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Sentenza

L'imputato con più azioni poste in essere in esecuzione di un medesimo disegno c...
L'imputato con più azioni poste in essere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, con artifici e raggiri consistenti nell'indicare nello statino mensile presenze, a mezzo di firma autografa o, comunque, di sigla a lui riconducibile, orari di lavoro prestati superiori a quelli effettivamente svolti, conseguendo, in tal maniera, un ingiusto profitto, con pari danno per l'Amministrazione Militare
Cassazione Penale Sent. Sez. 1 Num. 16341 Anno 2024
Presidente: DI NICOLA VITO
Relatore: POSCIA GIORGIO
Data Udienza: 13/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto dal:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale Militare di Roma;
avverso la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale militare di
Roma del 31/03/2023;
nell'ambito del procedimento relativo a:
R.C.  nato in S.  il ............
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GIORGIO POSCIA;
lette le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale militare FRANCESCO UFILUGELLI che ha chiesto dichiararsi
inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza in epigrafe il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
militare di Roma ha applicato ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. - nei confronti
di C.R.  (all'epoca dei fatti 10 maresciallo della Marina militare in
servizio presso la stazione VLF NATO MM di Tavolara) imputato del reato di truffa
militare pluriaggravata — la pena di mesi otto e giorni venti di reclusione militare,
previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e con i doppi
benefici.
1.1. L'imputazione a carico del predetto riguardava il reato di truffa militare
continuata pluriaggravata di cui agli artt.81 cpv. cod. pen., 47 n.2 e 234 commi
1 e 2 cod. pen. mil . pace perché, con più azioni poste in essere in esecuzione di
un medesimo disegno criminoso, con artifici e raggiri consistenti nell'indicare
nello statino mensile presenze, a mezzo di firma autografa o, comunque, di sigla
a lui riconducibile, orari di lavoro prestati superiori a quelli effettivamente svolti,
conseguendo, in tal maniera, un ingiusto profitto, con pari danno per
l'Amministrazione Militare (quantificato in euro 2.277,78) consistente nella
percezione della retribuzione anche per periodi di tempo in cui il medesimo non
aveva prestato attività lavorativa. Con le aggravanti di essere militare rivestito di
un grado e di avere commesso il reato in danno dell'Amministrazione militare.
Fatto commesso il Tavolara (Olbia) il 14 novembre 2009, il 23 dicembre 2019, il
22 gennaio 2020, il 10 agosto 2020, l' 1 dicembre 2020, il 2 dicembre 2020, il 3
dicembre 2020, il 4 dicembre 2020, il 7 dicembre 2020, il 9 dicembre 2020, il 14
dicembre 2020, il 15 dicembre 2020, il 16 dicembre 2020, il 17 dicembre 2020
ed il 22 marzo 2021, come da tabelle allegate al capo di imputazione.
1.2. La richiesta di applicazione della pena prospettata dalle parti (e fatta
propria dal Giudice) era stata articolata nei seguenti termini: pena base anni uno
di reclusione militare, aumentata ad anni uno e mesi tre di reclusione militare ex
art.81 cpv. cod. pen., con le attenuanti generiche ritenute equivalenti
all'aggravante di cui alli art.47 n.2 cod. pen. mil . pace, pena poi ridotta per la
scelta del rito alla pena finale di mesi otto e giorni venti di reclusione militare.
2. Avverso la predetta sentenza il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale militare di Roma ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico
motivo, di seguito riprodotto nei limiti di cui all'art.173 disp. att. cod. proc. pen.,
insistendo per l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
In particolare il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art.606, comma secondo, cod.
proc. pen. e 261 cod. pen. mil . pace, l'applicazione di una pena illegale in quanto
la riduzione prevista dall'art.444 del codice di rito è stata effettuata in misura
superiore ad un terzo; al riguardo osserva che il giudicante era correttamente
partito dalla pena base di anni uno di reclusione militare prevista dal secondo
comma dell'art.234 cod. pen. mil . pace, poi aumentata di tre mesi ex art.81 cod.
pen. per la continuazione, giungendo così alla pena di mesi quindici di reclusione
militare, dato che le attenuanti generiche sono state ritenute equivalenti rispetto
all'aggravante contestata.
Conseguentemente la riduzione di un terzo prevista dall'art.444 cod. proc.
pen. avrebbe dovuto determinare una pena finale di mesi dieci di reclusione
militare e non già di mesi otto e giorni venti come, invece, verificatosi nella
fattispecie.
3. Il procedimento, inizialmente incardinato presso la VII" sezione della
Corte, è stato poi assegnato a questa sezione competente per materia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
2.Come è noto, secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di
legittimità, l'erronea applicazione della diminuente del rito non è pena illegale nel
caso in cui la pena irrogata rientra comunque nei limiti edittali, trattandosi invece
di pena illegittima e non già illegale (Sez. U, Sentenza n. 47182 del 31/03/2022,
Rv. 283818 - 01).
2.1. Inoltre, la pena determinata a seguito dell'erronea applicazione del
giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto
nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e
seguenti, nonché 65 e 71 e seguenti, cod. pen., oppure i limiti edittali previsti per
le singole fattispecie di reato, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi
che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge
(Sez. U, Sentenza n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Rv. 283886 - 01).
2.2. Ciò posto va rilevato che nella vicenda in esame deve trovare
applicazione, ratione temporis, l'art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.,
introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, in vigore dal 3 agosto 2017,
cosicché occorre soffermarsi sulla nozione di pena illegale, con riferimento alla
quale la novella ha individuato uno dei casi di ricorso per cassazione contro la
sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Con tale nozione, il
legislatore ha recepito l'elaborazione della giurisprudenza di legittimità in sede di
definizione dell'ambito della sindacabilità, in punto determinazione della pena,
della sentenza di applicazione della pena su richiesta. Al riguardo le Sezioni Unite
di questa Corte (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264206), hanno
sottolineato come la giurisprudenza abbia sempre ritenuto inammissibile il
«ricorso per cassazione che proponga motivi concernenti la misura della pena»,
ma, allo stesso tempo, hanno anche affermato che «l'illegalità della pena
applicata all'esito del "patteggiamento" rende invalido l'accordo concluso dalle
parti e ratificato dal giudice, con conseguente annullamento senza rinvio della
sentenza che l'ha recepito, così reintegrando le parti nella facoltà di rinegoziare
l'accordo stesso su basi corrette»: si tratta dei casi in cui «la pena era stata
determinata contra legem, ad esempio per avere applicato una pena in misura
inferiore al minimo assoluto previsto dall'art. 23 cod. pen.» ovvero «indicato
come pena-base una pena inferiore a quella prevista come minimo edittale per il
reato unito con il vincolo della continuazione». In questo contesto, la
giurisprudenza di legittimità ha ricondotto, ai fini che qui rilevano, alla nozione di
pena illegale quella irrogata da una sentenza che recepisca un accordo tra le parti
relativamente a un reato continuato per il quale la pena-base risulti quantificata,
a seguito di una errata individuazione del reato più grave, in misura inferiore al
relativo minimo edittale (Sez. 6, n. 44336 del 05/10/2004, Mastrolorenzi, Rv.
230252, in una fattispecie nella quale anche la pena applicata, in esito al cumulo
ex art. 81, secondo comma, cod. pen., risultava inferiore al minimo fissato per il
reato più grave tra quelli in continuazione; conf., ex plurimis, Sez. 1, n. 5313 del
26/09/1997, Nisi, Rv. 208971, nonché, con riferimento a ricorso cui era
applicabile l'art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., Sez. 5, n. 49546 del
21/09/2018, Antinori, Rv. 274600).
E' stato anche chiarito che la valutazione di congruità della pena concordata
dalle parti debba essere compiuta dal giudice in relazione alla pena finale, cioè
con riferimento al risultato finale dell'accordo (cfr. Sez. 4, n. 4382 del
28/09/2000, Del Noce, Rv. 217696; conf. Sez. 4, n. 8151 del 10/01/2001,
Poidomani, Rv. 218995; v. anche Sez. 2, Ordinanza n. 52261 del 28/10/2016,
Ben Mohamed Salh, Rv. 268642), indipendentemente dai singoli passaggi interni
di computo, in quanto è unicamente il risultato finale che assume valenza quale
espressione ultima e definitiva dell'incontro delle volontà delle parti (Sez. 3, n.
28641 del 28/05/2009; Fontana, Rv. 244582 - 01), tanto che è stata affermata
l'irrilevanza degli eventuali errori di calcolo commessi nel determinare la sanzione
concordata ed applicata dal giudice, purché il risultato finale non si traduca in una
pena illegale, da intendere nel senso anzidetto (Sez. 4, n. 1853 del 17/11/2005,
dep. 18/01/2006, Federico, Rv. 233185; conf. Sez. 6, n. 44907 del 30/10/2013,
Marchisella, Rv. 257151; Sez. 1, n. 29668 del 17/06/2014, Cannizzo, Rv.
263217; Sez. 5, n. 51736 del 12/10/2016, Lopis, Rv. 268850).
3. Nel caso in esame la pena finale di otto mesi e venti giorni di reclusione
applicata all'imputato, conformemente alla sua richiesta ed alla quale aveva
consentito il pubblico ministero, non è inferiore al minimo assoluto previsto
dall'art. 23 cod. pen., né la pena considerata quale base di computo, vale a dire
quella di anni uno di reclusione, è inferiore a quella prevista come minimo edittale
per il reato contestato all'imputato (prevista dal secondo comma dell'art.234 cod.
pen. mil . pace), cosicché non si versa in una delle ipotesi di pena illegale
individuate dalla giurisprudenza di legittimità, alla configurazione delle quali non
concorrono gli eventuali errori di calcolo compiuti per la determinazione della
pena finale.
4. Il ricorso, pertanto, deve essere respinto senza la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali trattandosi di parte pubblica (Cass.
Sez. U, Sentenza n. 3775 del 21/12/2017, Rv. 271650).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 13 marzo 2024.
Avv. Antonino Sugamele

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