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Sentenza

Truffa militare: Maresciallo dei Carabinieri, mentre in servizio, svolge attivit...
Truffa militare: Maresciallo dei Carabinieri, mentre in servizio, svolge attività lavorativa privata continuativa e retribuita di medico. Al comando aveva inviato documentazione medica attestante patologie.
Cassazione penale  sez. I   
Data:
    24/04/2014 ( ud. 24/04/2014 , dep.15/05/2014 ) 
Numero:
    20323

                        LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                            SEZIONE PRIMA PENALE                         
    Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
    Dott. GIORDANO   Umberto       -  Presidente   -                     
    Dott. CAIAZZO    Luigi Pietro  -  Consigliere  -                     
    Dott. CAVALLO    Aldo          -  Consigliere  -                     
    Dott. CAPRIOGLIO P.M.S.   -  rel. Consigliere  -                     
    Dott. BONI       Monica        -  Consigliere  -                     
    ha pronunciato la seguente:                                          
                         sentenza                                        
    sul ricorso proposto da: 
                     T.C.A. N. IL (OMISSIS); 
    avverso  la sentenza n. 49/2013 CORTE MILITARE APPELLO di  ROMA,  del 
    03/07/2013; 
    visti gli atti, la sentenza e il ricorso; 
    udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del 24/04/2014 la  relazione  fatta  dal 
    Consigliere Dott. PIERA MARIA SEVERINA CAPRIOGLIO; 
    Udito  il  Procuratore Generale in persona del  Dott.  FLAMINI  Luigi 
    Maria che ha concluso per il rigetto del ricorso. 
                     


    Fatto
    RITENUTO IN FATTO

    1. Con sentenza del 3.7.2013 la Corte militare d'appello confermava la sentenza del gip del tribunale militare di Verona in data 17.12.2012 che aveva assolto T.C.A. dal reato di truffa militare per il periodo aprile 2005/30.4.2006 e che lo aveva condannato per il periodo successivo, fino a fine novembre 2007, allorquando ebbe a svolgere contestualmente attività lavorativa privata continuativa e retribuita. Al prevenuto, m.llo capo dell'arma dei carabinieri all'epoca dei fatti presso la stazione di Pavia centrale, veniva addebitato inizialmente di aver mandato al proprio reparto documentazione medica attestante patologie, laddove risultava che durante tale periodo egli aveva svolto la libera professione come medico privato, nel 2005 come sostituto di un medico privato, nel 2006 presso la casa di cura S. Gaudenzio di Novara e nel 2007 ancora presso la casa di cura menzionata, con un contratto di lavoro per sette anni, per 38 ore settimanali, dietro regolare retribuzione.

    Così operando il militare, nel riscuotere il compenso anche dall'amministrazione militare, aveva conseguito un ingiusto profitto.

    Veniva sottolineato che il T. aveva accettato un rapporto di lavoro con un privato ancorchè il professionista alle dipendenze di ente pubblico non potesse fornire prestazioni professionali a favore di privati, se non nei limiti consentiti dalla legge e previa autorizzazione dell'amministrazione militare. Il T. avrebbe avuto l'obbligo di comunicare situazioni di incompatibilità e il suo silenzio integrava un artificio idoneo ad indurre in errore l'Amministrazione. Lo stesso imputato del resto, si era detto consapevole dell'incompatibilità ed aveva ammesso di aver taciuto per paura di lasciare il certo per l'incerto.

    La Corte riteneva che non costituisse precedente ostativo ai sensi dell'art. 649 c.p.p. il fatto che l'imputato era stato, in un precedente processo, assolto dal reato di diserzione e simulazione di infermità, poichè il fatto contestato nel processo definito con sentenza assolutoria riguardava la condotta di aver realizzato assenze non giustificate (qualificate come diserzione, simulazione di infermità e truffa), quindi si trattava di fatto diverso da quello contestato nel presente procedimento che aveva riguardo a condotta di omessa comunicazione di una situazione di incompatibilità, tanto che risultava che il T. dal 2006 aveva addirittura aperto la partita IVA. In particolare, veniva rilevato che l'art. 234 c.p.m.p. prevede appunto che la locupletazione ingiusta sia ottenuta serbando il malizioso e doloso silenzio, cosicchè la sola condotta del silenzio maliziosamente serbata vale a configurare il reato di truffa. Secondo la Corte, il Tribunale militare con la precedente sentenza non ebbe ad assolvere l'imputato dal reato di truffa, ma assolvendolo da altri reati (diserzione e simulazione di malattia) individuò un diverso profilo di possibile condotta illecita (quello appunto dell'incompatibilità dei due ruoli, pubblico e privato), cosicchè inviò gli atti ex art. 521 c.p.p. al Pm, trattandosi di fatto diverso.

    Veniva ribadito che l'attività privata dell'imputato aveva carattere continuativo; l'omessa informazione al proprio comando determinò l'induzione in errore. L'incompatibilità fra lo stato di dipendente e la prestazione in modo non occasionale di attività lavorativa retribuita va ritenuta sussistente anche quando il dipendente abbia a trovarsi legittimamente in malattia e le conseguenze derivanti dalla mancata richiesta di autorizzazione non variano in dipendenza dello stato di servizio effettivo in cui abbia a trovarsi il dipendente. Il fatto che il T. non potesse comunque offrire all'amministrazione la sua attività, perchè in malattia, non mutava la situazione, cosicchè la mancanza delle dovute informazioni che potevano portare alla decadenza dall'impiego o alla sospensione delle erogazioni realizzò un ingiusto profitto a danno dell'amministrazione militare.

    2. Avverso tale decisione interponeva ricorso per cassazione il T., pel tramite del difensore, sviluppando due motivi di ricorso.

    Con il primo motivo viene dedotta violazione dell'art. 649 c.p.p.:

    secondo la difesa si sarebbe creata una preclusione a qualsivoglia successivo giudizio, in ordine ad ogni possibile diversa fattispecie di reato ricollegabile a quegli stessi fatti. La difesa non discute l'identità o diversità del fatto oggetto di rilievo nei due diversi procedimenti, ma rileva la violazione del limite del giudicato. La Corte avrebbe in sostanza escluso l'applicabilità dell'art. 649 c.p.p., ritenendo la sussistenza di un concorso formale di reati e non di un concorso apparente di norme, assumendo che la preclusione dell'art. 649 c.p.p. non può essere invocata nel caso in cui si configuri un'ipotesi di concorso formale di reati. Ma doveva essere ritenuto il limite che nel diverso giudizio non sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato.

    Con un secondo motivo è stata dedotta violazione dell'art. 234 c.p.m.p.: per ritenersi integrato il reato di truffa occorre una condotta fraudolenta, consistente nel porre in essere un artificio o raggiro; ma nel caso di specie l'Amministrazione non fu ingannata, ovvero indotta in errore dal T., poichè era ampiamente a conoscenza del fatto che quest'ultimo svolgeva attività medica. Non solo, ma sarebbe carente anche il dato dell'ingiusto profitto:

    secondo la difesa, anche in assenza della condotta del T., l'Amministrazione militare avrebbe provveduto a corrispondere al militare le retribuzioni dovute, poichè non erano false le certificazioni mediche prodotte dal T. per il periodo in questione, essendo in malattia il T. non poteva corrispondere la sua attività, ma doveva comunque essere stipendiato. Quindi non si poteva parlare di ingiusto profitto, poichè non vi era ingiustificata assenza. L'Amministrazione si limitò a corrispondere le retribuzioni dovute, mentre non poteva esigere dal T. alcuna prestazione lavorativa, preclusagli per giustificati motivi di salute.
    Diritto
    CONSIDERATO IN DIRITTO

    Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

    Il primo motivo di ricorso, con cui viene sollevata la questione di violazione dell'art. 649 c.p.p., non trova rispondenza negli atti processuali. Si deve premettere che sulle questioni di ordine processuale la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto e, ai fini dell'accertamento dell'"error in procedendo", può accedere all'esame diretto dei relativi atti processuali (Cass. Sez. Un., 31 ottobre 2001, Policastro; Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2002, Arrivoli).

    Dall'esame della sentenza con cui venne concluso il primo processo che il T. ebbe a subire per i fatti a lui addebitati si evince che, dopo averlo assolto dai reati di diserzione e simulazione di infermità, il tribunale militare dispose la trasmissione degli atti al pm, ai sensi dell'art. 521 c.p.p., comma 2 e art. 261 c.p.m.p., in riferimento al contestato reato di truffa ex art. 234 c.p.m.p. per avere realizzato assenza non giustificate, essendo risultato il fatto diverso rispetto a quello descritto nel decreto che dispose il giudizio. Erra dunque il ricorrente laddove non considera che la decisione richiamata ebbe a riguardare situazione nelle quali il giudice aveva rilevato una diversità del fatto a norma dell'art. 521 c.p.p., comma 2. Va precisato che non è revocabile in dubbio che al momento di decidere il giudice, qualora ritenga che il fatto sia diverso da quello cristallizzato nell'imputazione, debba esimersi dall'assumere la decisione (e restituire le carte al pubblico ministero, dominus dell'imputazione medesima) perchè non può decidere su fatti non contestati. In tal senso, il principio di correlazione pone l'imputato al riparo dal rischio di essere giudicato per fatti che non gli siano stati formalmente addebitati.

    Soltanto in tal caso l'inerzia del pubblico ministero è "neutralizzata" dal giudice, perchè l'art. 521 c.p.p. gli impone di trasmettere gli atti al pubblico ministero e di non assumere la decisione su di un "fatto diverso". Secondo queste coordinate ha operato il Tribunale militare davanti a cui in prima battuta venne portato a giudizio il T. sull'iniziale ipotesi di truffa (in cui gli artifici ed i raggiri erano ritenuti configurati dall'aver falsamente prospettato una malattia giustificativa della sua assenza sul lavoro), senza decidere nel merito della regiudicanda. E' infatti pacifico che il giudice dibattimentale non possa trasmettere gli atti al pubblico ministero sul rilievo che il fatto commesso dall'imputato è diverso da quello contestatogli e, nello stesso tempo, assolvere da quest'ultimo l'imputato, giacchè il successivo giudizio incorrerebbe nella preclusione del giudicato ed i due provvedimenti così contestualmente emessi, si configurerebbero come atti internamente contraddittori (Sez. 1, 1.12.1999, n. 1708, Rv 215338).

    La censura sollevata dalla difesa è quindi destituita di ogni fondamento, non ricorrendo la violazione della regola del giudicato prevista dall'art. 649 c.p.p..

    Quanto poi alla integrazione del reato contestato, la Corte militare ha correttamente spiegato come in capo all'imputato correva obbligo di dare comunicazione all'amministrazione di appartenenza di informazioni che avrebbero comportato la sua decadenza dall'impiego e quindi alla interruzione della sua retribuzione. E' stato infatti documentalmente provato che nel periodo dal dall'aprile 2006 al novembre 2007 il ricorrente, conseguita la laurea in medicina, stipulò un contratto di lavoro continuativo presso la casa di cura S. Gaudenzio di Novara, dapprima con un impegno di quaranta ore settimanali e poi di trentotto ore settimanali, con una retribuzione annua pari a 45.000 Euro prima e ad 84 mila Euro nel 2007. E' stato quindi corretto ritenere il T. operante in modo continuativo presso la clinica menzionata, ancorchè ancora dipendente dell'amministrazione pubblica, così incorrendo nella palese incompatibilità di ruoli, come previsto dal TU 10.1.1957, n. 3 operante per tutti i dipendenti pubblici. E' quindi stato corretto individuare proprio nella mancata comunicazione dell'attività svolta (peraltro ampiamente ammessa dell'imputato, in ragione della necessità di non abbandonare il certo per l'incerto) all'amministrazione di appartenenza l'artificio ed il raggiro di tacere non il fatto di avere conseguito la laurea e l'abitazione alla professione medica, ma il rapporto di lavoro a tempo pieno instaurato con una casa di cura. A tale silenzio maliziosamente serbato seguì il fatto, economicamente apprezzabile, che l'amministrazione oltre che mantenergli il posto di lavoro lo retribuì regolarmente. Non poteva portare ad opinare diversamente l'argomento sviluppato dalla difesa, secondo cui il T. avrebbe avuto comunque diritto alla retribuzione perchè in condizioni fisiche precarie, atteso che il profilo delle certificazioni mediche false è stato ampiamente superato e corretto con la nuova contestazione, facente leva sul fatto di aver nascosto il rapporto di lavoro continuativo all'Amministrazione di appartenenza che, se solo ne avesse avuto contezza, avrebbe immediatamente interrotto il rapporto e quindi il corso della retribuzione. La truffa è stata correttamente ravvisata nell'aver taciuto l'imputato la sua nuova realtà lavorativa, incompatibile con la protrazione del rapporto di lavoro con la P.A. Al rigetto del ricorso deve seguire la condanna del T. al pagamento delle spese processuali.
    PQM
    P.Q.M.

    Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

    Così deciso in Roma, il 24 aprile 2014.

    Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2014
Avv. Antonino Sugamele

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