Motonave italiana viene assalita e l'equipaggio sequestrato. Intervengono i Royal Marines britannici, imbarcati sulla HMS Victoria, sopraggiunta poco dopo, che arrestano i sequestratori e liberano l'equipaggio della Motonave. I sequestratori vengono consegnati alle autorità militari italiane.
Cassazione penale sez. V Data: 27/02/2015 ( ud. 27/02/2015 , dep.16/04/2015 )
Numero: 15977
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BEVERE Antonio - Presidente -
Dott. DE BERARDINIS Silvana - Consigliere -
Dott. SABEONE Gerardo - Consigliere -
Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -
Dott. DEMARCHI ALBENGO P. - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
A.A.A.;
G.A.H.
MA.IS.KA.;
A.H.M.;
AB.AL.AH.;
D.M.A.
.AHMED MAHMED ALI';
H.A.H.;
avverso la sentenza n. 35/2013 CORTE ASSISE APPELLO di ROMA, del
12/12/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/02/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. PAOLO GIOVANNI DEMARCHI ALBENGO;
Il Procuratore generale della Corte di cassazione, Dr. Fraticelli
Mario, ha concluso chiedendo il rigetto di tutti i ricorsi.
Per la parte civile è presente l'Avvocato Ventrella per l'Avvocatura
dello Stato, il quale conclude chiedendo dichiararsi
l'inammissibilità del ricorso. Deposita nota spese.
Per il ricorrente, M.I.K. è presente l'Avvocato
Destito Giovanni, anche in sostituzione degli avv.ti Corbucci Carlo e
Carone Fabiano Achille, il quale si richiama ai motivi di ricorso.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Il 10 ottobre 2011 la motonave italiana (OMISSIS) venne assalita a circa 620 miglia a est della costa della (OMISSIS);
l'equipaggio riuscì a chiudersi per tempo nella cosiddetta "cittadella" - ovvero in una parte blindata della cabina di comando - e a non perdere il controllo della nave, nonostante gli assalitori avessero danneggiato le attrezzature, la strumentazione e gli equipaggiamenti della nave, appiccando anche il fuoco nel locale "electrical equipment". Circa ventiquattro ore dopo l'abbordaggio, una nave militare statunitense in forza alla missione Nato "Ocean Shield" raggiunse la (OMISSIS); dopo una prima ricognizione, intervennero operativamente i Royal Marines britannici, imbarcati sulla HMS Victoria, sopraggiunta poco dopo, che arrestarono i sequestratori e liberarono l'equipaggio della Motonave, composto da una ventina di persone, tra cui sei italiani. Gli assalitori somali vennero consegnati all'(OMISSIS), l'incrociatore della Marina Militare che allora partecipava a "Ocean Shield", mentre la (OMISSIS) partiva all'inseguimento di un peschereccio la cui posizione faceva pensare che fosse stata la "nave madre" da cui erano partiti i barchini per l'assalto alla (OMISSIS). A bordo di questo peschereccio, iraniano ma con equipaggio pachistano, vennero arrestati altri quattro somali, assieme a due pakistani (questi ultimi poi scarcerati e prosciolti). Con sentenza del 27.11.2012, la Corte d'assise di Roma dichiarò gli imputati responsabili - in concorso con i correi minorenni, separatamente giudicati e ad oggi condannati in via definitiva (a seguito di rigetto dei loro ricorsi in Cassazione con sentenza n. 26825 del 04/02/2013) dei reati di cui al capo 1) pirateria ex art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, art. 61 c.p., n. 2, art. 1135 c.n.; 3) detenzione e possesso di armi da guerra ai sensi dell'art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 4; 4) danneggiamento seguito da incendio delle attrezzature, della strumentazione e degli equipaggiamenti della nave (OMISSIS), ai sensi dell'art. 81 cpv.
e art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, art. 424 c.p., commi 1 e 2, art. 635 c.p., commi 1 e 2, nonchè del reato di tentato sequestro di persona a scopo di estorsione, così diversamente qualificato il fatto di cui al capo 2 (originariamente contestato come reato di sequestro di persona per finalità di terrorismo), e - esclusa la contestata aggravante della finalità di terrorismo prevista dal D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 1, per i reati di cui ai capi 1, 3 e 4 - unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, concesse le attenuanti generiche equivalenti alle residue aggravanti, li condannò ciascuno alla pena di anni 16 di reclusione, salvo A.M.A., quale comandante della nave attaccante, che fu condannato alla pena di anni 19 di reclusione.
2. Avverso tale pronunzia proposero gravame gli imputati, e la Corte d'assise d'Appello di Roma, con sentenza del 12.12.2013, confermava la decisione di primo grado in punto di responsabilità, riducendo però le pene rispettivamente ad anni 12 (per i concorrenti) e 15 (per il comandante).
3. Contro la sentenza di appello hanno proposto distinti ricorsi per cassazione gli imputati A.M.A., A.H.M., M.I.K. e G.A.H., evidenziando sostanzialmente gli stessi motivi di censura, che sono i seguenti:
a. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'art. 630 c.p.; sotto tale profilo si afferma da parte delle difese che la finalità di estorsione sarebbe desunta dalla Corte in base a mere congetture e dichiarazioni fuorvianti di alcuni testi ( G. e C.), che riferiscono non del caso concreto, ma di accadimenti simili, in cui è d'uso la richiesta di un riscatto.
In mancanza di prova della finalità estorsiva, l'unico reato ipotizzabile sarebbe quello previsto dal codice penale. Inoltre, l'autosequestro all'interno della "cittadella" non solo avrebbe impedito agli assalitori di perfezionare il sequestro dell'equipaggio, ma li avrebbe altresì costretti a tentare di aprire la zona fortificata, al fine di evitare che la nave li conducesse verso un sicuro arresto, come poi è effettivamente accaduto.
b. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'art. 1135 c.n.; sotto tale profilo mancherebbero i presupposti oggettivi e soggettivi del reato contestato e cioè la figura del comandante od ufficiale di nave nazionale o straniera, nonchè gli atti di violenza in danno della persona. Inoltre, gli atti di pirateria non avrebbero alcuna autonoma rilevanza, non essendo altro che un segmento della condotta del tentato sequestro di persona.
Quanto alla prova della depredazione, essa non si può fondare sui danni arrecati a beni e parti della nave, in quanto tale reato è già qualificabile e contestato come danneggiamento, mentre la depredazione presuppone che si vogliano portare via beni, cose e valori della nave.
4. A.A.A., oltre ai predetti motivi, ha lamentato la assoluta carenza di motivazione in ordine alla responsabilità quale presunto capitano della nave-madre pirata; in particolare lamenta che la sua qualifica sia stata desunta solamente dal fattore "età".
5. G.A.H., con un ricorso personale, contesta anche che gli atti fossero idonei a consentire la consumazione del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, essendovi situazioni oggettive che la rendevano impossibile.
6. Il ricorso proposto congiuntamente da A.A.A., A.A.A., D.M.A., A.H.M., H.A.H. e A.S.M. (quest'ultimo oggetto di separato procedimento, deciso dalla terza sezione di questa Corte con sentenza 2855/15), contiene 4 motivi di ricorso autonomi:
a. violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), per erronea applicazione della legge penale in riferimento all'art. 10 c.p.. Non essendo stata avanzata l'obbligatoria richiesta del Ministro della Giustizia per il delitto comune dello straniero all'estero, erroneamente la Corte Territoriale ha ritenuto infondata la questione della mancanza della condizione di procedibilità di cui alla norma in questione. Il concetto di territorio estero, così come ritenuto in sentenza, con esclusione delle acque extraterritoriali (in quanto sulle stesse non si esercita la giurisdizione di uno stato diverso da quello italiano), è errato e privo di supporto giuridico, atteso che la normativa di cui all'art. 7 c.p. e ss., allorquando ha intesoindividuare sul territorio estero una forma di giurisdizione, lo ha definito "Stato" o "Stato estero";
b. violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), per erronea applicazione della legge penale in riferimento all'art. 4 c.p., comma 2, e nullità della sentenza in difetto di giurisdizione. Nella fattispecie, evidenzia la difesa che l'arresto di alcuni ricorrenti, quali occupanti del peschereccio denominato "(OMISSIS)", è avvenuto da parte della marina militare inglese in acque internazionali, a circa 600 miglia dalla costa. E' indubitabile quindi che, in virtù degli accordi internazionali previsti dall'art. 105 della convenzione di Montego Bay del 1982, che stabilisce che gli Stati sottoscrittori o aderenti hanno facoltà di processare o meno nella loro giurisdizione gli autori degli atti di pirateria, la giurisdizione spettava alla Gran Bretagna, che non avrebbe dovuto consegnare gli occupanti del peschereccio alle autorità italiane, in mancanza di atto di estradizione tra l'Italia e il Regno Unito;
c. violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. c) in riferimento all'art. 192 c.p., per mancanza e contraddittorietà della motivazione. La responsabilità degli imputati A.A.A., Ab.
A.A., D.M.A., A.H.M., secondo la difesa, è stata affermata sul semplice presupposto della loro presenza al momento dei fatti, senza alcuna prova della coscienza del contributo fornito alle altrui condotte;
d. nullità della sentenza per erronea interpretazione dell'art. 521 del codice di rito, in relazione all'art. 6, comma 3, lett. A) e B) della CEDU. Il diritto ad essere informato dell'accusa e, quindi, dei fatti materiali posti a suo carico e sui quali si fonda l'accusa stessa implica il diritto dell'imputato a preparare la sua difesa, sicchè, se il giudice ha la possibilità di riqualificare i fatti, deve essere assicurata all'imputato la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa in maniera concreta ed effettiva; ciò presuppone che sia informato, in tempo utile, sia dell'accusa sia della qualificazione giuridica dei fatti a carico, la qual cosa nella fattispecie non si è verificata.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Occorre precisare che sui temi in discussione nel presente processo si è già pronunciata la seconda sezione di questa Corte (Sez. 2, n. 26825 del 04/02/2013, A., Rv. 256646), rigettando il ricorso dei concorrenti più giovani, già giudicati colpevoli dal tribunale dei minori di Roma e poi dalla Corte di appello (v. anche sez. 3, 29/10/2014, n. 2998/15). Questo collegio non intende discostarsi dalle conclusioni in diritto già raggiunte dalla suprema Corte, che saranno successivamente richiamate.
2. I motivi comuni ai ricorrenti A.M.A., A.H. M., M.I.K. e G.A.H. sono (manifestamente) infondati; innanzitutto essi si sostanziano, nonostante l'indicazione in rubrica anche di violazioni di legge, in censure relative al ragionamento probatorio complessivo sviluppato dai giudici di merito sulle prove acquisite, senza, peraltro, che vengano evidenziate significative novità rispetto al contenuto delle impugnazioni proposte in appello e puntualmente respinte dalla Corte di secondo grado. Entrambi i giudici di merito hanno ampiamente descritto tutti gli elementi di prova acquisiti e il collegamento logico di essi con altri elementi relativi ai profili oggettivi e soggettivi, nonchè alle motivazioni per le quali hanno agito gli imputati, di talchè tutti gli aspetti della vicenda trovano, nella sentenza impugnata, specifiche e dettagliate spiegazioni in riferimento ai rilievi di cui ai rispettivi atti d'appello. Le sentenze, attraverso un completo e minuzioso "excursus" narrativo, hanno correttamente ritenuto che le condotte realizzate dai soggetti saliti a bordo della (OMISSIS) (e dai concorrenti rimasti sulla nave madre) possono e devono essere inquadrate nella fattispecie degli atti di pirateria puniti dal nostro codice della navigazione, soprattutto in considerazione di significativi elementi probatori in tal senso e cioè: - le raffiche sparate con lei armi in dotazione contro i membri dell'equipaggio e del team di sicurezza, costretti a rifugiarsi nella "cittadella" (che rendono evidente l'uso della violenza contro le persone, genericamente contestato nei ricorsi); la ricerca di oggetti e persone nei diversi locali della nave; le azioni poste in essere nel forzare la "cittadella"; i danni arrecati alla strumentazione di bordo e alle strutture della nave, la presenza di un coordinamento ed organizzazione delle attività in remoto, a bordo della nave madre, dove si trovava il soggetto riconosciuto quale comandante (ed anche questa valutazione di merito, adeguatamente motivata e pertanto non soggetta a revisione in sede di legittimità, evidenzia la manifesta infondatezza della specifica contestazione circa l'assenza della predetta figura di comando, necessaria per l'integrazione del reato di pirateria).
3. Si deve, poi, precisare che non vi è rapporto di specialità od assorbimento tra i due reati, che puniscono condotte diverse, tanto da potersi dare sequestro senza depredazione e depredazione senza sequestro. Occorre, infine, ricordare che la pirateria può essere integrata alternativamente sia dagli atti di depredazione che usando violenza contro le persone (cfr. pag. 41 della sentenza impugnata, ove si osserva che i colpi di arma da fuoco furono inizialmente esplosi con traiettoria tale da mettere a repentaglio non solo la sicurezza, ma la vita stessa dell'equipaggio).
4. Circa la progettata estorsione, la Corte d'assise d'Appello, con motivazione logica ed adeguata, ha evidenziato che non appare logicamente sostenibile che gli imputati non avessero alcuna idea della suddetta finalità, a parte la consapevolezza di attaccare una nave al fine di sottrarre tutti i beni materiali ivi presenti; ciò in considerazione delle concrete modalità della condotta posta in essere, come ampiamente illustrato in sentenza (anche con riferimento a quella di primo grado). L'abbordaggio della nave, avvenuto in due differenti fasi ed in più persone riunite (undici), l'utilizzazione quale base logistica della nave-madre (precedentemente catturata dai pirati), l'utilizzazione di veloci e agili "barchini" (skiff) per l'abbordaggio, la prolungata permanenza sulla nave, l'utilizzazione di armi da guerra (kalashnikov e lanciamissili RPG) e di esplosivi per "forzare" la zona fortificata, la manomissione della strumentazione del natante, il danneggiamento seguito da incendio del natante medesimo, sono modalità dell'azione tutte sovrabbondanti ed incongrue se finalizzate al mero scopo di impossessarsi delle "cose mobili altrui" appartenenti alla nave e all'equipaggio, e viceversa pienamente compatibili con l'intento di sequestrare il personale del natante, al fine di impossessarsi della nave e di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione.
5. Le modalità dell'azione, valutate mediante un giudizio di verosimiglianza, che tenga conto anche dell'identità del "modus operandi" in questione rispetto ad episodi coevi ed analoghi, sono chiaramente indicative dell'intento, non riuscito, di impossessarsi della nave e di catturare l'equipaggio, allo scopo di chiedere un riscatto quale compenso per l'atto di pirateria. Significative in tal senso, in quanto atte ad orientare il giudizio di verosimiglianza sull'idoneità ed univocità degli atti, sono le deposizioni dei testi che hanno riferito di precedenti attacchi, ripetuti e ricorrenti ai mercantili in transito nel Golfo di Aden, svoltisi nel medesimo contesto temporale e caratterizzati dal sequestro dell'equipaggio, sempre finalizzato alla richiesta di riscatto. Tali testimonianze trovano, del resto, ampio riscontro nelle notizie di cronaca relative ai numerosi attacchi a navi italiane avvenuti nel corso del 2011 nelle acque dell'Oceano Indiano, nel Golfo di Aden, nelle zone di mare su cui si affaccia lo Yemen e al largo della Malesia.
6. Contro tali valutazioni, nei motivi in esame, sono formulate mere contestazioni di veridicità, generiche e meramente reiterative dei motivi d'appello, nonchè prive di autosufficienza in un vano tentativo di ottenere da questa Corte una revisione di merito delle valutazioni stesse, dimenticando i limiti del sindacato del giudice di legittimità. E' pacifico, in proposito, che ai sensi del disposto dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che detto testo è manifestamente carente di motivazione e/o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione degli atti processuali (Cass. S.U., Sent.n.16 del 19 giugno 1996, Di Francesco, Rv.205620). Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e riservata in via esclusiva a giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione da parte de. ricorrente di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenuta più adeguata (Cass., S.U. Sent. n. 6402 del 30.4.1997, Dessimone, Rv.207942). Del resto, non va dimenticato che, nel momento del controllo della motivazione, la Corte di cassazione non deve (nè può) stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento".
7. Il motivo di ricorso proposto da A.A.A. (circa il riconosciuto ruolo di comandante) è inammissibile, in quanto manifestamente infondato, per la parte in cui contesta l'esistenza di un apparato giustificativo della decisione, che invece esiste; non consentito per la parte in cui pretende di valutare, o rivalutare, gli elementi probatori al fine di trarne conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. In particolare, il problema della qualifica di A.A.A. viene affrontato più volte nella sentenza impugnata, anche mediante richiamo alla pronuncia di primo grado, e più precisamente alle pagine 2, 25, 27, 29, 42, 46. Appare, poi, del tutto sfornita di fondamento la considerazione difensiva secondo cui la Corte avrebbe fondato la qualifica di comandante di A. A.A. solo sulla base della sua età anagrafica. Invero, i giudici di merito hanno ritenuto che A.A.A. fosse il comandante della nave madre A.H. prima di tutto perchè all'atto della cattura egli si trovava ancora a bordo del peschereccio e poi perchè era colui che da qui impartiva gli ordini, distribuiva i compiti e sovrintendeva all'intera operazione (cfr.
pagg. 25, 29, 42 e 46). Solo in via subordinata, e quale conferma del ritenuto ruolo di comandante, i giudici hanno osservato che A. A.A. si distingueva nettamente dagli altri per la sua età, essendo di gran lunga l'unico adulto maturo in un gruppo di giovanissimi e di minorenni. Il dato anagrafico, dunque, non costituisce la prova principale sulla quale i giudici di merito hanno costruito il ruolo del comandante, bensì un elemento di riscontro più che significativo alle testimonianze assunte, secondo cui il prevenuto aveva il comando dell'unità madre A.H. ed era incontestabilmente l'organizzatore ed il coordinatore di tutta l'operazione.
8. Per quanto riguarda il ricorso proposto da G.A.H., sia sufficiente osservare che l'idoneità dell'azione deve essere valutata ex ante (v., per tutte, Sez. 2, n. 44148 del 07/07/2014, Guglielmino, Rv. 260855: L'idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio "ex ante", tenendo conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle modalità dell'azione, mentre la desistenza volontaria presuppone la costanza della possibilità di consumazione del delitto, per cui, qualora tale possibilità non vi sia più, ricorre, sussistendone i presupposti, l'ipotesi del tentativo); gli assalitori, d'altronde non potevano sapere che ci fosse una cittadella blindata e che essi non sarebbero riusciti ad aprirla, anche perchè, come emerge dalla parte in fatto della sentenza impugnata, la decisione di blindare la sala macchine fu presa ed attuata dal personale della sicurezza quando la nave era in navigazione e stava attraversando il canale di Suez (cfr. pagina 8 della sentenza impugnata). I pirati, dunque, non potevano essere al corrente di tale circostanza, nè delle modalità esecutive (successivamente dimostratesi particolarmente efficaci), mentre la presenza di uomini addestrati e pronti a tutto, di mezzi idonei all'abbordaggio, effettivamente realizzato, e la dotazione di numerose armi micidiali lasciavano presumere fondatamente il buon fine dell'operazione. Nè si potrebbe parlare, nel caso di specie, di desistenza volontaria, atteso che fino all'ultimo gli assalitori avevano tentato di scardinare le protezioni a difesa della sala macchine, utilizzando addirittura dell'esplosivo (tale ultimo assalto era avvenuto quando era già sopraggiunta in loco la nave da guerra (OMISSIS) e poco prima che giungesse sul posto la nave inglese (OMISSIS), le cui truppe speciali intervennero a bonificare la (OMISSIS); pagine 18 e 19 della sentenza impugnata). Fino all'ultimo, dunque, non era stato abbandonato il proposito criminoso e solo quando la possibilità di consumazione del delitto era divenuta ormai impossibile, per l'intervento dei Marines inglesi, i pirati si erano finalmente arresi.
1. Per quanto riguarda i ricorsi proposti congiuntamente da A. A.A., Ab.Al.Ah., D.M.A., A. H.M., H.A.H., si osserva quanto segue: le questioni concernenti il difetto di richiesta del Ministro della Giustizia, ai sensi dell'art. 10 c.p., e il difetto di giurisdizione, sono manifestamente infondate, per giurisprudenza conforme di legittimità. Sul punto, non possono che richiamarsi le considerazioni espresse recentemente da due precedenti di questa Corte, nei giudizi a carico dei correi (Sez. 2, n. 26825 del 04/02/2013, A., Rv. 256646; sez. 3, 29/10/2014, n. 2998/15), secondo cui i reati di pirateria previsti dagli artt. 1135 e 1136 c.n., e quelli ad essi connessi, ai sensi dell'art. 12 c.p.p., se commessi nell'ambito delle missioni "Atalanta" e "Ocean Shield" a danno dello Stato o di cittadini o beni italiani, in alto mare o in acque territoriali altrui sono puniti ai sensi dell'art. 7 c.p. e la competenza è del Tribunale di Roma.
2. Ha osservato la seconda sezione di questa corte come la prima definizione di pirateria sia contenuta nell'art. 15 della Convenzione di Ginevra sull'alto mare del 1958; in seguito, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, ratificata dall'Italia con L. 2 dicembre 1994, n. 689), conosciuta anche come Convenzione di Montego Bay (dal nome del luogo nel quale è stata firmata nel 1982), agli artt. 101 e 102, ha definito pirateria marittima "a) ogni atto illecito di violenza o di sequestro, o ogni atto di rapina, commesso a fini privati dall'equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, e rivolti: nell'alto mare, contro un'altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati; contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone e beni, in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato; b) ogni atto di partecipazione volontaria alle attività di una nave o di un aeromobile, commesso nella consapevolezza di fatti tali da rendere i suddetti mezzi nave o aeromobile pirata; c) ogni azione che sia di incitamento o di facilitazione intenzionale a commettere gli atti descritti alle lettere a) o b)".
3. L'art. 101 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, nel definire la "pirateria", stabilisce che sono ritenuti atti di pirateria quegli atti commessi esclusivamente in alto mare o in luogo non sottoposto alla giurisdizione di qualsiasi altro Stato;
restano, quindi, esclusi gli atti commessi nelle acque territoriali, dove lo Stato costiero esercita la propria giurisdizione, che sono comunemente qualificati come armed robbery. L'art. 100 della medesima Convenzione dispone, poi, che tutti gli Stati debbano cooperare per reprimere la pirateria nell'alto mare o in qualunque altra area che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato e li autorizza a prendere parte attiva nella repressione e nella lotta contro la pirateria nelle zone più a rischio riconosciute dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Allorchè una nave rientra nella definizione di nave pirata di cui all'art. 103, ad essa non sono infatti più applicabili le norme generali di cui all'art. 84 della stessa Convenzione, che stabilisce la libertà di navigazione in alto mare, e all'art. 94, che prevede che ogni Stato in alto mare eserciti senza interferenza alcuna la propria giurisdizione e il proprio controllo sulle navi che battono la sua bandiera.
4. A seguito della risoluzione n. 1851 del 2008 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è permesso agli Stati impegnati nella lotta alla pirateria di entrare nel territorio somalo, sia attraverso mezzi aerei che terrestri. La risoluzione n. 1851 è stata preceduta dalla risoluzione n. 1816 del 2008, nella quale si concedeva agli Stati la possibilità di perseguire chi si macchiava di atti di pirateria anche all'interno delle acque territoriali somale per sei mesi, disposizione che è stata di volta in volta rinnovata con le risoluzioni n. 1838 del 2008, n. 1846 del 2008, n. 1851 del 2008, n. 1897 del 2009 e n. 1950 del 2010.
5. In Italia, il reato di pirateria marittima è disciplinato agli artt. 1135 e 1136 c.n.. L'art. 1135, comma 1, dispone che il comandante o l'ufficiale di nave nazionale o straniera, che commette atti di depredazione in danno di una nave nazionale o straniera o del carico, ovvero, a scopo di depredazione, commette violenza in danno di persona imbarcata su una nave nazionale o straniera, è punito con la reclusione da dieci a venti anni. Per gli altri componenti dell'equipaggio la pena è diminuita in misura non eccedente un terzo; per gli estranei la pena è ridotta fino alla metà. Ai sensi dell'art. 1136 (nave sospetta di pirateria) il comandante o l'ufficiale di nave nazionale o straniera, fornita abusivamente di armi, che naviga senza essere munita delle carte di bordo, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
6. Sebbene il principio di territorialità sia uno dei principi regolatori della legge penale nello spazio, anzi il principio base, esso è temperato, però, da altri principi, tra i quali anche quello di universalità, e discende dalla considerazione del territorio quale oggetto sul quale si esercita la sovranità politica dello Stato. La nozione di territorio dello Stato è indispensabile per definire la validità e l'efficacia della legge penale nello spazio.
Gli elementi che concorrono a definire tale nozione sono contenuti nell'art. 4 c.p., comma 2, il quale stabilisce che, agli effetti della legge penale, è "territorio dello Stato" il territorio della Repubblica, e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato.
Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera; alla luce di tale disposizione, le navi ed aeromobili italiani civili e mercantili sono considerati "territorio dello Stato" quando si trovano, rispettivamente, nel mare territoriale o nello spazio nazionale, nel mare libero o nello spazio atmosferico libero. Ai sensi dell'art. 6 c.p. è punibile secondo la legge italiana qualunque reato commesso nel territorio dello Stato medesimo, anche se l'azione o l'omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l'evento costituente la conseguenza dell'azione o dell'omissione.
7. In applicazione del principio di universalità e del recepimento delle consuetudini in sede convenzionale, l'art. 7 c.p., che prevede la deroga al principio della territorialità in relazione ad alcuni reati, punibili incondizionatamente secondo la legge italiana, anche se commessi all'estero da cittadino o da straniero, stabilisce in particolare, al n. 5, che sono punibili secondo la legge penale italiana i reati per i quali speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali ne stabiliscono l'applicabilità.
Il D.L. 30 dicembre 2008, n. 209 (contenente la proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali), convertito in legge con modificazioni dalla L. 24 febbraio 2009, n. 12, contiene disposizioni per l'esercizio della giurisdizione rispetto agli atti di pirateria. In particolare, l'art. 5, comma 4, come modificato dal D.L. 15 giugno 2009, n. 61, art. 1 (convertito in L. 22 luglio 2009, n. 100), prevede che i reati previsti dagli artt. 1135 e 1136 c.n. e quelli a essi connessi ai sensi dell'art. 12 c.p.p. (ossia i reati in concorso formale, reati legati dalla continuazione e commessi per eseguire o occultare i reati di pirateria o nave sospetta di pirateria), se commessi a danno dello Stato o di cittadini o beni italiani, in alto mare o in acque territoriali altrui e accertati nelle aree in cui si svolge la missione "Atalanta", sono puniti ai sensi dell'art. 7 c.p. e la competenza è attribuita al Tribunale di Roma.
8. Anche se espressamente menzionata la L. 22 febbraio 2012, n. 13, solo con l'art. 4, comma 11, che ha disposto l'autorizzazione della spesa, per tutto l'anno 2012, "per la proroga della partecipazione di personale militare all'operazione militare dell'Unione Europea denominata Atalanta e all'operazione della Nato denominata "Ocean Shield" per il contrasto della pirateria, di cui al D.L. 12 luglio 2011, n. 107, art. 4, comma 13, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 agosto 2011, n. 130", la partecipazione italiana all'operazione antipirateria Nato "Ocean Shield", con il coinvolgimento di unità navali statunitensi, britanniche e italiane operanti sotto il comando dell'ammiraglio italiano M., era, al momento dei fatti, assistita dallo stesso quadro normativo formale proprio della prima missione di questo tipo (la missione "Atalanta" promossa dall'Unione Europea), per effetto del D.L. 12 luglio 2011, n. 107, art. 7 convertito con modificazioni nella L. 2 agosto 2011, n, 130 all'epoca vigente.
9. La normativa speciale in materia di giurisdizione, come da ultimo emendata, prevede, quindi, che quando i reati di pirateria (e quelli a questi collegati) vengono commessi nell'area del Golfo di Aden e al largo della Somalia, in danno dello Stato Italiano, di nave, cittadini o beni italiani, gli stessi sono puniti secondo la legge italiana e la giurisdizione non è sottoposta ad alcuna condizione di procedibilità. E' poi prevista la possibilità di procedere al sequestro e alla detenzione di persone, in vista del trasferimento ad altro Stato che eserciti la giurisdizione in base ad accordi negoziati dall'UE, ma anche dalla NATO, in base all'ultimo periodo della norma. Tale attività ha carattere coercitivo, ma non costituisce attività di polizia giudiziaria ed è piuttosto un'attività "sui generis". La consegna è disposta direttamente dalla legge e sfugge a ogni coinvolgimento dell'autorità giudiziaria. I pirati catturati nel corso della missione Atalanta, promossa dall'Unione europea, sono comunque soggetti alla disciplina speciale in materia di misure di garanzia della libertà personale introdotta per il personale della Forze armate in occasione dell'operazione Endouring Freedom, di cui alla L. n. 6 del 2002. v.
Questa estensione è contenuta nella L. n. 12 del 2009, che applica la citata disciplina a chiunque commetta i reati di pirateria e di sospetta pirateria, ai sensi degli artt. 1135 e 1136 c.n..
10. Tanto premesso, rileva il Collegio che le disposizioni del codice penale nazionale concernenti la procedibilità e la giurisdizione nella materia in esame devono essere lette e interpretate alla luce dei principi del diritto internazionale e della normativa di cui alle Convenzioni citate. Poichè, nella fattispecie, è stato contestato e ritenuto dai giudici di merito il reato di "pirateria" di cui all'art. 1135 c.n., il reato in questione e quelli ad esso connessi, in base alle norme nazionali e convenzionali di cui sopra, sono punibili secondo la legge italiana e senza limitazioni relative al luogo in cui sono posti in essere, vale a dire sia se l'azione piratesca sia avvenuta nelle acque territoriali nazionali, sia in alto mare, sia in acque territoriali straniere, in quanto commessi in danno di nave italiana nelle zone di svolgimento dell'operazione "Ocean Shield".
11. Correttamente la Corte territoriale ha, quindi, rigettato sia l'eccezione relativa alla carenza di condizione di procedibilità prevista dall'art. 10 c.p. (essendo stati commessi i reati non all'estero, bensì in acque internazionali), che quella attinente al difetto di giurisdizione, in quanto i reati, essendo stati commessi in alto mare e su nave battente bandiera italiana (quindi su territorio italiano ai sensi dell'art. 4 c.p.), ed essendo stati accertati durante la missione "Ocean Shield", per quanto disposto dalla citata Legge, art. 5, sono puniti ai sensi dell'art. 7 c.p., e la competenza è attribuita al Tribunale di Roma. Nè può essere accolta la tesi difensiva circa la sottrazione a tale competenza degli imputati - che non avrebbero pertanto commesso alcun fatto criminoso sul territorio dello Stato italiano - arrestati sul peschereccio A.H. e mai saliti sulla motonave (OMISSIS).
Al riguardo, sia sufficiente rammentare che, una volta intercettata da parte della nave inglese (OMISSIS) la nave madre, i loro occupanti sono stati sottoposti a fermo di polizia giudiziaria ad opera del comandante G. dell'(OMISSIS), su disposizione del pubblico ministero presso il Tribunale di Roma, e agli stessi sono stati contestati a titolo di concorso i reati commessi a bordo della nave (OMISSIS) (v. pag.24 della sentenza impugnata).
L'accertata compartecipazione all'azione di pirateria compiuta dai coimputati saliti a bordo della (OMISSIS), così come contestata e ritenuta dai giudici di merito, toglie rilevanza alla tesi sostenuta dalle difese, posto che i reati attribuiti a titolo di concorso si sono incontestabilmente realizzati a bordo della nave italiana, e quindi sul territorio dello Stato e in danno di nave italiana nelle zone di svolgimento dell'operazione "Ocean Shield".
12. In merito alla questione relativa alla violazione dell'art. 521 c.p.p., in relazione all'art. 6, comma 3, lett. A) e B) della CEDU, con riferimento al reato di cui al capo 2 della rubrica, se ne deve dichiarare la (manifesta) infondatezza. L'art. 111 Cost., comma 3, inserito dalla novella costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, sancisce il diritto della persona accusata di un reato a essere "informata (..) della natura e dei motivi della accusa". La norma rappresenta la trasposizione, pressochè letterale, della corrispondente disposizione contenuta nell'art. 6, comma 3, lett. a), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, in forza della quale "Ogni accusato ha più specificamente diritto a: a) essere informato (..) in un modo dettagliato della natura e dei motivi della accusa elevata a suo carico".
13. L'inequivocabile tenore della formulazione esclude che l'informazione possa essere limitata ai meri elementi fattuali posti a fondamento della "accusa", e impone, invece, pure l'enunciazione della qualificazione giuridica dei fatti addebitati, che necessariamente concorre a definirne la "natura" dell'addebito, alla quale l'ordinamento riconnette, in esito all'accertamento giudiziario, le conseguenze sanzionatorie. Solo così, infatti, è assicurata, nella sua interezza, la possibilità di effettivo esercizio del diritto di difesa nel "giusto processo", attraverso il quale sì attua la giurisdizione (art. 111 Cost., comma 1).
14. La Corte europea dei diritti dell'uomo, con il noto arresto dell'11 dicembre 2007 (Drassich contro Italia), ha stabilito che la riqualificazione del fatto, operata dal giudice con la sentenza, senza che, in precedenza, la difesa dell'imputato avesse avuto la possibilità "di discutere in contraddittorio la nuova accusa", costituisce violazione dell'art. 6, comma 3, lett. a), della Convenzione citata. La regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo è stata ritenuta da questa Corte conforme al principio statuito dall'art. 111 Cost., comma 2, che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene alla valutazione giuridica del fatto commesso (cfr. Sez. 6, n. 45807/2008, rv. 241754).
15. Considerato che, nel nostro ordinamento, è previsto dall'art. 521 c.p.p., comma 1, il potere del giudice "di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella contenuta nel capo di imputazione", tale diritto deve essere oggi necessariamente correlato al diritto alla informazione in ordine alla "natura della accusa" che, in rapporto all'evoluzione del procedimento nella fase processuale, si traduce nel diritto alla contestazione dell'imputazione, consistente nella "enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge" (art. 405 c.p.p.; art. 417 c.p.p., comma 1, lett. b); art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c).
16. Il contemperamento di tale norma con la regola in questione è, poi, certamente possibile attraverso una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 521 c.p.p., comma 1, che va, quindi, interpretato nel senso che la correlazione tra sentenza ed accusa deve sussistere, assicurando all'imputato la garanzia del contraddittorio, anche in relazione alla qualificazione giuridica del fatto. Esclusa la possibilità dell'attuazione "a sorpresa" del potere di nuova (e diversa) qualificazione della condotta, condizione essenziale per l'esercizio del potere in questione è la preventiva promozione, a opera del giudice, del contraddittorio tra le parti sulla "quaestio juris" relativa a una diversa qualificazione giuridica del fatto (v.
Sez. 6, sent. n. 36323/2009, Riv. n. 244974; Sez. 6, Sent. n. 45807/2008 cit., in una fattispecie relativa alla modifica della qualificazione giuridica nel giudizio in Cassazione; V. altresì Sez. 2, Sent. n. 14674/2010 Rv. 246922, per la quale il giudice di legittimità ha il potere di procedere "ex officio" alla riqualificazione giuridica del fatto, senza necessità di consentire all'imputato di interloquire sul punto allorquando, nel ricorso presentato dallo stesso, tale eventualità sia stata espressamente presa in considerazione, ancorchè per sostenere la diversità del fatto da quello contestato e la conseguente violazione dell'obbligo di trasmissione degli atti al pubblico ministero). L'inosservanza di tale regola e la riqualificazione dell'imputazione operata in sentenza senza il previo contraddittorio è, quindi, causa di nullità generale a regime intermedio, per violazione del diritto di difesa, e ciò anche nelle ipotesi in cui la riqualificazione sia più favorevole per l'imputato (v. Sez. 1, Sent. n. 18590/2011 Rv.
250275). Anche in tali casi, infatti, la difesa potrebbe essere comunque pregiudicata dalla mancata informazione, in quanto impedita di diversamente atteggiarsi (quanto alle opzioni strategiche) e modularsi (sul piano tattico), in rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta, rispetto alla quale, oltretutto, le emergenze processuali potrebbero assumere, a loro volta, diversa e nuova rilevanza.
17. Questa Corte (v. ancora Sez. 2, n. 26825 del 04/02/2013, A., Rv.
256646) ha affermato il principio, condiviso da questo Collegio, che la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice è assicurata quando l'imputato abbia comunque avuto modo di interloquire sul tema della diversa qualificazione giuridica in una delle fasi del procedimento, e che la regola è rispettata qualunque sia la forma nella quale ciò sia avvenuto (v. Sez. 1, Sent. n. 9091/2010 Rv. 246494, in un caso nel quale la Corte ha ritenuto la regola rispettata in quanto la diversa qualificazione giuridica era stata oggetto di discussione nel corso del giudizio di merito, quanto meno nel procedimento incidentale "de libertate"; Sez. 6, Sent. n. 10093/2012 Rv. 251961, in fattispecie di diversa definizione giuridica del fatto da parte del giudice di primo grado nella sentenza pronunziata all'esito del giudizio abbreviato. V. altresì Sez. 2, Sent. n. 32840/2012 Rv.
253267, la quale ha ritenuto che l'osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l'imputato è chiamato a rispondere, sancito dall'art. 6 CEDU, comma 1 e comma 3, lett. a) e b), e dall'art. 111 Cost, comma 3, è assicurata anche quando il giudice d'appello provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l'imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b), trattandosi di questione di diritto la cui trattazione non incontra limiti nel giudizio di legittimità).
18. Tanto premesso, rileva il Collegio che il contraddittorio, nel caso in questione, si è realizzato, poichè il mutamento del titolo del reato è intervenuto all'esito del giudizio di primo grado, e con i motivi d'appello gli imputati sono stati posti nelle condizioni di contraddire la diversa qualificazione giuridica e di richiedere una specifica rivalutazione nel merito e ogni ulteriore integrazione probatoria utile a smentire la diversa qualificazione attribuita al fatto oggetto dell'imputazione. Peraltro, i giudici di merito hanno correttamente ritenuto che i fatti, come contestati nell'imputazione, hanno garantito, per la loro ampiezza espositiva, il diritto di difesa, dal momento che le due fattispecie di cui all'art. 289 bis c.p. e art. 630 c.p. sono identiche, salvo per il quid pluris (escluso dai giudici) legato alla finalità di terrorismo; peraltro, nell'imputazione di cui al capo n. 2 (ove espressamente si indica, tra le finalità, anche quella di ottenere un riscatto in danaro, quale prezzo del rilascio del natante e degli ostaggi) era già contestata la finalità estorsiva, costituente il dolo specifico del reato previsto dall'art. 630 c.p. e, dunque, rispetto a tale finalità gli imputati hanno avuto ampia possibilità di difendersi.
19. A ciò non può non aggiungersi che, diversamente dalla fattispecie sottoposta all'esame della Corte Europea, nella quale la qualificazione giuridica del fatto era stata modificata con il dispositivo della decisione di legittimità, in questo caso la diversa qualificazione giuridica è intervenuta in primo grado ed è stata oggetto di ampia discussione nel giudizio di appello, senza che in concreto siano stati individuati o prospettati nuovi e ulteriori mezzi di prova 20. Consegue a quanto esposto che i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili; alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge (art. 616 c.p.p.), la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso: cfr. sez. 2, n. 35443 del 06/07/2007, Ferraloro, Rv. 237957) al versamento, a favore della Cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1.000,00.
21. Va, inoltre, disposta la condanna alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano come da dispositivo.
PQM
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende, nonchè al rimborso, in solido, delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2015.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2015
16-05-2015 21:27
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