Truffa militare pluriaggravata
Cassazione Penale Sent. Sez. 1 Num. 34810 Anno 2025
Presidente: SIANI VINCENZO
Relatore: CENTONZE ALESSANDRO
Data Udienza: 01/10/2025
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta da
- Presidente -
FRANCESCO CENTOFANTI
DANIELE CAPPUCCIO
ALESSANDRO CENTONZE
TERESA GRIECO
SENTENZA
Sul ricorso proposto da
C. L., nato a N. il
avverso la sentenza emessa il 22/01/2025 dalla Corte militare di Roma
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Alessandro Centonze;
sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale militare, Giancarlo Roberto Bellelli,
che ha chiesto il rigetto del ricorso;
sentite, nell’interesse dell’interesse dell’imputato L. C., le conclusioni dell’avv.
Arcangela Campilongo, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
L'avvocato Campilongo conclude chiedendo l'accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa il 18 aprile 2024 il Tribunale militare di Roma assolveva L.
C. dal reato di truffa militare pluriaggravata, oggetto di contestazione, per non aver
commesso il fatto.
2. Con sentenza emessa il 22 gennaio 2025 la Corte militare di appello di Roma, in
riforma della decisione impugnata, giudicava L. C. colpevole del reato dal reato di
truffa militare pluriaggravata, così come ascrittogli e, riconosciute le attenuanti generiche, lo
condannava alla pena di un anno di reclusione militare, oltre al pagamento delle spese
processuali.
3. Nei giudizi di merito, che divergevano nei termini processuali che si sono richiamati,
si controverteva della responsabilità dell’imputato L. C. in ordine alla truffa militare
pluriaggravata oggetto di contestazione, che, secondo l’ipotesi accusatoria, sì sarebbe
concretizzata in relazione all’assegnazione di un alloggio di servizio, ubicato a C. in
Via….., per la quale il ricorrente non disponeva dei prescritti requisiti.
Occorre premettere che il presente procedimento traeva origine dalla segnalazione
effettuata dalla Procura della Repubblica militare di Roma, compendiata in una missiva del
29 marzo 2021, con cui si evidenziavano alcune anomalie procedurali riguardante la
posizione abitativa di L. C., con specifico riferimento all’alloggio di servizio, sopra
citato, di cui l’alto ufficiale aveva usufruito sino alla data del 30 novembre 2020. Su tali profili,
nei giudizi di merito, riferiva il gen. R. C., che evidenziava come, a seguito
della missiva sopra menzionata, veniva accertata l’esistenza di alcune discrepanze tra i
redditi dichiarati da ricorrente e quelli accertati dall’Agenzia delle Entrate di Roma, che
venivano correlate alla condizione di disabilità della figlia del ricorrente.
In questa cornice, deve evidenziarsi che l’assegnazione dell’alloggio militare di cui si
discute aveva luogo mediante la presentazione, da parte di L. C., non
corrispondenti allo stato delle condizioni prescritte normativamente, rappresentati dal
superamento della soglia di reddito prevista per usufruire dell’alloggio di servizio;
dall’assenza nel nucleo familiare di soggetti riconosciuti affetti da disabilità connotate da
particolare gravità; dalla proprietà di un altro alloggio abitabile ubicato sul territorio nazionale.
La difformità di tali atti dai parametri normativi emergeva, per un verso, dalle
dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà presentate da L. C. nelle date del 21
luglio 2000 e del 30 luglio 2003, per altro verso, dalle certificazioni uniche dei redditi da
lavoro dipendente depositate dallo stesso ricorrente negli anni 2000 e 2004.
Dopo il deposito di tali atti, il ricorrente non forniva ulteriori aggiornamenti documentali
sulla sua condizione reddituale e familiare, nonostante, negli anni2005 e 2006, gli fossero
stati inviati due solleciti da parte dell’Amministrazione militare, finalizzati a ottenere
chiarimenti sulla sussistenza delle condizioni legittimanti l’assegnazione dell’alloggio di
servizio controverso.
L’imputato L. C., pertanto, conseguiva un ingiusto profitto patrimoniale in
danno dell’Amministrazione militare, che veniva quantificato in 50.2690,65 euro. Tale
importo corrispondeva alla differenza tra quanto l’imputato avrebbe corrispondere
all’Amministrazione militare se non avesse presentato documenti mendaci e quanto aveva
effettivamente pagato nell’arco temporale compreso tra le date dell’1 agosto 2002 e del 5
Marzo 2020, nella quale ultima l’alto ufficiale veniva collocato in pensione per il
raggiungimento del limite di età.
In questo contesto processuale occorre evidenziare che, nel giudizio di primo grado,
venivano escussi i testi R. C., F.F. , E.S., G.R., A. F., C. C., I. G., A. B., S. A. ed E. T.; il primo di tali testi veniva esaminato anche nel giudizio
di secondo grado, ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.
Tuttavia, a tali dichiarazioni testimoniali si attribuiva una differente valenza probatoria
nei processi di merito, atteso che l’assoluzione pronunciata nel processo di primo grado
veniva integralmente riformata dalla Corte militare di appello, che, sottoponendo a
un’integrale rivisitazione il sottostante giudizio assolutorio, condannava L. C. per la
truffa militare pluriaggravata ascrittagli, a fronte di un compendio probatorio che, fatta
eccezione per l’esame del teste R. C., del quale si è già detto, rimaneva
sostanzialmente immutato.
La Corte territoriale, in particolare, riteneva insussistenti i margini di dubbio sull’effettiva
volontà di L. C. di porre in essere un’attività fraudolenta nei confronti della Pubblica
amministrazione, allo scopo di continuare a usufruire dell’alloggio di servizio controverso,
che, secondo il Tribunale militare di Roma, legittimavano la sua assoluzione nel giudizio di
primo grado.
Occorre aggiungere che a tali conclusioni la Corte militare di appello perveniva
evidenziando che, nel caso di specie, il nucleo probatorio essenziale era rappresentato dalle
dichiarazioni di testimoni indiretti, che erano stati assunti in servizio, presso il Comando
generale dell’Esercito italiano, in epoca successiva all’assegnazione dell’alloggio
controverso a L. C.. Ne conseguiva che tali dichiarazioni erano esclusivamente
incentrate su dati ricavabili dai documenti di cui i testi avevano la disponibilità per la loro
posizione professionale qualificata, ma non riguardavano fatti o comportamenti, riconducibili
all’imputato, dei quali i testimoni avevano una conoscenza diretta.
In altri termini, la conoscenza, esclusivamente indiretta, delle vicende sulle quali i
testimoni sentiti nel giudizio di primo grado erano stati esaminati imponeva di escludere che,
nel caso di specie, ci si trovasse di fronte alle condizioni processuali necessarie a ritenere
applicabile la disciplina dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., atteso che nessuno dei
testi esaminati aveva una conoscenza diretta degli accadimenti criminosi.
Ne discendeva che la Corte militare di appello di Roma procedeva a una rivalutazione
complessiva delle testimonianze assunte nel giudizio di primo grado, compiuta attraverso la
rivisitazione del compendio probatorio acquisito davanti al Tribunale militare di Roma. Tale
rivisitazione, tenuto conto delle connotazioni probatorie, sopra richiamate, imponeva di
ritenere superflua la rinnovazione del dibattimento ex art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.,
essendo le fonti di prova di cui il la Corte di merito disponeva idonee a consentire il
ribaltamento del giudizio assolutorio censurato e a formulare un giudizio di colpevolezza nei
confronti di L. C..
Sulla scorta di questa ricostruzione degli accadimenti criminosi e con le differenze che
si sono richiamate tra le due decisioni di merito, che si sono evidenziate, l’imputato L.
C. veniva condannato alle pene di cui in premessa.
4. Avverso la sentenza di appello L. C., a mezzo dell’avv. Arcangela
Campilongo, ricorreva per cassazione, articolando tre censure difensive.
Con il primo motivo di ricorso si deducevano la violazione di legge e il vizio di
motivazione del provvedimento impugnato, in riferimento all’art. 234 c.p.m.p., per non avere
la decisione in esame dato esaustivo conto delle ragioni che imponevano di ritenere
sussistenti gli elementi costitutivi della truffa militare pluriaggravata contestata a L.
C.. L’imputato, infatti, aveva usufruito dell’alloggio di servizio assegnatogli senza
fornire aggiornamenti documentali sulla sua condizione reddituale e familiare, senza porre in
essere alcun atteggiamento fraudolento, ma limitandosi a mostrarsi inottemperante ai due
solleciti, finalizzati a ottenere chiarimenti sulla sua posizione abitativa, inviatigli
dall’Amministrazione militare negli anni 2005 e 2006.
Con il secondo motivo di ricorso si deducevano la violazione di legge e il vizio di
motivazione della sentenza impugnata, per non avere la Corte di merito dato adeguato conto
della ricorrenza dell’elemento soggettivo della truffa militare pluriaggravata contestata
all’imputato, rilevante ex art. 47, terzo comma, cod. pen., quale errore sul precetto extra
penale idoneo a escludere l’atteggiamento fraudolento contestato a L. C., a fronte
di una situazione di obiettiva incertezza normativa sulle condizioni, reddituali e familiari,
necessarie alla fruizione del beneficio abitativo controverso.
Con il terzo motivo di ricorso si deduceva il vizio di motivazione della sentenza
impugnata, in riferimento all’art. 603, commi 3-bis e 3-ter, cod. proc. pen., 111 Cost. e 6
CEDU, conseguente al fatto che la decisione in esame non dava adeguato conto delle
ragioni che imponevano di ritenere attendibili le dichiarazioni rese dai testimoni escussi nel
giudizio di primo grado, che, peraltro, apparivano orientate in senso univocamente
favorevole a L. C., senza procedere al riesame di tali testimonianze, che
costituivano il nucleo essenziale del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti
dell’imputato.
Le considerazioni esposte imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.
3Corte di Cassazione - copia non ufficiale
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto da L. C. è infondato.
2. In via preliminare, occorre soffermarsi sulle questioni ermeneutiche, comuni a tutte le
doglianze prospettate con l’atto di impugnazione in esame, il cui vaglio appare propedeutico
e indispensabile per valutare le tre censure difensive.
In questo ambito, innanzitutto, occorre soffermarsi sul rapporto esistente tra le
sentenze di merito quando gli esiti delle due pronunce risultano divergenti, analogamente a
quanto riscontrabile con riferimento alla posizione dell’imputato L. C., che veniva
assolto nel giudizio di primo grado e veniva condannato in appello per la truffa militare
pluriaggravata oggetto di contestazione.
Infatti, tale questione ermeneutica, fa da sfondo all’intero atto di impugnazione, e, per
questa ragione, si ritiene indispensabile affrontarla preliminarmente.
Tanto premesso, deve rilevarsi che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa
Corte, la sentenza di primo grado e quella appellata, quando non vi è difformità sui punti
denunciati, si integrano, formando un complesso argomentativo inscindibile, costituito da
una sola entità processuale, logica e giuridica, alla quale occorre fare riferimento per
giudicare la congruità del percorso motivazionale seguito dai giudici di merito (tra le altre,
Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 166617 - 01; Sez. 6, n. 11878 del
20/01/2003, Vigevano, Rv. 224079 - 01; Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv.
209145 - 01).
Ne discende che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata,
si può anche limitare a rinviare per relationem a quest’ultima, sia nella ricostruzione del fatto
sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo
adeguato alle singole doglianze prospettate dall’appellante. In questo caso, naturalmente, il
controllo eseguito dal giudice di legittimità si estenderà alla verifica della congruità e della
logicità delle risposte fornite alle censure prospettate (tra le altre, Sez. 6, n. 3721 del
24/11/2015, dep. 2016, Rv. 265827 - 01; Sanna; Sez. 2, n. 8345 del 23/11/2013, dep. 2014,
Pierannunzio, Rv. 258529 - 01; Sez. 1, n. 1445 del 14/10/2013, dep. 2014, Spada, Rv.
258357 - 01).
L’obbligo motivazionale del giudice di appello, invece, assume connotazioni processuali
più rigorose e stringenti nel caso, analogo a quello che riguarda la posizione di L.
C., in cui la sentenza di appello formuli un giudizio di responsabilità radicalmente
contrapposto a quello espresso nel giudizio di primo grado.
Queste conclusioni discendono dal fatto che, in tali ipotesi, vi sono due valutazioni
giurisdizionali assolutamente difformi del medesimo materiale probatorio e, soprattutto, dalla
circostanza che l’imputato nei cui confronti si è prodotto il ribaltamento del giudizio di
responsabilità – a maggior ragione se tale rivisitazione, come nel nostro caso, gli è
sfavorevole – deve essere messo nelle condizioni di comprendere le ragioni che hanno
comportato la riforma della decisione appellata.
In questa cornice, occorre richiamare l’orientamento consolidato di questa Corte,
risalente e tuttora insuperato, secondo cui, laddove nel giudizio di secondo grado si sia
determinata l’integrale riforma della sentenza impugnata, si deve fare riferimento in termini
rigorosi al materiale sottoposto alla cognizione del giudice di appello, tenendo conto delle
acquisizioni dibattimentali e degli elementi probatori – decisivi ai fini della rivisitazione della
decisione di primo grado – posti a fondamento di quel giudizio. In queste ipotesi, l’obbligo
motivazionale del giudice di appello assume connotazioni più stringenti rispetto al caso in cui
la sentenza di appello si limiti a confermare la decisione impugnata, nel più generale
contesto prefigurato dalle Sezioni Unite in materia di riforma integrale delle decisioni di primo
grado, per il quale occorre richiamare il seguente principio di diritto: «In tema di motivazione
della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha
l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di
confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza,
dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la
riforma del provvedimento impugnato» (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv.
231679 - 01).
Né potrebbe essere diversamente, atteso che la motivazione della sentenza di appello
che riformi in senso radicale la decisione sottostante si caratterizza, quasi fisiologicamente,
per un obbligo peculiare e rafforzato della sua tenuta processuale, logica e argomentativa,
che si aggiunge a quello generale della non apparenza, non manifesta illogicità e non
contraddittorietà, desumibile dalla formulazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc.
pen., nel rispetto di quanto costantemente affermato da questa Corte, secondo cui: «In caso
di ricorso per manifesta illogicità della motivazione, il giudice di legittimità può esaminare la
sentenza di primo grado al fine di valutare se il giudice di appello abbia tenuto nel debito
conto, sia pure per disattenderle, le argomentazioni ivi esposte, in quanto la motivazione del
secondo giudice, soprattutto qualora la difformità investa l’affermazione o l’esclusione della
responsabilità, deve indicare le specifiche ragioni dell’invalidazione di quelle che sorreggono
la sentenza impugnata» (Sez. 4, n. 32970 del 23/06/2004, Santili, Rv. 229144 - 01; si
vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 6, n. 46847 del 10/07/2012,
Aimone, Rv. 253718 - 01; Sez. 5, n. 54300 del 14/09/2011, Banchero, Rv. 272082 - 01).
Questa impostazione, a sua volta, trae origine dall’orientamento ermeneutico
consolidatosi a seguito della risalente pronuncia delle Sezioni Unite, secondo cui: «Quando
le decisioni dei giudici di primo e di secondo grado siano concordanti, la motivazione della
sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo
argomentativo. Nel caso in cui, invece, per diversità di apprezzamenti, per l’apporto critico
delle parti e o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie, il giudice di appello ritenga di
pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado, non può allora
egli risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella struttura
argomentativa di quella di primo grado – genericamente richiamata – delle notazioni critiche
di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro
dissonanti, essendo invece necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale
probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla
sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima
sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle
difformi conclusioni» (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229 - 01).
Ancora di recente, le Sezioni Unite hanno ribadito (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017,
dep. 2018, Troise, Rv. 272430 - 01, in motivazione) che è l’introduzione del canone “al di là
di ogni ragionevole dubbio”, inserito nell’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. ad opera della
legge 20 febbraio 2006, n. 46 (ma già individuato quale inderogabile regola di giudizio da
Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139), ad avere guidato la
giurisprudenza, nel senso che per la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di
appello non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del
materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una
pronuncia di colpevolezza, ma occorre invece una “forza persuasiva superiore”, tale da far
venire meno “ogni ragionevole dubbio”. La condanna, infatti, come incisivamente notato da
Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066 «presuppone la certezza della
colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera
non certezza della colpevolezza».
3. Tanto premesso, deve ritenersi infondato il primo motivo di ricorso, con cui si
deducevano la violazione di legge e il vizio di motivazione della sentenza impugnato, per
non avere la decisione in esame dato adeguato conto delle ragioni che imponevano di
ritenere sussistenti gli elementi costitutivi della truffa militare pluriaggravata ascritta
all’imputato, che si era limitato ad usufruire dell’alloggio di servizio assegnatogli senza
fornire aggiornamenti documentali sulla sua condizione reddituale e familiare, senza che da
tale comportamento potesse ritenersi dimostrato il suo atteggiamento fraudolento.
Osserva il Collegio che la sequenza degli accadimenti criminosi non è contestata dalle
parti, essendo incontroverso che la fruizione dell’alloggio militare di cui si discute, ubicato a
C., in Via aveva luogo in assenza dei requisiti prescritti
normativamente. L’assenza di tali requisiti, peraltro ammessa dallo stesso imputato,
derivava sia dalle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà presentate da L. C.
nelle date del 21 luglio 2000 e del 30 luglio 2003, sia dalle certificazioni uniche dei redditi da
lavoro dipendente depositate dallo stesso ricorrente nel corso degli anni 2000 e 2004.
L’assenza di buona fede dell’alto ufficiale, del resto, appare corroborata da un ulteriore
dato circostanziale, anch’esso incontroverso, rappresentato dal fatto che, dopo il deposito
degli atti che si sono richiamati, il ricorrente non forniva ulteriori aggiornamenti documentali
sulla sua condizione reddituale e familiare, nonostante, negli anni2005 e 2006, avesse
ricevuto due solleciti da parte dell’Amministrazione militare, finalizzati a ottenere chiarimenti
sulla sua posizione abitativa.
Occorre, infine, aggiungere che su tali profili, in entrambi i giudizi di merito, riferiva il
gen. R. C., che evidenziava come – a seguito di una segnalazione effettuata
dalla Procura della Repubblica militare di Roma il 29 marzo 2021 – veniva accertata
l’esistenza di alcune discrepanze tra i redditi dichiarati da ricorrente e quelli accertati
dall’Agenzia delle Entrate di Roma, che venivano ulteriormente correlate alla condizione di
disabilità della figlia del ricorrente.
3.1. A tali considerazioni deve aggiungersi che nell’univoca cornice probatoria descritta,
le ipotesi alternative, prospettate in termini suggestivi ma congetturali dall’avv. Arcangela
Campilongo, oltre che processualmente infondate, si sono inevitabilmente poste in contrasto
con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che occorre ulteriormente ribadire,
riconducibile al principio di diritto affermato da Sez. 6, n. 5905 del 29/11/2011, dep. 2012,
Brancucci, Rv. 252066 - 01, secondo cui: «In tema di valutazione della prova, il ricorso al
criterio di verosimiglianza e alle massime d’esperienza conferisce al dato preso in esame
valore di prova se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi
l’ipotesi all’apparenza più verosimile, ponendosi, in caso contrario, tale dato come mero
indizio da valutare insieme con gli altri elementi risultanti dagli atti».
Questo orientamento, del resto, si inserisce in un filone giurisprudenziale ormai
consolidato, in tema di ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime di esperienza,
che si attaglia perfettamente al caso di specie e non consente di rivalutare il compendio
probatorio acquisito nei confronti di R. F., che è possibile esplicitare
richiamando il seguente principio di diritto: «Nella valutazione probatoria giudiziaria – così
come, secondo la più moderna epistemologia, in ogni procedimento di accertamento
(scientifico, storico, etc.) – è corretto e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle
massime di esperienza, ma, affinché il giudizio di verosimiglianza conferisca al dato preso in
esame valore di prova, è necessario che si possa escludere plausibilmente ogni alternativa
spiegazione che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile. Ove così non sia, il suddetto
dato si pone semplicemente come indizio da valutare insieme a tutti gli altri elementi
risultanti dagli atti» (Sez. 1, n. 4652 del 21/10/2004, dep. 2005, Sala, Rv. 230873 - 01; si
vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 6, n. 49029 del 22/10/2014, Leone,
Rv. 261220 - 01; Sez. 6, n. 31706 del 07/03/2003, Abbate, Rv. 228401 - 01; Sez. 6, n. 4688
del 28/03/1995, Layne, Rv. 201152 - 01).
3.2. Le considerazioni esposte impongono di ribadire l’infondatezza del primo motivo di
ricorso.
4. Dall’infondatezza del primo motivo discende l’infondatezza del secondo motivo, con
cui si deducevano la violazione di legge e il vizio di motivazione della sentenza impugnata,
per non avere la Corte di merito dato adeguato conto della ricorrenza dell’elemento
soggettivo della truffa militare pluriaggravata contestata all’imputato, rilevante ex art. 47,
terzo comma, cod. pen., quale errore sul precetto extra penale idoneo a escludere
l’atteggiamento fraudolento contestato a L. C., a fronte di una situazione di obiettiva
incertezza normativa sulle condizioni, reddituali e familiari, necessarie alla fruizione del
beneficio abitativo controverso.
Non può, in proposito, non rilevarsi che, inquadrata la fattispecie contestata alla stregua
delle indicazioni fornite dalla Corte di merito ed esclusa la buona fese dell’alto ufficiale, alla
luce degli elementi probatori richiamati nei paragrafi 3 e 3.1., le deduzioni del ricorrente
possono ritenersi fondate, essendo evidente che, per conseguire o mantenere il canone
agevolato dell’alloggio di servizio controverso, occorreva esclusivamente fornire la
dimostrazione della grave disabilità del familiare convivente.
A ben vedere, la correttezza del percorso argomentativo seguito dalla decisione
censurata ci proviene dal principio di diritto, che occorre ulteriormente ribadire, affermato da
Sez. 1, n. 20529 del 30/01/2024, Del Vecchio, Rv. 286493 - 01, secondo cui: «L’errata
interpretazione di una legge diversa da quella penale, cui fa riferimento l’art. 47, ultimo
comma, cod. pen., esclude sempre la punibilità quando ha cagionato un errore sul fatto
costituente reato doloso, mentre nel caso di reato colposo la punibilità è esclusa solo se
l’errata interpretazione è di natura scusabile».
Queste ragioni impongono di ribadire l’infondatezza del secondo motivo di ricorso.
5. Deve, infine, ritenersi infondato il terzo motivo di ricorso, con cui si deduceva il vizio
di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame
non dava esaustivo conto delle ragioni che imponevano di ritenere attendibili le dichiarazioni
rese dai testimoni escussi nel giudizio di primo grado, che, peraltro, apparivano orientate in
senso univocamente favorevole a L. C., senza procedere al riesame di tali
testimonianze, imposto dall’art. 603, commi 3-bis e 3-ter, cod. proc. pen., che costituivano il
nucleo essenziale del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti dell’imputato. Le
testimonianze controverse, in particolare, erano quelle rese nel giudizio di primo grado, da
F. F. , E.S. , G.R. , A. F., C. C., I.G., A.B., S. A. ed E. T..
Osserva, in proposito, il Collegio che, per inquadrare la censura difensiva in esame,
occorre evidenziare preliminarmente che, nell’introdurre l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc.
pen., invocato dalla difesa del ricorrente, il legislatore italiano si è mosso in una prospettiva
di continuità rispetto ai criteri ermeneutici sanciti dalle Sezioni Unite, laddove affermavano:
«È affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., per
mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art.
533, comma primo, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del
pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza
assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle
quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell’art. 603, comma terzo, cod. proc.
pen.; ne deriva che, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente
abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la
manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative
ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6, par. 3,
lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata» (Sez.
U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486 - 01).
Questo orientamento ermeneutico, del resto, veniva ulteriormente ribadito dalle Sezioni
Unite, con una pronuncia di poco successiva, in cui si affermava il seguente principio di
diritto: «È affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là
di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico
ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria
emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa
valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia
proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni» (Sez. U, n. 18620 del
19/01/2017, Patalano, Rv. 269785 - 01).
In questa cornice ermeneutica, dunque, si è mosso il legislatore italiano – intervenuto
tra le prime due pronunzie delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta,
cit.; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, cit.) e il terzo intervento chiarificatore sopra
citato (Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, cit.) –, che ha imposto la rinnovazione delle
prove dichiarative nelle ipotesi di appello proposto dal pubblico ministero contro una
sentenza di proscioglimento, integrale o parziale, senza imporlo quando l’epilogo decisorio
oggetto del giudizio di primo grado sia una decisione di condanna. Ne consegue che il testo
dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., così come novellato, non offre alcuno spazio
interpretativo utile nella direzione recepita nella sentenza impugnata, avendo il legislatore
chiaramente mutuato nel corpo della novellata disposizione quel nesso funzionale che le
Sezioni Unite avevano individuato tra l’esito liberatorio del giudizio di primo grado e la
possibile condanna in appello (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, cit.; Sez. U, n.
18620 del 19/01/2017, Patalano, cit.).
A questi, ineludibili, parametri ermeneutici la Corte militare di appello di Roma si
conformava correttamente, escludendo la necessità di procedere al riesame della
testimonianza rese dai testi F., S., R., F., C., G., B., A.e T., sull’assunto che il compendio probatorio acquisito nel giudizio di primo grado consentiva, sic et simpliciter, di ritenere di provato su base
documentale l’atteggiamento fraudolento dell’imputato e inutile la rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale, ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., essendo gli elementi
probatori di cui si disponeva essenzialmente documentali e, in quanto tali, sufficienti a
consentire la rivisitazione del giudizio assolutorio.
A sostegno di tali conclusioni la Corte militare di appello di Roma evidenziava che, nel
caso di specie, il nucleo probatorio essenziale era rappresentato dalle dichiarazioni di
testimoni indiretti, che erano stati assunti in servizio, presso il Comando generale
dell’Esercito italiano, in epoca successiva all’iniziale assegnazione dell’alloggio di servizio
controverso. Ne conseguiva che tali dichiarazioni non comportavano una rivalutazione
deidati circostanziali, incontroversi alla stregua di quanto già affermato nei paragrafi 3 e 3.1.,
erano esclusivamente incentrate su dati ricavabili, anche d parte dei suddetti dichiaranti, dal
materiale documentale di cui i testi erano in possesso nella loro posizione professionale
qualificata, più che riguardare fatti o comportamenti dei quali i testimoni avevano una
conoscenza diretta.
Supporta, a ben vedere, le conclusioni della il principio di diritto affermato da Sez. 4, n.
31541 del 22/06/2023, Lazzari, Rv. 284860 - 01, che si attaglia perfettamente al caso di
specie, secondo cui: «Il giudice d’appello che procede alla “reformatio in peius” della
sentenza assolutoria di primo grado, ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., non
è tenuto alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, nel caso in cui si limiti a una diversa
valutazione in termini giuridici di circostanze di fatto non controverse, senza porre in
discussione le premesse fattuali della decisione riformata».
Si muove, del resto, nella stessa direzione ermeneutica il principio di diritto affermato
da Sez. 2, n. 3129 del 30/11/2023, dep. 2024, Casopero, Rv. 285826 - 01, secondo cui: «Il
giudice d'appello che, diversamente qualificando il fatto, procede alla "reformatio in peius"
della sentenza di primo grado non è tenuto, ai sensi dell'art. 603, comma 3-bis cod. proc.
pen., alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, nel caso in cui si limiti a una diversa
valutazione, in termini giuridici, di circostanze di fatto non controverse, senza porre in
discussione le premesse fattuali della decisione riformata».
Queste ragioni impongono di ribadire l’infondatezza del terzo motivo di ricorso.
6. Le considerazioni esposte impongono conclusivamente il rigetto del ricorso, con la
conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 01/10/2025
Il Consigliere estensore Il Presidente
ALESSANDRO CENTONZE VINCENZO SIANI
06-11-2025 18:51
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