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Sentenza

L'atteggiamento accomodante del superiore gerarchico non giustifica la violazion...
L'atteggiamento accomodante del superiore gerarchico non giustifica la violazione da parte del militare di una norma di rango primario.
T.A.R.  sez. I  Ancona , Marche  Data:     07/02/2013 ( ud. 10/01/2013 , dep.07/02/2013 )  Numero:     105

                             REPUBBLICA ITALIANA                         
                         IN NOME DEL POPOLO ITALIANO                     
             Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche         
                               (Sezione Prima)                           
    ha pronunciato la presente                                           
                                  SENTENZA                               
    sul ricorso numero di registro generale 823 del 2011, proposto da:   
    Vi. Ca., rappresentato e  difeso  dall'avv.  Lorenzo  Lazzarini,  con
    domicilio eletto presso Avv. Marco Luchetti in Ancona,  via  Mazzini,
    156;                                                                 
                                   contro                                
    Ministero  della  Difesa,  rappresentato  e    difeso    per    legge
    dall'Avvocatura Distr. Dello Stato,  domiciliata  in  Ancona,  piazza
    Cavour, 29;                                                          
    Ministero della Difesa Direzione Generale Per il  Personale  Militare
    III Reparto, Direzione Commissariato  Militare  Marittimo  di  Ancona
    della Marina Militare, Centro di Selezione della Marina  Militare  di
    Ancona, non costituiti in giudizio;                                  
                             per l'annullamento                          
    - della nota prot. 93/27 emessa in data 07/06/2011 dalla Direzione di
    Commissariato Militare Marittimo di Ancona;                          
    - del dispaccio emesso dal Ministero della Difesa prot. n.  M-D  GMIL
    III 50235849 del 12.05.2011;                                         
    - della nota prot. 0000597 P. del  15703/2011  della  Presidenza  del
    Consiglio dei Ministri;                                              
    - della circolare del Ministero della Difesa  DPGM  301  del  1999  e
    della nota prot. M_D GMIL_04_0396572 del 31.07.2008;                 
    Visti il ricorso e i relativi allegati;                              
    Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;  
    Viste le memorie difensive;                                          
    Visti tutti gli atti della causa;                                    
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 gennaio  2013  il  dott.
    Giovanni Ruiu e uditi per le parti i difensori come  specificato  nel
    verbale;                                                             
    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.              


    Fatto
    FATTO e DIRITTO

    1. Il ricorrente, in qualità di Sottufficiale in servizio presso il Centro di Selezione della Marina Militare di Ancona, con mansioni di assistente sanitario-infermiere, impugna gli atti in epigrafe con cui l'Amministrazione di appartenenza avviava la procedura di recupero, ai sensi dell'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001, della somma complessiva di € 193.305,88 dallo stesso percepita a titolo remunerativo per attività lavorativa di infermiere svolta, senza la prescritta autorizzazione, presso case di cura e altri organismi sanitari privati negli anni dal 2001 al 2008.

    Vengono inoltre impugnati gli atti connessi del procedimento.

    Si è costituito il Ministero della Difesa per contestare, nel merito, le deduzioni di parte ricorrente chiedendone il rigetto.

    2. Con il primo motivo viene dedotta violazione dell'art. 896 comma 4 del Codice dell'ordinamento militare (D.Lgs. 66/2010) che, nel richiamare solo i commi da 8 a 16-bis dell'art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001, esclude il comma 7 applicato invece dall'Amministrazione. Inoltre, il ricorrente afferma l'insussistenza del potere di recupero della PA, deducendo l'eccesso di potere e la violazione del principio di legalità, nonché difetto di motivazione e violazione degli obblighi di partecipazione procedimentale.

    2.1 L'articolata censura non merita condivisione.

    2.2 Al riguardo va ricordato che nel periodo di svolgimento dell'attività in contestazione era vigente il divieto generale di cui all'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui i dipendenti pubblici non possano svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, viene aggiunto che il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte sia versato nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.

    Il precedente comma 6, dello stesso articolo, stabilisce che tale norma, unitamente ai successivi commi da 8 a 13, si applica a tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1 comma 2, compresi quelli di cui all'art. 3 del medesimo D.Lgs. n. 165/2001, ossia i dipendenti del cd. regime pubblico non privatizzato, che include indubbiamente il personale militare.

    In tale periodo era inoltre vigente il divieto specifico disciplinato dall'art. 12 della Legge n. 599/1954, secondo cui il sottufficiale in servizio permanente è vincolato da rapporto di impiego di carattere stabile e continuativo, e non può esercitare alcuna professione, mestiere, industria o commercio, né comunque attendere ad occupazioni o assumere incarichi incompatibili con l'adempimento dei suoi doveri.

    Successivamente alla conclusione dell'attività in esame, entrava in vigore il D.Lgs. n. 66/2010 secondo cui la professione di militare è incompatibile con l'esercizio di ogni altra professione, salvo i casi previsti da disposizioni speciali, ed altresì incompatibile con l'esercizio di un mestiere, di un'industria o di un commercio, con la carica di amministratore, consigliere, sindaco o altra consimile, retribuita o non, in società costituite a fine di lucro (art. 894), ribadendo poi il principio generale secondo cui anche i militari non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza (art. 896).

    Posto tale quadro normativo di riferimento, risulta quindi irrilevante la disciplina introdotta dalla Legge n. 43/2006 che prescrive l'iscrizione nell'albo professionale degli infermieri anche per i pubblici dipendenti, trattandosi di norma che disciplina esclusivamente i requisiti di professionalità all'interno del pubblico impiego (come analogamente avviene per altre categorie professionali quali, ad esempio, gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti che prestano servizio nelle pubbliche amministrazioni) e che non introduce alcuna deroga al regime dei divieti sopra ricordati.

    Del resto tale conclusione è confermata dall'art. 210 del D.Lgs. n. 66/2010 che invece introduce una specifica deroga per il solo personale medico; norma speciale che non può che essere oggetto di stretta interpretazione e su cui si ritornerà per l'esame dell'eccezione di incostituzionalità dedotta con successivo motivo di ricorso.

    2.3 Sempre con riguardo alla natura del potere e la presenza del potere di recupero per l'amministrazione, l'applicazione dell'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001, nel caso specifico, risulta poi compatibile anche con le previsioni dell'art. 896 comma 4 del D.Lgs. n. 66/2010 su cui si sofferma diffusamente il ricorrente.

    Tale conclusione, peraltro già raggiunta da recente giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Lecce, Sez. III, 2.7.2012 n. 1157) su cui l'odierno Collegio ritiene di convenire, è supportata dalle seguenti considerazioni:

    - l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 66/2010 è successiva all'attività svolta senza autorizzazione, per cui si deve ritenere che i relativi rapporti giuridici, tra dipendente e datore di lavoro, siano regolati dalla normativa in vigore all'epoca dei fatti; attività illegittimamente esercitata e da cui sorge l'obbligazione di versare al proprio ente le somme percepite;

    - il D.Lgs. n. 66/2010, volto essenzialmente a riordinare i molteplici testi normativi in materia militare, non ha voluto escludere, anche per il futuro, la disciplina di cui all'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001 poiché di applicazione generale per effetto del precedente comma 6 sopra esaminato. L'unica disciplina generale che può subire deroghe (o, meglio, adattamenti), essendo applicabile "in quanto compatibile", viene quindi espressamente limitata ai soli commi da 8 a 16-bis del richiamato art. 53. Del resto, se l'effettiva intenzione del Legislatore fosse stata quella di escludere, dall'ordinamento militare, l'integrale applicazione dell'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001, ciò determinerebbe fondati i dubbi di legittimità costituzionale per evidente e ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri dipendenti pubblici; dubbi a fronte dei quali non può che essere adottata una soluzione interpretativa costituzionalmente orientata e coerente con i principi generali in materia di pubblico impiego.

    Questa conclusione priva di rilievo le considerazioni formulate, sempre nel primo motivo di ricorso, circa la qualificazione del potere esercitato con l'adozione dei provvedimenti impugnati. Premesso che il Collegio condivide l'argomento secondo cui nella specie non si è in presenza delle consuete fattispecie di recupero da parte della P.A. datrice di lavoro di somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, la qualificazione del potere in argomento come potere sanzionatorio non muta la conclusione, sia perché non si è in campo penalistico, sia perché, come detto in precedenza, a non essere condivisibile è l'interpretazione che parte ricorrente pretende di fornire al disposto dell'art. 896 del D.Lgs. n. 66/2010.

    2.4 Alla luce delle considerazioni di cui sopra, perdono rilevanza le censure di difetto di motivazione istruttoria effettuate dal ricorrente, considerando che l'Amministrazione era vincolata all'interpretazione, corretta, delle norme giuridiche da applicare, per cui il provvedimento risulta sufficientemente motivato con riferimento alla fattispecie e ai riferimenti normativi applicati.

    3. Con il secondo motivo viene dedotta violazione della buona fede e del legittimo affidamento. Ciò anche a ragione dell'incertezza del quadro normativo, in quanto lo svolgimento dell'attività libero professionale di infermiere sarebbe comunque esercitabile, senza autorizzazione, per effetto degli artt. 1, 208, 212 e 893 del D.Lgs. n. 66/2010 in combinata lettura con le disposizioni della Legge n. 43/2006 che prescrive l'iscrizione nell'albo professionale degli infermieri anche per i pubblici dipendenti.

    In disparte la dedotta incertezza del quadro normativo, non esistente come chiarito nella trattazione del primo motivo, dove è stata confutata l'interpretazione del ricorrente, non è rilevante che l'Amministrazione fosse a conoscenza dell'attività extralavorativa esercitata illegalmente (anche da parte di altri colleghi del Centro), mostrando segni di tolleranza e senza mai intervenire. Inoltre, nel caso in esame, il come già osservato dalla giurisprudenza sopra richiamata (cfr. TAR Lecce, n. 1157/2012 cit.), qualsiasi atteggiamento accomodante (e quindi illecito) dei superiori gerarchici non giustificherebbe di per sé la disapplicazione di una norma di rango primario che lo stesso militare non può certo disconoscere, anche indipendentemente da circolari di servizio che tacevano riguardo all'applicabilità dell'art. 57 comma 7 citato, trattandosi di atti meramente interni e inidonei ad incidere sull'applicabilità di fonti normative primarie e secondarie.

    Nel caso specifico non emerge quindi alcuna buona fede, in capo al ricorrente, sul fatto che stesse svolgendo attività extralavorativa non autorizzata, dovendosi quindi assumere la diretta responsabilità di tutte le relative conseguenze.

    Né può mutare tale situazione la circostanza che il ricorrente sia stato assolto in sede penale per avere avuto un "autorizzazione" dal proprio superiore. Difatti la sentenza del Tribunale Militare di Roma n. 2 del 13.1.2011, ha semplicemente escluso la colpevolezza per il militare del reato di truffa pluriaggravata di cui all'art. 47 n. 2 e 234 del Codice penale Militare di Pace. La citata sentenza, a pag. 15 e 16 argomenta anche essa sull'assoluta chiarezza della norma ed sull'impossibilità di svolgere l'attività lavorativa extraprofessionale. Ancora, il giudice penale precisa che non è da passare sotto silenzio che l'autorizzazione rilasciata dal Direttore dell'Infermeria Autonoma di Ancona Cap. Vas. Conti non contemplava, anzi sembrava escludere di per sé, almeno implicitamente, lo svolgimento di qualunque attività lavorativa privata all'interno dell'orario di servizio, parlandosi a pag. 19 di negligenza inescusabile che di per sé, come del resto già specificato, appare del tutto incompatibile con la presenza di un affidamento tutelabile nel ricorrente. Conseguentemente l'autorizzazione a svolgere attività libero professionale a titolo remunerativo, contra legem e proveniente da soggetto radicalmente incompetente, oltre ad essere stata adottata nel 2000 e mai rinnovata, non era tale da generare alcun affidamento tutelabile del ricorrente relativamente alla sua condotta.

    4. Con successivo motivo viene dedotta l'illegittimità costituzionale dell'art. 210 del D.Lgs. n. 66/2010, nella parte in cui autorizza il personale medico a svolgere (senza autorizzazione) attività professionale extra ufficio, senza includervi anche gli infermieri la cui professione avrebbe numerosi caratteri comuni.

    4.1 La questione è innanzitutto irrilevante nel caso specifico.

    Al riguardo è sufficiente osservare che il D.Lgs. n. 66/2010 entrava in vigore dal 9.10.2010, per cui la sua eventuale illegittimità costituzionale non può sanare attività illegittimamente svolte sotto il regime precedente.

    4.2 La questione è comunque anche manifestamente infondata, come già rilevato dalla giurisprudenza sopra richiamata e qui ritenuta condivisibile (cfr. TAR Lecce, n. 1157/2012 cit.).

    Il ricorrente pone in rilievo la pretesa disparità di trattamento tra la professione di medico e quella di infermiere considerata del tutto analoga.

    Al riguardo va tuttavia osservato che se le due professioni in esame presentano alcune analogie (come potrebbero sussistere, ad esempio, tra ingegneri/architetti e geometri, dottori commercialisti e ragionieri, dottori agronomi e periti agrari), per altro verso sussistono diversità tali (per ordinamento didattico, requisiti formativi e di accesso alla professione, albo professionale, mansioni, competenze, professionalità e responsabilità), che rendono, la professione medica, inidonea per essere individuata come cd. tertium comparationis rispetto a quella infermieristica.

    In tale prospettiva la questione di costituzionalità sollevata non supera quindi il vaglio preliminare di non manifesta infondatezza posto che, per orientamento consolidato della Corte Costituzionale, in presenza di norme generali e norme derogatorie può porsi una questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di eguaglianza solo quando si assuma che queste ultime, poste in relazione alle prime, siano in contrasto con tale principio. Viceversa, "quando si adotti come tertium comparationis la norma derogatrice, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale non può essere se non il ripristino della disciplina generale, ingiustamente derogata da quella particolare, non l'estensione ad altri casi di quest'ultima" (cfr. Corte Cost. nn. 298/1994, 418/2004, 344/2008).

    5. Con il quinto motivo viene dedotta omessa comunicazione di avvio del procedimento di recupero delle somme in esame.

    La censura è infondata.

    Al riguardo è sufficiente osservare che, antecedentemente al provvedimento del 7.6.2011, veniva notificata al ricorrente (in data 24.5.2011) la nota datata 15.3.2011 che contiene tutti gli elementi istruttori posti a fondamento della pretesa dell'Amministrazione, come pure la prospettata violazione dell'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001 e il contestuale invito, al competente servizio amministrativo, per l'adozione dei conseguenti provvedimenti.

    Tanto risulta sufficiente affinché l'interessato fosse a perfetta conoscenza dell'avvio del procedimento amministrativo.

    6. Con ulteriore motivo viene dedotta violazione dell'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001, che prescrive la previa escussione dell'ente erogante e solo in subordine l'escussione del prestatore di lavoro.

    Anche tale censura va disattesa.

    Il Collegio non ignora il diverso orientamento assunto dalla giurisprudenza già richiamata (cfr. TAR Lecce, n. 1157/2012 cit.), ritenendo tuttavia di non condividerlo.

    La norma in esame recita: ".... il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore.....", e non può che essere letta in chiave dinamica.

    Va innanzitutto ricordato che quello della preventiva escussione di uno dei condebitori è un istituto che trova compiuta definizione e disciplina nel codice civile (es. artt. 1944, 2268, 2304 e 2868) e che, pertanto, quando viene richiamato in altre disposizioni normative esso va indicato e disciplinato in maniera espressa (viste le conseguenze che l'obbligo della preventiva escussione produce a carico del creditore e degli altri condebitori). Al riguardo è sufficiente ricordare le seguenti disposizioni: art. 75 comma 4 del D.Lgs. n. 163/2006; art. 29 comma 2 D.Lgs. n. 276/2003; art. 14 comma 1 del D.Lgs. n. 472/1997; art. 8 comma 7 della Convezione di Ginevra ratificata in Italia con Legge n. 706/1982.

    Nel caso specifico, mancando un chiaro e inequivoco riferimento all'istituto del "beneficium excussionis", l'obbligo dell'erogante (che potrebbe anche risultare in buona fede) sussiste solo fino a quando trattiene, nella propria disponibilità patrimoniale, il compenso dovuto; compenso che, una volta erogato, esce dal patrimonio dell'erogante per entrare in quello del percettore che assume, di conseguenza, l'obbligazione nei confronti dell'amministrazione di appartenenza.

    Peraltro i soggetti pubblici e privati che si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato, rese dai dipendenti pubblici senza autorizzazione, sono autonomamente soggetti ad una sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti ai predetti dipendenti pubblici (cfr. art. 6 comma 1 D.L. n. 79/1997 convertito nella Legge n. 140/1997), il che renderebbe obiettivamente sproporzionato l'onere di corrispondere, per una terza volta, la somma erogata a titolo di compenso, per poi dover intraprendere un'azione di rivalsa che potrebbe anche risultare infruttuosa per effetto del principio sinallagmatico tra la prestazione resa dal lavoratore (irripetibile) e il compenso ricevuto (di cui si chiede invece la ripetizione).

    In tal caso si vanificherebbe, in larga misura, l'effetto disincentivante nei confronti del pubblico dipendente, che è invece il primo soggetto responsabile della condotta illecita qui sanzionata.

    Inoltre, nel caso in cui i compensi de quibus siano erogati al dipendente pubblico da soggetti privati, l'obbligo della preventiva escussione dei soggetti eroganti potrebbe vanificare la realizzazione della pretesa dell'amministrazione, visto che i soggetti privati - specie quando si tratta di imprese - possono facilmente perdere, nel corso del tempo, la propria solvibilità.

    7. Con l'ultimo motivo viene dedotta violazione dell'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001, poiché il compenso da versare all'amministrazione avrebbe dovuto essere calcolato al netto delle imposte già pagate dal dipendente.

    Va disattesa pure quest'ultima censura.

    Anche in tal caso il Collegio ritiene di non condividere pienamente l'orientamento giurisprudenziale già maturatosi sul punto e richiamato dalla parte ricorrente.

    Come già evidenziato in precedenza, l'art. 53 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001 mira a disincentivare, attraverso misure patrimoniali, il deplorevole fenomeno del doppio lavoro dei pubblici dipendenti fuori dai casi espressamente stabiliti dall'ordinamento.

    La ratio di tale disposizione risulta quindi evidente nella volontà del legislatore di evitare che il dipendente pubblico possa trarre alcun beneficio economico dall'attività extra lavorativa svolta illegalmente.

    Di conseguenza pare ragionevole disporre, in primo luogo, il recupero dell'intera somma indebitamente percepita. In tal caso il dipendente, per evitare diminuzioni patrimoniali superiori a quanto dovuto, potrà contare, ad esempio, sullo strumento del credito d'imposta come evidenziato dall'Amministrazione resistente.

    Solo qualora non sia obiettivamente possibile ristabilire l'equilibrio patrimoniale tra quanto percepito e quanto versato all'amministrazione di appartenenza (il cui onere probatorio incombe sull'interessato), si potrà convenire, con quest'ultima, un recupero parziale al netto di somme ormai irripetibili e da cui il dipendente non ha tratto alcuna utilità.

    8. Il ricorso va conclusivamente respinto.

    9. La particolarità e in parte novità della vicenda, costituiscono giustificate ed eccezionali ragioni per disporre la compensazione delle spese tra le parti.
    PQM
    P.Q.M.

    Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

    Spese compensate.

    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

    Così deciso in Ancona nella camera di consiglio del giorno 10 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:

    Gianluca Morri, Presidente FF

    Tommaso Capitanio, Consigliere

    Giovanni Ruiu, Consigliere, Estensore

    DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 07 FEB. 2013.
Avv. Antonino Sugamele

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