Lite tra militari. Lesioni reciproche art. 223 cpmp. Pubblico scandalo.
Cassazione penale sez. I 22/01/2014 ( ud. 22/01/2014 , dep.18/02/2014 )
Numero: 7576
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIOTTO Maria Cristina - Presidente -
Dott. ZAMPETTI Umberto - Consigliere -
Dott. LOCATELLI Giuseppe - Consigliere -
Dott. LA POSTA Lucia - Consigliere -
Dott. MAGI Raffaello - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
G.G. N. IL (OMISSIS);
R.M. (ANCHE QUALE PARTE CIVILE) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 96/2012 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA, del
21/11/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 22/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. RAFFAELLO MAGI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Flamini Luigi
Maria che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità dei
ricorsi;
Udito, per la parte civile, l'Avv. Sperati in sost. avv. Marsigli;
Udito il difensore Avv. Baccigalupi P. per G.G.;
Sperati R. in sost. avv. Marsigli P. per R.M. che hanno
chiesto l'accoglimento dei ricorsi.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza resa in data 10 dicembre 2012 la Corte Militare di Appello confermava - sia pure riducendone l'ambito rispetto alla decisione di primo grado - la penale responsabilità di G. G. e confermava integralmente quella di R.M., entrambi tratti a giudizio per il reato di lesioni - di cui all'art. 223 c.p.m.p. - commesso in danno reciproco il (OMISSIS).
La vicenda oggetto di giudizio viene ricostruita dalla Corte di Appello in modo non difforme rispetto alle statuizioni espresse dal Tribunale Militare di Verona, se non per una specifica condotta lesiva, attribuita in primo grado - in un più ampio contesto imputativo - al G. e ritenuta insussistente (la frattura articolare della falange unguale del quinto dito della mano destra) con conseguente esclusione della circostanza aggravante di cui all'art. 224 c.p.m.p. originariamente contestata al medesimo G..
Pertanto, all'esito di detta decisione :
- G.G. è stato ritenuto responsabile del reato di lesioni commesso in danno di R.M. con l'aggravante del grado rivestito e condannato, previo riconoscimento delle attenuanti generiche ritenute prevalenti, alla pena di mesi quattro di reclusione militare;
- R.M. è stato ritenuto responsabile del reato di lesioni commesso in danno di G.G. nonchè del reato di minaccia - riuniti dal vincolo della continuazione -, con l'aggravante del grado rivestito e con l'ulteriore aggravante dell'aver commesso il fatto in circostanze di luogo tali da generare un pubblico scandalo e condannato - previo riconoscimento delle attenuanti generiche ritenute prevalenti - alla pena di mesi cinque di reclusione militare.
Inoltre, la Corte, statuendo sulle richieste risarcitorie:
- condannava G. al risarcimento del danno nei confronti del R. liquidandolo, in via equitativa e definitivamente, nella misura di Euro 2.000,00;
- confermava la statuizione di primo grado con cui R. era stato condannato al risarcimento del danno subito da G. già liquidato definitivamente in Euro 1.000,00.
Risulta pertanto dalla motivazione della sentenza, salve le precisazioni di seguito operate, che:
- i due militari, entrambi domiciliati presso il villaggio della Marina Militare di (OMISSIS) (in provincia di (OMISSIS)) si resero protagonisti di un animato litigio inannzi a più persone, avvenuto nel cortile antistante l'ingresso degli alloggi di servizio, nel corso del quale si procurarono reciproche lesioni;
- in particolare mentre R. riportava escoriazioni al ginocchio sinistro e alla mano destra, graffi al collo, una ecchimosi alla fronte e una piccola lesione all'incisivo inferiore destro, G. riportava lesioni al capo, consistenti in una tumefazione alla fronte con trauma cranico, graffi al collo e alla regione claveare come certificate dalla dottoressa C., apprezzate come casualmente ricollegabili all'azione dell'antagonista;
- inoltre, nel corso della lite il R. avrebbe pronunziato, rivolgendosi al G. la frase "ti mando sulla sedia a rotelle".
La ricostruzione dei fatti nel giudizio di primo grado - espressamente richiamata dalla decisione impugnata - è avvenuta attraverso le deposizioni di diversi testimoni per lo più diretti e presenti in loco - dato che il fatto trae origine da un litigio per ragioni condominiali, correlato alla presenza di bambini che giocavano nell'area adibita a cortile e ciò veniva posto a fondamento delle rimostranze del R., per le difficoltà di manovra della sua autovettura, inizialmente rivolte alla signora L., moglie del G. - cui si aggiungono le dichiarazioni rese dagli interessati e gli esiti documentali e testimoniali di tipo medico-legale. Non potendosi qui riportare l'ampio compendio narrativo, teso a rappresentare gli immediati antecedenti causali e la dinamica della colluttazione, di certo intervenuta tra i due (in virtù delle deposizioni rese dai testi B., S., C. e L.), va evidenziato che la Corte d'Appello, nel valutare le specifiche doglianze in quella sede formulate, in sintesi:
a) escludeva la sussistenza della scriminante della legittima difesa, invocata da entrambi gli appellanti; ciò in ragione del fatto che i contendenti erano stati animati, ciascuno, da autonoma e univoca volontà lesiva e si erano posti l'uno contro l'altro, pur potendo evitare il contatto, dando luogo ad un contesto di sfida reciproca.
In tal senso, pur essendovi traccia nelle deposizioni di un inizio di concreta attività lesiva posto in essere dal R., non assume determinante rilievo il punto in questione, stante la reciproca volontà di dare vita ad una colluttazione, nè assume rilievo l'indubbio atteggiamento provocatorio e intollerante tenuto nella circostanza dal R. che, innescata la prima fase dell'alterco, aveva in malo modo apostrofato la moglie del G. e lo aveva, successivamente, invitato a scendere giù nel cortile per regolare i conti (secondo una teste attraverso l'espressione "scendi che ti rompo il culo") mentre costui era affacciato al balcone. Ciò perchè il G., ben potendo tenere un diverso atteggiamento di tutela, teso a far rientrare la moglie ed i figli in casa e a non accettare la sfida, scese nel cortile con il chiaro intento di dar luogo allo scontro, poi puntualmente verificatosi come risulta ampiamente dall'istruttoria;
b) dichiarava insussistente - o quantomeno incerto - il nesso causale tra la condotta tenuta dal G. e la specifica lesione al dito della mano destra subita dal R.. Ciò perchè la particolare tipologia di lesione (frattura articolare della falange unguale del quinto dito della mano destra) deriva dal fatto che la mano in condizione di estensione - e non già chiusa a pugno - va ad impattare contro un ostacolo e pertanto, non essendo alcun teste che asseveri la caduta in terra del R. (o dello stesso G.) durante la lite, non vi è prova convincente circa una eziologia correlata all'azione aggressiva del G.. L'ipotesi alternativa sarebbe infatti una ipotesi di "autolesione involontarià verificatasi durante l'aggressione (per avere il R. cercato di allontanare il G. con la mano aperta o per aver urtato contro altra superficie durante la sua azione lesiva) che non può essere ragionevolmente esclusa, anche in relazione a quanto affermato dallo stesso consulente di parte della difesa R.. Tale lesione, dunque, a differenza delle altre - ritenute compatibili per sede e natura con l'azione aggressiva del G., viene esclusa dal quadro di responsabilità addebitato al G., sia sul piano della rilevanza penale che su quello risarcitorio;
c) rigettava la richiesta del G. di ritenere sussistente, in subordine, l'attenuante della provocazione; ciò perchè è emersa l'esistenza di dissapori pregressi tra i due (testimonianza Bi.) tali da far ritenere esistente una complessiva animosità reciproca, anche antecedente all'episodio in trattazione.
In tali casi non può ritenersi sussistente il fondamento in fatto dell'attenuante, non risultando possibile l'identificazione di una singola condotta di provocazione, come richiesto dalla norma;
d) confermava - quanto all'appello R. - integralmente i contenuti della decisione impugnata, osservando quanto al reato di minaccia che i contenuti della frase erano stati riferiti in modo univoco dal G. e dalla consorte L. e sostanzialmente confermati dal teste Bi.. In particolare il Bi.
afferma di non ricordare se la frase "ti mando sulla sedia a rotelle" venne da lui ascoltata sul posto o a lui riferita nei giorni successivi da altri condomini. Tuttavia la Corte ritiene sufficiente la convergenza tra le dichiarazioni di G. e della L., supportate dal ricordo del Bi., anche in ragione della complessiva inattendibilità del R., che nega di aver profferito la frase minacciosa. Numerosi sono i punti non riscontrati - o addirittura positivamente smentiti - della versione del R. e la teste B., in modo significativo, ha riferito circa altre espressioni minacciose da lui pronunziate (come quella già riportata in precedenza, pur non ricompresa nel capo di imputazione);
e) confermava inoltre l'esistenza delle lesioni refertate al G. non attraverso il presidio ospedaliero (a differenza del R. il G., dopo un incontro "chiarificatore" patrocinato dal Bi. non si recò a farsi refertare ipotizzando una bonaria composizione della controversia) ma mediante due certificazioni redatte dalla dott.ssa C., escussa anche in qualità di testimone, di piena affidabilità nei contenuti ivi espressi. Le lesioni, in particolare i "bernoccoli" al capo erano di certo ascrivibili casualmente all'azione del R., ampiamente ricostruita attraverso l'istruttoria;
f) ribadiva, con ulteriori argomentazioni in fatto, l'assenza della scriminante della legittima difesa invocata anche dal R.;
g) confermava il giudizio di sussistenza, a carico del R., della particolare circostanza aggravante di cui all'art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 4. Il fatto risulta avvenuto all'interno di uno spazio condominiale, in presenza di più persone, tra cui dei minori, facenti parte della comunità militare ivi residente.
L'ascrivibilità al R. deriva, ad avviso della Corte, dalla sua condotta di intolleranza iniziale che ha determinato la successiva lite e dalla preventiva accettazione delle sue conseguenze.
2. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione G.G. e R.M. in qualità di imputati, nonchè R.M. in qualità di costituita parte civile.
2.1 Ricorso G.G..
Nel ricorso, proposto a mezzo del difensore, si articolano distinti motivi.
Con il primo si deduce violazione di legge, con specifico riferimento alla ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra la condotta del G. e le lesioni riscontrate sulla persona del R..
Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata, sub specie contraddittorietà e illogicità, sempre in riferimento alla ritenuta sussistenza del detto nesso causale.
I due motivi vanno congiuntamente illustrati.
Ad avviso del ricorrente, in sintesi, non vi è prova - nel senso imposto dalle attuali regole di giudizio di cui agli artt. 530 e 533 cod. proc. pen. - circa la reale dinamica di produzione delle lesioni riscontrate in sede di ricovero del R. presso il pronto soccorso in data (OMISSIS).
Le stesse non potrebbero essere attribuite con la dovuta certezza all'azione del G., così come la Corte d'Appello ha giustamente ritenuto già in relazione alla frattura della falange del dito della mano destra, applicando il criterio del ragionevole dubbio.
Si contesta, sul punto, la motivazione espressa dalla Corte che tende a qualificare la condotta attraverso un ampio riferimento alla tipologia di lesioni riscontrate (le escoriazioni al ginocchio sinistro e alla mano destra, i graffi al collo, l'ecchimosi alla fronte e la lesione all'incisivo inferiore destro) sì da desumere dai caratteri e dalla natura delle medesime la riconducibilità all'azione offensiva del G..
Ciò perchè, ad avviso del ricorrente, nessun teste ha affermato di aver visto il G. colpire direttamente il R..
Si riportano, sul punto, stralci delle deposizioni e si afferma che se è vero che i due vennero a contatto i testi riferiscono però con chiarezza le sole specifiche azioni lesive portate dal R. verso il G..
Il R., come la stessa Corte ritiene avrebbe innescato la lite e dato inizio alla concreta azione lesiva aggredendo il G. che avrebbe per lo più cercato di difendersi.
Da ciò la considerazione per cui anche le lesioni che vengono - in sentenza - attribuite alla condotta tenuta dal G. potrebbero essere frutto involontario della stessa azione aggressiva portata dal R. verso il G..
Si tratta di ipotesi alternativa altamente credibile e non smentita dagli atti di causa, tale da ingenerare il "ragionevole dubbio" circa l'esistenza del nesso causale.
Con il terzo motivo si deduce violazione di legge, sempre in riferimento al ritenuto nesso causale tra la condotta ascritta al G. e lo specifico evento lesivo consistente nella lesione del dente incisivo inferiore refertata al R. e con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione sul medesimo punto della controversia.
Anche in tal caso i due motivi vanno esposti in modo congiunto.
In sintesi, il ricorrente riproduce le medesime doglianze articolate - in via generale - nei primi due motivi, evidenziando un ulteriore dato di irragionevolezza, rappresentato dal fatto che la specifica lesione al dente incisivo inferiore non è accompagnata da alcuna lesione al labbro, in corrispondenza del trauma riscontrato.
Ciò porta ulteriormente a dubitare che la stessa possa essere "derivata" da una azione aggressiva del G. che avrebbe dovuto - necessariamente - interessare anche il labbro e le zone ad esso adiacenti.
Si contesta, pertanto, la logicità della considerazione operata dalla Corte, secondo cui detta lesione - anche in virtù del fatto che il R. era portatore di un apparecchio ortodontico - poteva essere stata provocata durante lo scontro dal G., essendo astrattamente possibile colpire solo la zona direttamente interessata lì dove la bocca fosse stata aperta o semi aperta.
I testi, infatti, non riferiscono di un colpo portato dal G. verso il volto del R. e pertanto manca un riferimento certo nell'istruttoria compiuta. Dunque la presunzione, ancora una volta basata sulla semplice valorizzazione di un potenziale esito, non soddisfa le regole dimostrative in punto di responsabilità.
Peraltro nessuno dei testi, ed in particolare il Bi., riferisce di aver percepito, al termine della breve colluttazione, danni fisici evidenti e non vi è prova circa la caduta in terra di uno dei due, come affermato dalla stessa Corte di merito.
Se a ciò si aggiunge la valutazione - espressa dalla stessa Corte - di numerosi profili di inaffidabilità narrativa in capo al R., nonchè l'assenza di traumi al labbro e nelle zone del volto adiacenti, se ne può legittimamente inferire il dubbio circa la ascrivibilità della specifica lesione agli eventi verificatisi quel giorno.
Potrebbe, in altre parole, anche trattarsi - al di là della ipotesi della lesione autoprocurata in modo involontario durante l'aggressione - di una lesione preesistente, artificiosamente indicata dal R. come determinatasi durante la lite, visto il palese intento persecutorio nei confronti del G. coltivato dal R..
In ogni caso non vi è rassicurante prova sul punto e le valutazioni espresse in motivazione non sciolgono il ragionevole dubbio.
Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione sub specie illogicità e contraddittorietà in riferimento al diniego applicativo della circostanza attenuante della provocazione di cui all'art. 62 c.p., n. 2.
L'intera istruttoria avrebbe evidenziato il comportamento intollerante e provocatorio tenuto dal R. nella vicenda, evidenziato dalla stessa Corte d'Appello in numerosi passaggi argomentativi.
Tuttavia, la Corte ha in modo contraddittorio escluso la configurabilità della attenuante della provocazione, di cui erano sussistenti i presupposti in fatto e in diritto.
Il motivo del diniego è stato individuato dalla Corte nella esistenza di "dissapori pregressi" intervenuti tra il G. e il R., sulla base della deposizione del teste Bi. e del teste Gr.. Ma tale dato non è stato rettamente interpretato e valutato, posto che si trattava - in realtà - delle lamentele pretestuosamente avanzate dal R. circa la presenza dei bambini del G. nel comprensorio.
In particolare, il ricorrente si duole del riferimento contenuto in sentenza alla deposizione del Gr., che avrebbe riferito circa una presunta aggressione portata in precedenza dal G. al R.. Ciò perchè l'episodio forma oggetto di diverso procedimento e l'istruttoria svolta - in modo sommario - non ha consentito di apprezzarne la verità. Peraltro il teste Gr.
sarebbe portatore anch'egli di risentimento nei confronti del G. sempre in relazione ai rumori provocati nel comprensorio abitativo dai figli minori del G..
2.2 Ricorso R.M. sulla affermazione di penale responsabilità.
Nel ricorso, proposto a mezzo del difensore, si articolano distinti motivi.
Con il primo si deduce travisamento della prova e vizio di motivazione in riferimento alla intervenuta affermazione di responsabilità per il reato di minaccia.
Il ricorrente muove dall'analisi del testo della decisione impugnata nella parte in cui è stata confermata la condanna del R. per il reato di minaccia, contestando metodo seguito e risultati raggiunti.
Vi sarebbe, in proposito:
- violazione degli ordinari canoni valutativi prudenziali relativi alla qualità soggettiva dei dichiaranti G. (imputato nel medesimo procedimento per reato collegato e al contempo parte civile) e L. (coniuge del G., pur se escussa nella qualità di teste avendo rinunziato alla facoltà di astensione nella parte relativa alle condotte del coniuge ma portatrice di pretesa risarcitoria nei confronti del R. in diverso procedimento) non essendo stato posto in essere un reale vaglio critico sulle affermazioni rese da costoro;
- travisamento dell'apporto altre fonti utilizzate a mò di sostegno ai contenuti dichiarativi resi dal G. e dalla L.;
- erronea affermazione della coincidenza tra le dichiarazioni del G. e quelle della L., risolvendosi anche tale proposizione in un travisamento della prova.
In particolare, nella esplicazione del travisamento, il ricorrente evidenzia che:
- non può dirsi coincidente la versione fornita, sul punto, da G. e dalla L. in quanto il primo afferma che la frase ..tu non mi conosci io ti mando sulla sedia a rotelle ... venne pronunziata dal R. in presenza del teste Bi., mentre la seconda ha affermato che oltre al teste Bi. vi erano, in quel momento, altre persone presenti;
- nessun altro teste ha riferito di aver percepito detta frase, riportata nel capo di imputazione (in particolare si riportano i passaggi relativi alle deposizioni S. e B.);
il teste Bi., unico soggetto in grado, per quantro era emerso, di confermare o smentire l'assunto, ha affermato di non essere in grado di precisare se la frase venne da lui ascoltata sul posto o a lui riferita nei giorni seguenti da altri condomini (si riporta la deposizione del Bi.) il che comporta l'inconsistenza dimostrativa del preteso riscontro. Inoltre, si contesta l'affermazione operata dalla Corte circa l'ulteriore sostegno logico fornito - circa la esistenza della minaccia - dalla deposizione della teste B.. Costei infatti (si riporta integralmente la deposizione) non ha riferito circa alcuna frase minacciosa pronunziata dal R. (corre l'obbligo di dire che nella parte iniziale della sentenza una frase minacciosa viene riportata come riferita dalla sig.ra S., nde).
Dunque l'affermazione di responsabilità finirebbe con l'essere poggiata esclusivamente sulle dichiarazioni rese dal G. e dalla L., con palese insufficienza dimostrativa.
Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione e travisamento della prova sia in riferimento alla affermazione di penale responsabilità del R. per assenza di nesso causale tra condotta e preteso evento che in relazione al mancato riconoscimento della scriminante della legittima difesa.
Nell'articolato motivo si rappresenta che la Corte d'Appello ha travisato i contenuti documentali e testimoniali relativi alle presunte lesioni riportate dal G..
Si trascrivono i referti e la deposizione della dott.ssa C. e si afferma che la Corte ha in modo apodittico ritenuto provata la ricorrenza della lesioni e soprattutto la anomala durata della malattia (superiore a trenta giorni). Ciò perchè dopo soli due giorni di licenza già attribuiti in precedenza il G. - senza realizzare alcun approfondimento diagnostico - si era recato in servizio e ciò contrastava sul piano logico con la stessa "esistenza" della malattia ed avrebbe dovuto condurre alla derubricazione del reato di lesioni in quello di percosse.
La motivazione utilizzata dalla Corte per giustificare la condotta del G. (esistenza di un cavalleresco accordo siglato con il Renna e teso ad un bonario comonimento della vicenda, nel corso del quale il G. chiese scusa al R.) viene ritenuta meramente congetturale e non trova riscontro in alcuna massima di esperienza generalmente condivisa.
Peraltro, si evidenzia che già il fatto di offrire le proprie scuse rappresentava una ammissione di colpa, erroneamente letta dalla Corte in modo diverso, e ciò anche in relazione ad un precedente episodio, pure emerso dall'istruttoria, che aveva visto il G. aggredire il R..
Anche sul tema della legittima difesa la ricostruzione in fatto operata dalla Corte - che porta a ritenere i due entrambi colpevoli perchè autori di una sfida reciproca - risentirebbe di travisamenti circa il reale contenuto delle fonti dimostrative.
In particolare non sarebbe vero che il R. quando il G. scese nel cortile era ancora in auto e scese dall'auto per "affrontare" il suo antagonista.
Il R. era, infatti, già fuori dall'auto e non avrebbe potuto, pertanto, tenere una condotta alternativa lecita consistente nel non scendere dal mezzo.
Sul punto si riproducono contenuti testimoniali - teste Ca., teste L. - che chiaramente affermano come il R. fosse già al di fuori della sua auto quando il G. arrivò nel cortile.
Nè poteva a quel punto pretendersi che il R. risalisse in auto, data la rapidità della successiva azione lesiva verificatasi.
Con il terzo motivo si deduce erronea applicazione della norma di riferimento e vizio di motivazione in punto di sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 4.
Il ricorrente sostiene l'interesse ad impugnare detta statuizione pur se nell'ambito del trattamento sanzionatorio è stata ritenuta la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, citando orientamenti giurisprudenziali sul punto.
Circa il contenuto sostanziale del motivo di doglianza, si afferma che erroneamente la Corte ha ritenuto che la presenza di più persone - in luogo privato - potesse dar luogo alla aggravante in parola, il cui fondamento è da ricercarsi nella tutela della credibilità delle forze armate rispetto a condotte tali da comportare discredito presso l'opinione pubblica.
Il fatto risulta avvenuto esclusivamente in presenza di alcuni soggetti abitanti nella palazzina destinata ad alloggio militare e pertanto non integra gli estremi di cui all'aggravante, con motivazione errata e inconferente.
Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione del capo della sentenza relativo alla liquidazione del danno in favore del G..
Non vi sarebbe prova della effettività di alcuna malattia sofferta dal G., in ciò richiamandosi le considerazioni di cui al secondo motivo.
2.3 Ricorso R.M. per gli interessi civili.
In qualità di parte civile R.M., a mezzo del difensore, impugna altresì il capo della sentenza con cui la Corte di Appello ha escluso la responsabilità del G. per la lesione al dito della mano destra, limitatamente agli effetti civili, nonchè impugna la quantificazione in via equitativa e definitiva del danno sofferto nella misura di Euro 2.000.
Si deduce il travisamento dei contenuti della consulenza medico legale redatta dal dott. M. e della testimonianza correlata, nonchè vizio di motivazione. Il ricorrente nel porre a confronto il testo della motivazione e gli atti processuali di riferimento (operazione non riproducibile in questa sede di sintesi), evidenzia che le conclusioni tratte dalla Corte - anche con citazioni di alcuni passaggi della consulenza e della deposizione - non corrispondono agli effettivi contenuti degli atti, avendo il consulente descritto la possibile eziologia ma non avendo mai asseverato l'ipotesi di una modalità autolesiva involontaria.
In realtà il consulente avrebbe costantemente affermato che la lesione derivava da una condotta di difesa, in ciò ponendosi in linea con la richiesta risarcitoria. Da ciò la richiesta di annullamento ai soli effetti civili e di quantificazione dei danni riportati.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto da G.G. è solo parzialmente fondato - in relazione al quinto motivo - mentre entrambi i ricorsi proposti, nelle diverse qualità, da R.M. sono da dichiararsi inammissibili, per le ragioni che seguono.
2. Prendendo le mosse dal ricorso G., va anzitutto affermato che le critiche relative alla intervenuta affermazione di penale responsabilità sono da ritenersi infondate.
Nei primi quattro motivi di ricorso, infatti, viene in realtà proposta - sub specie violazione di legge e vizio di motivazione - una diversa e alternativa lettura delle risultanze istruttorie, già analiticamente esaminate e valutate - senza vizi logici o travisamenti cognitivi - nell'ampia motivazione della decisione impugnata. Trattasi di operazione non consentita nella presente sede di legittimità, nel senso che il controllo sulla corretta applicazione dei canoni logici e normativi che presidiano l'attribuzione del fatto all'imputato passa necessariamente attraverso l'analisi dello sviluppo motivazionale della decisione impugnata e della sua interna coerenza logico-giuridica, non essendo possibile compiere in sede di legittimità "nuove" attribuzioni di significato o realizzare una diversa lettura dei medesimi dati dimostrativi e ciò anche nei casi in cui si ritenga preferibile una diversa lettura, maggiormente esplicativa, e sempre che non sia rilevabile un vizio tale da comportare l'annullamento (si veda, ex multis, Sez. 6 n. 11194 del 8.3.2012, Lupo, Rv 252178).
In tal senso, le operazioni di verifica da compiersi in sede di legittimità in rapporto ai motivi di ricorso e al fine di riconoscere o meno il vizio argomentativo del provvedimento impugnato, possono essere così sintetizzate: - verifica circa la completezza e la globalità della valutazione operata in sede di merito, non essendo consentito operare irragionevoli parcellizzazioni del materiale indiziario raccolto (in tal senso, tra le altre, Sez. 2 n. 9269 del 5.12.2012, Della Costa, Rv. 254871) nè omettere la valutazione di elementi obiettivamente incidenti nella economia del giudizio (in tal senso Sez. 4, n. 14732 del 1.3.2011, Molinario, Rv 250133 nonchè Sez. 1, n. 25117 del 14.7.2006, Stojanovic, Rv 234167);
- verifica circa l'assenza di evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica tali da compromettere passaggi essenziali del giudizio formulato (si veda in particolare la ricorrente affermazione della necessità di scongiurare la formulazione di giudizi meramente congetturali, basati cioè su dati ipotetici e non su massime di esperienza generalmente accettate, rinvenibile di recente in Sez. 6 n. 6582 del 13.11.2012, Cerrito, Rv 254572 nonchè in Sez. 2 n. 44048 del 13.10.2009, Cassarino, Rv 245627);
- verifica circa l'assenza di insormontabili contraddizioni interne tra i diversi momenti di articolazione del giudizio (cd.
contradditorietà interna);
- verifica circa la corretta attribuzione di significato dimostrativo agli elementi valorizzati nell'ambito del percorso seguito e circa l'assenza di incompatibilità di detto significato con specifici atti del procedimento indicati ed allegati in sede di ricorso (travisamento della prova) lì dove tali atti siano dotati di una autonoma e particolare forza esplicativa, tale da disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante (in tal senso, ex multis, Sez. 1 n. 41738 del 19.10.2011, Rv 251516, ove si è precisato, sul punto, che "... non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente contrastanti con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l'analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E', invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione ...").
In altre parole, può dirsi pertanto che il giudice di legittimità è chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti specifici atti del processo. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione, sul correlato rispetto delle regole normative di giudizio (tipiche della fase in questione) e sulla permanenza - a fronte delle specifiche deduzioni - della "resistenza logica" del ragionamento del giudice.
Anche il rispetto del canone decisorio secondo cui la colpevolezza dell'imputato deve risultare "al di là di ogni ragionevole dubbio" (art. 533 cod. proc. pen. come novellato dalla L. n. 46 del 2006) non introduce (come pare ipotizzare il ricorrente) un ulteriore e specifico motivo di ricorso, tale da consentire - di fatto - l'esame del merito, ma si pone come criterio generale alla cui stregua valutare la consistenza logica (e dunque la capacità dimostrativa) delle affermazioni probatorie contenute nella sentenza impugnata (tanto che il mancato rispetto del criterio rifluisce come ipotesi particolare di "apparenza" di motivazione, secondo quanto affermato da Sez. 6 n. 8705 del 24.1.2013).
Il dubbio, peraltro, per determinare l'ingresso di una reale ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti, tale da determinare una valutazione di inconsistenza dimostrativa della decisione, è solo quello "ragionevole" e cioè quello che trova conforto nella buona logica, non certo quello che la logica stessa consente di escludere o di superare (in tal senso Sez. 1 n. 3282 del 2012 del 17.11.2011, nonchè, in termini generali, Sez. 1 n. 31546 del 21.5.2008, rv 240763).
2.1 Ciò posto, nel caso in esame, la decisione impugnata ha correttamente applicato le regole della logica - in rapporto ai vigenti canoni normativi di valutazione - in piena aderenza ai contenuti dimostrativi che risultano acquisiti. Non è esatto sostenere - infatti - che il G. non ebbe a colpire, anch'egli, il suo antagonista R. nell'ambito della colluttazione verificatasi. Le diverse fonti escusse, infatti, rappresentano lo svolgimento dei fatti come una "colluttazione", termine che nel suo ordinario significato, sta a rappresentare uno scambio di colpi tra i contendenti. Non può pertanto parlarsi di difetto dimostrativo circa la causa di produzione di alcune delle lesioni obiettivamente riscontrate, con referto ospedaliere, sulla persona del R.. La Corte territoriale, in effetti, ritiene - in modo condivisibile - assente la dimostrazione piena del nesso causale esclusivamente in relazione ad una particolare lesione (la frattura della falange unguale del quinto dito della mano destra) e ciò in ragione del fatto che tale lesione presuppone l'urto della mano "estesa" verso una superficie rigida. In ciò viene applicato il criterio del "ragionevole dubbio" in rapporto alla particolare "sede" e "natura" della lesione, che obiettivamente si presenta come anomala lì dove la persona che subisce l'evento non sia stata gettata a terra dal suo aggressore (come nel caso di specie).
Ma ciò non autorizza ad "estendere" il dubbio alla dinamica di produzione delle altre lesioni riscontrate, per loro natura (si veda la parte narrativa) compatibili con la colluttazione riferita dai testi. Anche l'ipotesi della lesione al dente inferiore, peraltro in presenza di un apparecchio ortodontico indossato dalla vittima (tale da poter amplificare l'effetto di colpi ricevuti anche in sedi non corrispondenti al punto leso) rientra nelle ordinarie - e pertanto logiche - conseguenze di una colluttazione, ove lo scambio di colpi non può essere segmentato, nella sua percezione da parte dei testimoni, in virtù della rapidità dei contatti fisici tra gli antagonisti.
Può pertanto, in conclusione, affermarsi che correttamente viene ritenuta - in sede di merito - la riconducibilità di lesioni riscontrate nella immediatezza, su una persona coinvolta in una colluttazione, alla azione aggressiva dell'antagonista in lite, lì dove le lesioni, per le loro caratteristiche ontologiche, risultino compatibili con le modalità ordinarie di uno scontro fisico, non essendo necessaria la percezione da parte dei testimoni della dinamica di produzione di ogni singolo, specifico, evento lesivo singolarmente considerato.
Da ciò deriva il rigetto dei primi quattro motivi di ricorso.
2.2 Fondata è invece, restando all'esame del ricorso G., la doglianza espressa con il quinto motivo, consistente nel diniego della attenuante della provocazione.
La stessa Corte d'Appello, infatti, sottolinea in più occasioni l'esistenza di un atteggiamento intollerante e provocatorio posto in essere dal R., attribuendo al medesimo un profilo di scarsa attendibilità narrativa e mostrando di valorizzare, in particolare, la deposizione della teste S. erroneamente citata a pag. 49 della sentenza come la teste B. nella parte in cui costei afferma che il R. avrebbe rivolto al G., mentre costui si trovava ancora sul balcone, la seguente frase: "scendi che ti faccio un culo così".
A fronte di tale quadro, il diniego della specifica attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 2 non appare congruamente motivato.
Se è vero, infatti, che l'attenuante va esclusa in presenza di condotte antecedenti poste in essere dall'offeso in un contesto di "provocazione reciproca" (tra le molte, Sez. 1 n. 26298 del 11.12.2003, rv 228122) nel caso in esame la prova di tale fattore di esclusione risulta affidata, a ben vedere, ad una singola deposizione (quella del teste Gr., poichè per il resto si sarebbe trattato di rimostranze del R. circa la esuberanza dei figli del G., riferite dal teste Bi.) che introduce l'ipotesi di una precedente "reazione fisica" del G. verso il R..
Tale episodio, tuttavia, non risulta sufficientemente istruito, non potendosi ricollegare la sua verificazione in fatto ad una esclusiva testimonianza senza apprezzarne, in motivazione, il suo obiettivo livello di persuasività.
Sul punto, pertanto la decisione va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte Militare di Appello.
3. I ricorsi proposti da R.M. vanno dichiarati inammissibili, in quanto le deduzioni, pur prospettate per lo più come vizio di travisamento della prova, mirano in realtà ad ottenere una ulteriore valutazione di merito, operazione non consentita nel giudizio di legittimità.
Come diffusamente indicato al paragrafo 2 della presente sentenza, può parlarsi di travisamento della prova soltanto ove il "contenuto informativo" della fonte venga trasposto nella decisione in modo difforme rispetto alla sua obiettiva portata, sì da tradursi in un vizio di "aderenza" della decisione ai reali contenuti dell'istruttoria, su punti rilevanti e qualificanti dell'iter argomentativo.
Nulla di tutto ciò è accaduto in danno del R., come risulta dai contenuti della decisione impugnata, pur comparati con gli atti esibiti (rectius incorporati nel testo) dal ricorrente.
Ciò sia in rapporto alla intervenuta affermazione di responsabilità per il reato di minaccia (primo motivo) che in riferimento alla ritenuta esistenza delle lesioni provocate dal R. al G. e al diniego delle legittima difesa (secondo e quarto motivo).
Ciò perchè il vizio del ricorso sta nella estrapolazione di singoli "passaggi espressivi" contenuti in sentenza (confrontati con specifiche risultanze) lì dove l'argomentazione probatoria che sostiene la decisione va letta ed apprezzata nella sua interezza, essendo per forza di cose una "combinazione logica" tra più dati probatori acquisiti.
Ciò, anzitutto, vale per la motivazione che sostiene la condanna del R. per il reato di minaccia.
La Corte d'Appello, infatti, lungi dall'operare travisamenti vi è solo un lapsus calami, già evidenziato, ove a pag. 2 si cita la tese B. in luogo della teste S., ma da ciò non può derivare conseguenza alcuna, data l'esattezza della informazione utilizzata si rapporta ai contenuti informativi in modo corretto e ne inferisce la conclusione, attraverso più indici rivelatori, che la frase minacciosa (... ti mando sulla sedia a rotelle) non può che essere stata pronunziata dal R..
Tale opzione deriva da un insieme di indicatori (deposizioni G., L., scarsa attendibilità del R., contegno provocatorio tenuto nell'intera vicenda dal medesimo) cui si unisce, non certo come dato decisivo, il contenuto della deposizione del teste Bi..
Legittima risulta, nei suddetti limiti, l'utilizzazione di tale deposizione - a conforto dei dati già emersi - e l'accertamento in questione rappresenta, pertanto, un semplice apprezzamento di valenza dimostrativa, sottratto al sindacato di legittimità.
Analogamente, tutte le questioni relative alla esistenza e consistenza delle lesioni provocate dal R. al G. si manifestano come inconsistenti.
La Corte d'Appello ha legittimamente attribuito attendibilità ai certificati redatti dalla dottoressa C. senza operare travisamento alcuno, nè dai contenuti testimoniali sono emersi reali elementi di contrasto con dette certificazioni.
Nessun rilievo, inoltre, può attribuirsi - quanto all'ipotesi di legittima difesa - al fatto che il R. fosse già fuori dalla sua vettura nel momento in cui il G. si recò nel cortile, posto che la condotta intollerante e provocatoria tenuta dal R. emerge già in precedenza e costituisce il vero antecedente causale della lite, come ritenuto nella decisione impugnata.
Nè si ravvisano vizi logici o interpretativi nella parte della motivazione in cui si ritiene sussistente (seppur neutralizzata negli effetti sanzionatori dal riconoscimento delle attenuante generiche prevalenti) l'aggravante di cui all'art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 4.
Il pubblico scandalo, in tale disposizione normativa, è considerato nella forma del pericolo, rapportato alle circostanze di luogo in cui si è verificato il fatto. Non vi è dubbio, sul punto, che l'aver provocato l'alterco in una zona condominiale, frequentata da più persone, tra cui dei minori, integra la previsione di legge.
Circa, infine il contenuto del ricorso proposto nella qualità di parte civile, devono ribadirsi le considerazioni già operate in precedenza.
Anche in tal caso, infatti, il preteso travisamento nasconde, in realtà, una richiesta di rivalutazione delle emergenze probatorie che hanno determinato l'esclusione della responsabilità del G. per la particolare lesione in questione.
La Corte d'Appello, infatti, applica in modo del tutto logico delle evidenti massime di esperienza partendo dall'analisi obiettiva della "sede" e "tipologia" di lesione (avvalendosi in tale punto anche dei contenuti informativi apportati dal consulente del R.) e pervenendo alla autonoma elaborazione di una ragionevole ipotesi alternativa, consistente in un trauma indipendente dalla diretta volontà del G..
In ciò non viene affermata - in concreto - quale sia stata, con certezza, l'eziologia della lesione, ma ciò è ampiamente sufficiente per escludere, proprio in virtù della regola di giudizio di cui all'art. 533 cod. proc. pen., la penale responsabilità del G. in rapporto a tale specifico evento.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto da R. M. consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende che stimasi equo determinare in Euro 1,000,00.
PQM
P.Q.M.
Annulla la sentenza la sentenza impugnata emessa nei confronti di G.G. limitatamente al diniego della attenuante della provocazione e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte Militare di Appello. Rigetta nel resto il ricorso di G.G..
Dichiara inammissibili i ricorsi di R.M. che condanna al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2014.
Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2014
04-04-2014 15:01
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