Il caso Turchia-Siria. Dalla Rivista Stato Maggiore della Difesa
Panorama Internazionale - Gianluca Sardellone
Roma, 1 ottobre 2012
L'abbattimento nello scorso mese di giugno di un F-4 Phantom turco (accusato di aver violato lo spazio aereo siriano) ha riportato in auge il tema dei rapporti tra due paesi, Turchia e Siria, da sempre protesi al rafforzamento del proprio status regionale. Estensione territoriale e potenziale militare li rendono, infatti, attori cruciali per gli equilibri strategici mediorientali, amplificando l'importanza di una crisi politico-militare. La Siria, nonostante la rivolta in corso, dispone di un potenziale militare notevole, in gran parte fornito da Russia e Cina (proprio un missile S-300 di fabbricazione russa ha abbattuto il jet turco) e, nonostante l'occupazione israeliana del Golan, controlla il Libano. La Turchia, tra i paesi membri della NATO, possiede il secondo esercito dopo quello americano per consistenza numerica, con modernissime unità aero-navali e mezzi corazzati. Abbattendo il jet turco, Damasco ha lanciato un monito alla comunità internazionale, confermando la fermezza nel difendere i propri confini ed il rifiuto di qualsiasi ingerenza esterna. A sua volta, Ankara ha paventato il ricorso alle garanzie previste dall'articolo V del Trattato Atlantico (il cosiddetto casus foederis condizionato, che assicura assistenza da parte dell'Alleanza ad un paese membro vittima di un attacco non provocato da un paese terzo), trovando nella NATO stessa un attore assai critico verso il regime di Assad e la feroce repressione della rivolta che sta operando.All'indomani dell'abbattimento del jet, dopo essersi accusate a vicenda, Siria e Turchia hanno concentrato le proprie forze armate presso i confini, aprendo scenari di guerra: ma, al contempo, quale gesto di distensione, hanno operato congiuntamente nella ricerca dei due piloti dispersi in mare. I rapporti tra Turchia e Siria, del resto, sono storicamente difficili: numerose sono state, negli anni, le fonti di tensione e l'abbattimento del jet non rappresenta che il climax di una contrapposizione che, con alterne fasi di acutezza, già nel 2011, aveva visto il congelamento dei rapporti diplomatici e la chiusura dell'ambasciata turca a Damasco. Colonia ottomana fino al 1918, la Siria, durante la guerra fredda, è stata un fido alleato dell'URSS e fiero avversario di Israele, mentre la Turchia rappresentava, nel contesto NATO, il perno del sistema di difesa dell'Europa sud-orientale. Dopo il 1989, la contrapposizione tra i due paesi non si è arrestata ma, semmai, arricchita di nuovi motivi di frizione. La Siria, sostenendo la guerriglia curda del PKK, principale minaccia per la sicurezza interna della Turchia, ha tenuto il vicino impegnato in un logorante conflitto a bassa intensità. E, al contempo, ha guadagnato un poco invidiabile inserimento nella lista degli stati-canaglia, per il sostegno al terrorismo internazionale ed i programmi di riarmo non-convenzionale.Negli anni novanta è stato il fattore-acqua ad aprire un nuovo fronte di contrapposizione: la Turchia, ove nascono i due principali fiumi della regione (Tigri ed Eufrate), ha avviato un colossale progetto denominato GAP, che le avrebbe permesso di controllare gli approvvigionamenti idrici dei paesi vicini. Stabilendo un asse politico-militare con Israele, la Turchia ha prodotto una sindrome da accerchiamento nella Siria, che ha reagito approfondendo i legami con l'Iraq di Saddam Hussein, l'Iran e gli Hezbollah libanesi (longa manus per controllare de facto, il Libano), nemici storici di Israele. La profonda crisi attualmente in corso in Siria, con lo scontro tra i sostenitori di Assad e l'opposizione, obbliga, tuttavia, la Turchia ad agire dopo attente riflessioni, valutando con estrema cura un'eventuale opzione militare: Ankara, pur beneficiando, nel breve periodo, del crollo di un competitor militare, teme di perdere un importante partner commerciale ed un baluardo contro l'indipendentismo curdo nell'Iraq settentrionale (che, in caso di successo, ri-attiverebbe quello nel sud-est turco). Una possibile “balcanizzazio ne” della Siria, con l'approfondimento delle lacerazioni tra le varie anime del paese (sunniti, drusi e l'elite alawita attualmente dominante) potrebbe portare ad una deriva integralista e favorire l'ascesa al potere di gruppi islamici radicali: per la Siria si aprirebbe un destino non-dissimile dal Libano o dallo stesso Iraq e la Turchia vedrebbe ai suoi confini un ulteriore focolaio di crisi.Il regime laico e nazionalista di Assad, del resto, ha garantito stabilità, evitando una deriva integralista e teocratica sul modello iraniano: un'eventuale atomizzazione post-guerra civile ne farebbe uno stato fallito stile Afghanistan, Sudan o Iraq, humus ideale per il terrorismo internazionale. Attualmente, secondo l'intelligence americana, migliaia di jihadisti provenienti da Libano ed Iraq sarebbero penetrati in Siria: un eventuale collasso statuale schiuderebbe loro le porte degli arsenali non-convenzionali detenuti da Damasco, con potenziali scenari da incubo sia per la Turchia che per due paesi dal fragile equilibrio, il Libano e la Giordania.
da www.difesa.it
13-10-2012 21:56
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