo da parte del personale dell'infermeria. Invece, tale fatto era grave. Inoltre, nel momento in cui l'imputato commise la condotta contestata alla lettera "e" del capo "A", perdurava il suo stato d'ira e vi era contiguità temporale tra il fatto ingiusto altrui e la reazione dell'imputato. Nel caso di specie, avrebbe dovuto essere riconosciuta l'esimente della provocazione, la quale trova applicazione anche laddove la persona offesa sia diversa da quella che ha commesso il fatto ingiusto, purchè tra le due sussista un particolare rapporto, come l'essere colleghi di lavoro preposti alla medesima mansione, non correttamente adempiuta.

3.5. Con il quinto motivo di ricorso si deducono le violazioni di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), con riferimento alla sussistenza di entrambi gli episodi di reato di cui al capo di imputazione "B"; nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione con riferimento al sesto motivo di appello (pagg. 15-17) dotato del requisito della decisività. Con riguardo all'episodio di cui alla lettera "a" del capo di imputazione "B", il giudice dell'appello ha omesso di rispondere alle doglianze difensive e non ha chiarito in quale contesto sarebbero state pronunciate alcune delle parole addebitate all'imputato e riferite dal teste G.P. Tale episodio non è provato, essendo una mera presunzione dei giudici del merito il proferimento di tali parole per cause di servizio. Con riferimento all'episodio di cui alla lettera "b" del capo di imputazione "B", sono state ignorate le smentite di M.R., la quale reputò le frasi profferite dall'imputato non come un'offesa, mà come una battuta fuori luogo. La sentenza impugnata è pervenuta a un giudizio di colpevolezza nonostante la stessa persona offesa abbia escluso qualsiasi valenza offensiva. Si trattò di battute goliardiche prive di carattere offensivo. Ad ogni modo, vicende non rilevanti sotto il profilo penale, in quanto legate a cause estranee al servizio militare.

3.6. Con il sesto motivo di ricorso si deducono le violazioni di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in ordine alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti contestate, nonchè in ordine alla commisurazione della pena irrogata; contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Il giudice dell'appello ha erroneamente applicato circostanze incompatibili con le ipotesi di reato contestate, quale è la circostanza aggravante del rivestire un grado o dell'essere investito di un comando. Il giudice di primo grado aveva valutato le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti dell'aver rivestito un grado e dell'essere stato commesso il fatto alla presenza di tre o più militari, e aveva successivamente ritenuto più grave il reato di cui alla lettera "a" del capo di imputazione "B", individuando la pena base in 8 mesi di reclusione. Eppure, la circostanza aggravante dell'esser l'imputato rivestito di un grado non poteva trovare applicazione nel caso in questione, in quanto nel reato di ingiuria ad inferiore, di cui all'art. 196 c.p.m.p., comma 2, il rivestire un grado o l'essere investito del comando sono elementi costituitivi della fattispecie. Inoltre, con riferimento al reato di cui alla lettera "a" del capo di imputazione "B", non era stata contestata l'aggravante dell'aver agito in presenza di tre o più militari. Pertanto, la pena base di 8 mesi di reclusione è del tutto erronea: i giudici del merito avrebbero dovuto considerare solo le circostanze attenuanti generiche ed irrogare il minimo della pena, anche in considerazione del fatto che nell'ordinamento civile l'ingiuria non costituisce più reato. Inoltre, con riferimento a quasi tutte le contestazioni, ai fini di ritenere sussistente la circostanza aggravante dell'aver agito in presenza di tre o più militari, sono state arbitrariamente computate anche le persone offese.

3.7. Con il settimo motivo di ricorso si deducono le violazioni di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione all'ottavo motivo dell'atto di appello: contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione; violazione delle regole che presiedono il corretto iter del procedimento probatorio; nullità dell'ordinanza del 19 giugno 2018, in relazione ai sopra menzionati vizi motivazionali della sentenza, per violazione del diritto di difesa rispetto alla negata escussione del teste A., indicato dal Pubblico Ministero, e di tutti i testi della difesa. La ricostruzione della vicenda fornita dal giudice dell'appello in ordine alla revoca dell'ammissione dei testi è parziale e travisa elementi fondamentali. Il teste dell'accusa A. non si è mai presentato sin dall'inizio del processo. Pertanto, considerato che è un diritto dell'imputato sentire i propri testi successivamente rispetto ai testi del Pubblico Ministero e considerata l'assenza del teste A. anche all'udienza del 25 ottobre 2018, a tale udienza comunque non si sarebbero potuti escutere i testi della difesa, a prescindere dalla loro citazione o presenza. Il giudice di primo grado ha illegittimamente revocato l'ammissione del teste A. sulla base di un inammissibile giudizio preventivo di irrilevanza. Tale giudizio preventivo non ha consentito alla difesa di verificare la veridicità delle dichiarazioni rese dagli altri testi del Pubblico Ministero, i quali avevano fatto spesso riferimento ad A. Ciò ha reso la sentenza nulla. Allo stesso modo, il diritto di difesa è stato violato da un giudizio preventivo di irrilevanza dei testi della difesa. Le conclusioni dei giudici di merito in ordine alla superfluità dei testi della difesa sono manifestamente contraddittorie e illogiche.
Motivi della decisione

1. E' manifestamente infondato, perchè in contrasto con il dato normativo e con la consolidata giurisprudenza di legittimità, il primo motivo di ricorso - con il quale il ricorrente invoca la preclusione processuale del ne bis in idem ex art. 649 c.p.p. e afferma che il presente processo, instaurato dinanzi all'autorità giudiziaria militare, non avrebbe dovuto essere iniziato nè proseguito, perchè riguardante il medesimo fatto in relazione al quale l'imputato già era stato sottoposto, con l'ipotesi di reato di atti persecutori, ad altro procedimento penale, poi conclusosi con decreto di archiviazione emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina.

1.1. La trattazione della censura rende opportuno richiamare alcuni principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia. E' stato chiarito che la norma di cui all'art. 13 c.p.p., comma 2, che prevede, in caso di concorso tra reato comune e reato militare, la giurisdizione unica dell'autorità giudiziaria ordinaria allorchè il primo sia più grave del secondo, non trova applicazione quando l'ipotesi criminosa che comporta la giurisdizione del giudice ordinario abbia trovato sbocco in un provvedimento di archiviazione (Sez. 1, n. 1399 del 15/12/1999, dep. 2000 Moccia, Rv. 215228). E' stato spiegato, inoltre, che il principio di preclusione processuale di cui all'art. 649 c.p.p., in quanto connesso al presupposto dell'irrevocabilità del provvedimento con cui l'imputato sia stato giudicato per il medesimo fatto, non può operare nei confronti del decreto di archiviazione, caratterizzato dall'impossibilità di divenire irrevocabile a fronte della prevista possibilità di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. e, pertanto, dall'assenza di ogni effetto preclusivo nel senso richiesto ai fini dell'operatività del ne bis in idem (Sez. 3, n. 1429 del 19 settembre 2019, dep. 2020, Amendolagine, n. m.; con riferimento al previgente codice di rito, Sez. 1, n. 6588 del 31/01/1989, Masucci, Rv. 181208).

1.2. Ciò posto in astratto, deve notarsi, con riguardo al caso concreto in esame, che il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, come sopra anticipato, poichè il giudice dell'appello non è incorso in alcuna delle violazioni denunciate. Come ricordato dall'odierno ricorrente, a seguito dell'informativa di reato proposta dal generale A., V.V. fu sottoposto, con riferimento ai medesimi fatti, oltre che al presente procedimento, anche a un procedimento penale - avente ad oggetto il reato di atti persecutori - dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria, e tale procedimento si concluse con provvedimento di archiviazione emesso il 13 settembre 2016 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina.

Pertanto, per un verso, la sentenza impugnata deve ritenersi conforme al principio di diritto sopra richiamato al punto "1.1.", in base al quale l'attrazione della giurisdizione dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria non può operare, essendo stata disposta l'archiviazione per il reato di atti persecutori. Per altro verso, la sentenza non incorre in alcuna violazione laddove reputa il citato provvedimento di archiviazione inidoneo a far sorgere l'invocata preclusione processuale di cui all'art. 649 c.p.p., in quanto, come sopra evidenziato, tale disposizione, ai fini dell'operatività del divieto di bis in idem, richiede l'esistenza di una pronuncia de eadem re et persona passata in giudicato.

Di contro, si appalesa del tutto inconferente il richiamo operato nell'atto di ricorso, da un lato, alla sentenza delle Sezioni Unite n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv, 231800 e, dall'altro lato, alla sentenza della Corte di Giustizia U.E., Grande Sezione, 29/06/2016, Piotr Kossowski. Infatti, quanto al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, deve notarsi che esso attiene ai casi - diversi da quello in esame - di procedimenti de eadem re et persona pendenti innanzi alla medesima sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del pubblico ministero. Peraltro, va sottolineato che la citata pronuncia delle Sezioni Unite non ha riconosciuto efficacia preclusiva ex art. 649 c.p.p. al provvedimento di archiviazione. Analogamente, anche la richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, in tema di applicazione dell'art. 54 della Convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 (Convenzione ratificata e posta in esecuzione dall'Italia con L. 30 settembre 1993, n. 388) non assume alcun rilievo nel caso in esame, essendo l'ambito di operatività dell'art. 54 CAAS limitato a quelle ipotesi di bis in idem internazionale, cioè a quelle ipotesi in cui il soggetto già giudicato con provvedimento definitivo in uno Stato contraente si trovi ad essere sottoposto ad altro procedimento penale per il medesimo fatto in altro Stato contraente.

Per completezza, è opportuno osservare che la pronuncia della Corte costituzionale citata nell'atto di ricorso, n. 27 del 1995 (il richiamo operato nell'atto di ricorso a Corte Cost., sent. n. 207 del 1997 è del tutto inconferente) riconosce, in conformità con il dettato dell'art. 414 c.p.p., una efficacia preclusiva limitata al provvedimento di archiviazione, in assenza di un'autorizzazione del giudice a riaprire le indagini. Tuttavia, anche tale richiamo giurisprudenziale non è adeguato al caso in esame, perchè è assorbente rilevare che detta efficacia preclusiva limitata opera solo nei confronti dell'autorità giudiziaria che ha provveduto all'archiviazione. La giurisprudenza di lègittimità ha infatti chiarito che il decreto di archiviazione ha efficacia (limitatamente) preclusiva solo nei confronti dell'autorità giudiziaria che ha provveduto all'archiviazione, in ragione del fatto che l'autorizzazione alla riapertura delle indagini, rimuovendo gli effetti della precedente valutazione di infondatezza della notizia di reato al pari di un atto di revoca, non può che provenire dallo stesso giudice che ha emesso il decreto di archiviazione ed essere inerente a un sindacato sul potere di esercizio dell'azione penale di cui è titolare il pubblico ministero presso quell'ufficio giudiziario, sicchè nessun ostacolo incontra l'autorità giudiziaria di altra sede a compiere accertamenti su fatti oggetto del provvedimento di archiviazione (Sez. 2, n. 37479 del 14/05/2019, Costanzo, Rv. 277041).

2. In relazione al secondo motivo di ricorso - con il quale il ricorrente deduce violazione di legge processuale e vizio motivazionale della sentenza di secondo grado nella parte in cui non ha ritenuto la richiesta di procedimento del comandante di corpo arbitrariamente integrata dal giudice di primo grado - è opportuno richiamare i seguenti principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità.

2.1. E' stato spiegato che la richiesta di procedimento ex art. 260 c.p.m.p. è sottratta, nella sua formulazione, alla necessità di particolari requisiti formali, diversi e ulteriori rispetto alla forma scritta. Infatti, la richiesta è concepita dal legislatore come una manifestazione di volontà idonea a rimuovere un ostacolo di legge alla perseguibilità di taluni reati militari. Purchè sia redatta per iscritto, la richiesta può essere espressa in qualsiasi modo (diretto o indiretto), con espressioni esplicite o in termini equipollenti, essendo rilevante che dall'atto emerga con chiarezza la volontà di rimuovere l'ostacolo processuale e, quindi, rendere possibile l'esercizio dell'azione penale contro il militare che sia autore di uno dei reati compresi tra quelli elencati nell'art. 260 c.p.m.p.. Ne consegue che deve considerarsi come richiesta di procedimento relativa a vari fatti-reato, commessi da un militare, il rapporto di un comandante del corpo militare avente ad oggetto in modo esplicito le lesioni da quegli cagionate, nel quale si faccia, però, menzione anche degli altri eventuali fatti costituenti reati commessi dal militare stesso già indicato come autore delle lesioni (Sez. 1, n. 8956 del 07/05/1985, Giacalone, Rv. 170680; Sez. 1, n. 31900 del 16/06/2004, Negash, Rv. 229936).

2.2. Sulla base di detti principi, il secondo motivo di ricorso risulta manifestamente infondato, poichè il giudice dell'appello non è incorso in alcuna delle violazioni di legge denunciate, ma ha spiegato in modo chiaro che la richiesta di procedimento, a firma del generale A. Comandante del Comando artiglieria contraerei, riporta l'intenzione di procedere nei confronti dell'odierno ricorrente "per i fatti di cui all'informativa a seguito"; che in tale informativa il generale A. descrive l'insieme delle vicende facendo riferimento alle battute e alle proposte a sfondo sessuale rivolte dall'imputato nei confronti di alcune militari; che l'atto, prima ancora della menzione di quanto avvenuto nei confronti della V. e della I.D. nel periodo compreso tra il 2013 e il marzo 2014, fa riferimento a "pesanti battute a sfondo sessuale lesive della dignità personale degli aiutanti di sanità (ASA) di sesso femminile"; e che il riferimento alle due militari coinvolte viene operato a titolo esemplificativo.

Pertanto, è corretta, alla luce del sopra richiamato principio di diritto, la conclusione cui perviene la sentenza impugnata nel ritenere non estranei alla richiesta di procedimento quanto verificatosi ai danni di R.C. e gli episodi di cui alle lettere "c", "e", "f" e "g" del capo di imputazione "A".

3. E' manifestamente infondato anche il terzo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente deduce, in ordine alla sussistenza dei reati di cui al capo "A", in relazione al terzo e quarto motivo dell'atto di appello, travisamento della prova, contraddittorietà della motivazione, violazione dei canoni di valutazione della prova ai sensi dell'art. 192 c.p.p. e inversione del corretto ragionamento logico probatorio, con riferimento alle dichiarazioni di V.V e I.D. e alla credibilità del teste P. L'esame delle censure rende opportuno premettere alcuni principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.

3.1. E' stato spiegato che la specificità dell'art. 606 c.p.p., lett. e), dettato in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l'ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che tale norma possa essere dilatata per effetto delle regole processuali concernenti la motivazione, attraverso l'utilizzazione del vizio di violazione di legge di cui alla lettera c) dello stesso articolo. E ciò, sia perchè la deducibilità per cassazione è ammessa solo per la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, sia perchè la puntuale indicazione di cui al punto e) ricollega ai limiti in questo indicati ogni vizio motivazionale; sicchè il concetto di mancanza di motivazione non può essere utilizzato sino a ricomprendere ogni omissione o errore che concernano l'analisi di determinati, specifici elementi probatori (Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248).

3.2. In tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, manifesta illogicità, contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante) su aspetti essenziali tali da imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che riguardano la carenza di persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965).

3.3. Il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758). Detto vizio può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", sia nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018).

3.4. Posto in astratto quanto precede, deve notarsi, con riferimento al caso in esame, come sopra anticipato, che i(terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato, poichè il giudice dell'appello non è incorso nelle omissioni e nei travisamenti denunciati ma ha reso sentenza sorretta da motivazione logica e coerente, priva di vizi giuridici. In particolare, il giudice dell'appello ha ripercorso le deposizioni dei testi M.R., I.D., V.V., R.C., G.P., A.B.; ha evidenziato che gli elementi raccolti confermano quanto addebitato all'odierno ricorrente; ha spiegato che "nelle riunioni il disprezzo ha investito tutti con espressioni offensive prive di significato sessuale (...), mentre nei confronti delle militari donne il disprezzo ha assunto la forma di esternazioni di contenuto sessuale degradante, tendente a configurare le militari come oggetti sessuali". Inoltre, il giudice dell'appello, con riferimento allo stato di paura riferito dalle militari, ha richiamato quanto dichiarato dal teste A. e, coerentemente a ciò, ha opportunamente evidenziato che nonostante l'imputato non avesse formalmente potere disciplinare "i suoi modi vistosi, debordanti ed esagerati, accompagnati da asserzioni perentorie sul suo potere (...) e dalla sua posizione di fatto", indussero molti, oltre alle militari, a temere e a tacere. La sentenza osserva che il rapporto confidenziale, ammesso anche da alcuni testi, non autorizzava le offese; che l'imputato era giudicato "per quanto accaduto successivamente ai tempi in cui il suo contegno era corretto"; che, contrariamente a quanto affermato nell'atto di appello, le esternazioni risultavano offensive, senza necessità alcuna di ipotizzare che il personale femminile sia una specie protetta; che i movimenti manuali e facciali "sono stati ricordati e sono espliciti". Quindi, il giudice dell'appello ha concluso escludendo che le dichiarazioni rese dai testi fossero esagerate o romanzate o che traessero spiegazione da risentimenti personali. Da ultimo, il giudice di merito ha sottolineato che, con riferimento all'ingresso nel linguaggio comune di alcune fra le parole utilizzate riferite a parti del corpo, nella vicenda le stesse sono offensive in ragione della collocazione delle manifestazioni all'interno di un lungo comportamento di squalifica delle destinatarie, nell'ambito di un rapporto di potere.

Pertanto, emerge in modo evidente che la sentenza ora impugnata dimostra di affrontare le censure sollevate in seno all'atto di appello, disattendendole sulla base di una plausibile e logica valutazione di merito degli elementi disponibili, senza incorrere in alcun travisamento o violazione. Di contro, le doglianze sollevate con il terzo motivo di ricorso risultano in realtà dirette a porre in discussione la persuasività della sentenza impugnata e a ottenere un ulteriore giudizio di merito, in quanto tale esorbitante dai poteri demandati a questa Corte.

4. E' manifestamente infondato, poichè si risolve in realtà in mere doglianze in punto di fatto, anche il quarto motivo di ricorso, con il quale sono state dedotte le violazioni di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), contestando la sussistenza dell'esimente della provocazione di cui all'art. 228 c.p.m.p., comma 2, in relazione al reato di cui al capo "A", lett. "e".

Il giudice dell'appello ha dimostrato di aver fatto corretta applicazione del dato normativo, senza incorrere nei vizi denunciati, perchè ha spiegato in modo plausibile che, con riferimento all'episodio di cui al capo "A", lett. "e", non è applicabile l'art. 228 c.p.m.p., comma 2, in ragione, per un verso, della sproporzione tra l'episodio della presa di corrente dell'elettrocardiografo (episodio qualificato dallo stesso giudice come "inconveniente così modesto") è l'ira dell'imputato; in ragione, per altro verso, del fatto che la condotta non fu posta in essere nell'immediatezza, ma solo nella successiva riunione. Peraltro, la sentenza impugnata spiega che tale condotta fu ripetuta, e che quindi l'episodio della presa di corrente fu solo una "delle circostanze in cui il V.V. si è dato a quel linguaggio e a quel contegno".

5. E' manifestamente infondato anche il quinto motivo di ricorso, con il quale sono state dedotte le violazioni di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), con riferimento ai reati di cui al capo "B", nonchè mancanza assoluta della motivazione in relazione al sesto motivo di appello, pagine 15-17.

5.1. L'esame del profilo di censura con il quale il ricorrente sostiene che i fatti di cui al capo "B" sarebbero stati posti in essere per cause estranee al servizio militare rende opportuno ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, i fatti di violenza, minaccia e ingiuria commessi tra militari non integrano i reati di cui agli artt. 195 e 196 c.p.m.p. allorchè risultino collegati in modo del tutto estrinseco all'area degli interessi connessi alla tutela del servizio e della disciplina, ponendosi con questi in rapporto di semplice occasionalità, a nulla rilevando che essi si siano svolti all'interno di una struttura militare, risolvendosi, diversamente, tale circostanza nella indebita valorizzazione di una mera coincidenza topografica, in contrasto con la sentenza 17 gennaio 1991 n. 22 della Corte costituzionale, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art. 199 stesso codice limitatamente alle parole "o in luoghi militari" (Sez. 1, n. 41703 del 08/10/2002, Murino, Rv. 223064).

5.2. Ciò posto in astratto, deve notarsi, con riferimento al caso concreto in esame, che le citate censure sono manifestamente infondate, in quanto il giudice dell'appello ha spiegato in modo logico e coerente per quali ragioni i reati contestati all'imputato fossero collegati al servizio militare. In particolare, la sentenza impugnata sottolinea come il giudizio espresso nei confronti delle persone offese, che avrebbe dovuto riguardare solamente il loro stato di salute e la loro forma fisica, "veniva stravolto dall'imputato a fini di divertimento, offensivo per le interessate, con compromissione indiretta anche del servizio".

5.3. Quanto all'altro profilo di censura formulato in seno al quinto motivo di ricorso - con il quale il ricorrente afferma, con riferimento al reato di cui alla lettera "b" del capo "B", che la sentenza impugnata è viziata perchè ritiene l'imputato colpevole del reato pur non avendo la persona offesa (M.R.) reputato offensive le frasi rivoltele dall'imputato stesso - deve notarsi che la censura si risolve in una mera doglianza in punto di fatto, in quanto tale inammissibile in sede di legittimità.

6. Il sesto motivo di ricorso - con il quale si contesta, per un verso, il riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 2), con riferimento ai reati indicati al capo "B" e, per altro verso, il riconoscimento dell'aggravante dell'esser stato il fatto commesso alla presenza di tre o più militari - è fondato solo per la prima parte.

6.1. Ai sensi dell'art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 2), la circostanza dell'essere il militare colpevole rivestito di un grado o investito di un comando aggrava il reato militare, quando non ne è elemento costitutivo o circostanza aggravante speciale. Da ciò deriva che detta circostanza aggravante non è applicabile al reato di ingiuria ad un inferiore, in quanto l'essere il militare rivestito di un grado o investito di un comando è un elemento costitutivo del reato di cui all'art. 196 c.p.m.p., comma 2, il quale, nel punire il militare che offende il prestigio, l'onore o la dignità di un inferiore in sua presenza, sottende l'esistenza di un rapporto di superiorità gerarchica tra il soggetto agente e il soggetto passivo.

Per le ragioni che precedono, nel caso in esame, il giudice dell'appello ha errato nel ritenere i reati di ingiuria ad inferiore contestati all'imputato al capo "B" fossero aggravati ai sensi dell'art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 2). L'elemento oggettivo della circostanza, infatti, è già compreso nel titolo di reato ritenuto, nel quale essa è pertanto assorbita.

6.2. Viceversa, è manifestamente infondata la parte del sesto motivo di ricorso con cui si critica il riconoscimento dell'aggravante dell'aver commesso il fatto alla presenza di tre o più militari, avuto riguardo alla contestazione in fatto.

7. E' opportuno premettere il richiamo ad alcuni principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità ai fini dell'esame delle censure sollevate in seno al settimo motivo di ricorso, con cui si deduce vizio motivazionale, violazione delle regole che presiedono il corretto iter del procedimento probatorio e nullità dell'ordinanza del 19 giugno 2018, per violazione del diritto di difesa con riferimento alla negata escussione del teste A. (teste indicato dal Pubblico Ministero) e di tutti i testi indicati dalla difesa.

7.1. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di prova testimoniale, la mancata citazione dei testimoni già ammessi dal giudice comporta la decadenza della parte dalla prova, poichè il termine per la citazione dei testimoni è inserito in una sequenza procedimentale che non ammette ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti e ha pertanto natura perentoria, con conseguente legittimità del provvedimento di revoca dell'ammissione dei predetti testi (Sez. 5, n. 20502 del 14/01/2019, Mangiapane, Rv. 275529).

7.2. Considerato quanto precede in astratto, deve notarsi, con riferimento al caso concreto in esame, che il settimo motivo di ricorso è manifestamente infondato, poichè il giudice dell'appello non è incorso in alcun errore di diritto e ha spiegato in modo ineccepibile, da un lato, per quali ragioni la mancata escussione dei testi della difesa ad opera del giudice di primo grado non integra alcuna violazione; dall'altro lato, per quali ragioni le attività istruttorie richieste con l'atto di appello dovevano essere reputate superflue.

In particolare, con riferimento alla censura relativa alla mancata escussione dei testi della difesa, il giudice dell'appello ha osservato che all'udienza del 17 aprile 2018 la difesa non prestò il proprio consenso all'inversione dell'ordine delle prove; che nella medesima udienza il difensore di fiducia venne reso edotto che in seguito sarebbe stata individuata l'udienza per l'escussione dei testi della difesa; che all'udienza del 19 giugno 2018 - nella quale si verificò un impedimento dell'imputato e il difensore di fiducia fu sostituito con difensore d'ufficio - fu fissata l'udienza del 25 ottobre 2018 per tale incombente; che all'udienza del 25 ottobre i testi della difesa non furono presenti perchè non citati dal difensore; che il fatto che il 19 giugno 2018 il solo imputato fosse impedito non esimeva il difensore dal comparire, nè dall'informarsi su cosa fosse stato deciso in tale occasione; che il 25 ottobre l'attività istruttoria fu correttamente considerata chiusa.

Come anticipato, parimenti non censurabili sono le ragioni sulla base delle quali il giudice di secondo grado ha ritenuto la superfluità delle ulteriori attività istruttorie richieste nell'atto di appello. E' stato spiegato, infatti, che "l'emersione della vicenda è certa e le sue caratteristiche sono state chiarite dai presenti agli episodi, mentre gli ulteriori testi potrebbero deporre solo su elementi collaterali, o de relato su aspetti già chiariti dai presenti ai fatti". Orbene, è evidente che tali considerazioni - espressione di esercizio del potere di valutazione discrezionale riconosciuto dal legislatore al giudice di merito - sono logiche e coerenti, in quanto tali insindacabili in sede di legittimità.

8. Per le ragioni esposte, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente all'aggravante - che è assorbita nel titolo di reato - di cui all'art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 2), in relazione al capo "B". Conseguentemente, la sentenza di appello impugnata deve essere annullata limitatamente alla determinazione della pena per il citato capo "B", con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte militare di appello, diversa sezione. Per il resto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Avuto riguardo agli argomenti trattati, deve disporsi che la cancelleria rediga, in calce o a margine del presente provvedimento, opportuna annotazione recante, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 1, la prescrizione che, in caso di diffusione del provvedimento, siano obliterati nella riproduzione le generalità e i dati identificativi delle persone coinvolte.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente all'aggravante di cui all'art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 2, dell'essere il militare agente rivestito di un grado o investito di un comando, in relazione al capo B) (art. 196 c.p.m.p.), perchè assorbita nel titolo di reato, e annulla la medesima sentenza limitatamente alla determinazione della pena per tale capo B), con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte militare di appello, diversa sezione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2021
Avv. Antonino Sugamele

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