Caporalmaggiore scelto dell'E.I. lede il prestigio e l'onore di un Capitano che si sarebbe rivolto a lui dandogli del TU
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 15-03-2016) 12-09-2016, n. 37809
Fatto Diritto P.Q.M.
INGIURIA E DIFFAMAZIONE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VECCHIO Massimo - Presidente -
Dott. DI TOMASSI Mariastefania - Consigliere -
Dott. SARACENO Rosa Anna - Consigliere -
Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio - Consigliere -
Dott. MINCHELLA Antonio - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) C.A., nato il (OMISSIS);
Avverso la sentenza n 144/2015 della Corte Militare di Appello di Roma del 21.04.2015;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso ed udita in pubblica udienza la relazione svolta dal Consigliere Dott. Antonio Minchella;
Udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. Luigi Maria Flamini, il quale ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza resa il 03.07.2013 il Tribunale Militare di Roma affermava la responsabilità dell'imputato C.A., caporalmaggiore scelto dell'Esercito Italiano, in servizio presso il sesto reggimento di manovra in Pisa, in ordine al delitto di insubordinazione con ingiuria a superiore aggravata (art. 190 c.p.m.p., n. 2, art. 189 c.p.m.p., comma 2), contestatogli per avere ripetutamente offeso il prestigio, l'onore e la dignità del superiore, capitano D.S.F., profferendo con l'uso della seconda persona singolare le frasi allusive a discutibili costumi sessuali dell'interlocutore e della moglie, secondo quanto indicato nell'imputazione ed assumendo un gesto minaccioso (fatti commessi in (OMISSIS)) e, per l'effetto, lo condannava a mesi sei di reclusione militare, pena sospesa. Proposto appello da parte dell'imputato, la Corte militare di Appello con la sentenza emessa in data 12.02.2014 riformava quella di primo grado ed assolveva l'imputato perchè il fatto non costituisce reato, ritenendo che, nonostante la dimostrata verificazione dell'episodio dal quale era scaturita l'accusa e la pronuncia delle frasi contestate, non altrettanto certa era la ricorrenza dell'elemento soggettivo del dolo, in quanto l'imputato aveva utilizzato quelle espressioni sconvenienti per diffidare il superiore dal credere alle dicerie incontrollate.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte militare d'appello, lamentando mancanza e manifesta illogicità della motivazione: secondo il ricorrente, la Corte Militare non aveva considerato che la frase indicativa delle voci correnti tra la truppa su possibili deviazioni sessuali del superiore e della moglie era stata pronunciata in un contesto comunicativo, non di avvertimento a non dare ascolto a dicerie, quanto per contrastare l'azione di comando che il superiore stava esercitando mediante la richiesta di informazioni su comportamenti ed inclinazioni personali del sottoposto in ordine all'assunzione di alcolici, tali da influire sulla regolare prestazione del servizio.
Con sentenza in data 15.10.2014 la Corte Suprema accoglieva il ricorso e annullava con rinvio la sentenza: rilevava la Corte che il C., secondo quanto riportato nella stessa sentenza impugnata, non si era limitato ad un discorso ipotetico, ricorrendo con convinzione e forza dialettica ad argomenti capaci di convincere l'interlocutore; al contrario, indispettito per essere stato convocato a rapporto dopo un protratto servizio e prima di poter fruire del previsto riposo, dopo avere preteso la presenza di un militare di pari grado, alle richieste del capitano sull'eventuale uso di alcolici, aveva replicato con locuzioni che la stessa Corte Militare di appello riconosceva come sconvenienti ed inappropriate, lesive del prestigio e della dignità del superiore, siccome fatto oggetto di disprezzo, di scherno, di volgari illazioni, seppur riferite a dicerie diffuse tra la truppa; sotto il profilo oggettivo è indubbio che tali espressioni avevano pregiudicato l'autostima e l'onore del destinatario e si riteneva fondata anche la doglianza che lamentava una lettura travisante delle risultanze probatorie in merito al dimostrato clima di tensione e di ostilità che si era creato sin dall'inizio del confronto tra il C. ed il cap. D.S.. Concludeva la Corte Suprema che la sentenza impugnata aveva inspiegabilmente omesso di prendere in considerazione la frase sul rifiuto di accettare ordini dal D.S. ed il gesto del puntare il dito nella sua direzione in tono di sfida e di velata minaccia per poi abbandonare il luogo: dunque si perveniva alla conclusione di una sentenza incorsa in carenza di motivazione per non avere illustrato alcun argomento, dal quale desumere il dubbio sull'elemento soggettivo, e per essere quindi supportata da motivazione in parte illogica, in parte carente.
Con sentenza in data 21.04.2015 la Corte Militare di Appello condannava il C. sia pure riducendo la pena a mesi tre di reclusione militare: si precisava che la ricostruzione del fatto storico era indubitata e che la doglianza difensiva circa l'inattendibilità dei testi escussi era solo una enunciazione priva di sostegno, giacchè in loro non si riscontrava nè malanimo nè animosità nè pretese economiche verso l'imputato; si tratteggiava il capitano D.S. come persona pacata e l'imputato come un insubordinato che aveva tenuto un comportamento offensivo immotivato nonostante che il capitano gli avesse parlato in tono tranquillo e gli avesse consentito di rivolgersi al comandante del reggimento; per tali ragioni non veniva accolta la richiesta difensiva di escutere detto comandante, in quanto costui poteva conoscere fatti pregressi o fatti a lui riferiti dal solo imputato, il quale sottolineava il Giudice - non aveva nemmeno offerto una versione alternativa dell'episodio, limitandosi a sostenere di non avere pronunziato frasi offensive, nonostante la concorde testimonianza delle persone presenti. Riteneva la Corte Militare di Appello che il tutto si era verificato quando l'imputato, convocato a rapporto dal capitano dopo un turno di servizio armato, aveva contestato questa facoltà del superiore, affermando che il recupero psicofisico doveva iniziare subito dopo il servizio ed aveva preteso di essere assistito da un altro commilitone; il capitano D.S. aveva congedato l'altro commilitone, precisando che si trattava soltanto di un colloquio informale, e poi aveva chiesto al C. se facesse uso di alcolici, giacchè aveva raccolto indicazioni in tal senso dalla truppa e temeva che ciò potesse incidere sulla qualità del servizio; il C. si era alterato per la domanda ed aveva iniziato a mostrare un atteggiamento ostile, tanto da dover essere calmato da un sottufficiale presente, e poi aveva risposto al capitano che non bisognava dare ascolto alle voci di truppa, giacchè in caserma vi erano voci anche su infamanti costumi sessuali del superiore e della moglie dello stesso, secondo quanto riportato in imputazione; poi chiedeva si parlare con il comandante del reggimento, e all'offerta del capitano di accompagnarlo poichè lo vedeva in stato di alterazione, egli replicava -puntandogli il dito addosso - con le parole: "Io vado solo e tu non mi accompagni". Il Giudice riteneva queste espressioni come una ingiustificata reazione aggressiva, offensiva e minacciosa, sprezzante del superiore e finalizzata ad ostacolare l'azione di comando; le locuzioni venivano ritenute sconvenienti e lesive del prestigio del superiore, fatto segno di illazioni volgari ed oscene e la parte finale del colloquio veniva ritenuto un respingimento dell'autorità. Considerati gli attestati di stima di servizio, venivano riconosciute le circostanze attenuanti generiche nonchè la circostanza attenuante dell'aver commesso il fatto per i modi non convenienti usati da altro militare, giacchè il capitano gli aveva dato del "tu". Il Giudice precisava, tuttavia, che, sebbene il capitano avesse commesso questa irregolarità formale, ciò non mutava la valutazione di pacatezza e di condotta immune da censure del suo operato.
Avverso detta sentenza propone ricorso l'imputato a mezzo del suo difensore, deducendo illogicità manifesta e contraddittorietà della motivazione: il ricorso sostiene che vanno esaminate a confronto le due sentenze di appello per comprendere che quella di assoluzione aveva una motivazione coerente e logica mentre quella di condanna sarebbe illogica ed incoerente, poichè considera il capitano D.S. come disponibile e tranquillo ma poi ammette che egli aveva allontanato il commilitone del quale l'imputato chiedeva la presenza e ciò evidentemente per non avere testimoni; inoltre la sentenza riconosce che il capitano aveva fatto uso della seconda persona singolare per cui aveva usato espressioni non corrette, ma poi non ammette che allora tutto l'episodio doveva essere inquadrato in una situazione di reciproca litigiosità e che risulterebbe inspiegabile per quale ragione un militare più volte premiato avrebbe avuto una condotta di insubordinazione; si lamenta poi la mancata assunzione di una prova decisiva quale si afferma essere la testimonianza del comandante di reggimento, il quale sarebbe a conoscenza dei rapporti personali tra i due individui coinvolti e dei fatti occorsi.
Il P.G. ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso va rigettato poichè infondato.
Nella parte precedente è stata sintetizzata la vicenda processuale e si eviteranno, quindi, pleonastiche ripetizioni: appare soltanto necessario ricordare che il ricorrente è stato condannato perchè, in occasione di un colloquio con un proprio superiore, non aveva gradito una domanda di quegli circa un suo eventuale abuso di sostanze alcoliche, replicando in modo sgarbato ed offensivo, con allusioni ad abitudini sessuali del superiore stesso e della moglie nonchè tenendo un atteggiamento di sfida.
Il ricorso si articola in due fondamentali momenti di doglianza: 1) incongrua motivazione relativa al riconoscimento della penale responsabilità, che non avrebbe valutato adeguatamente il clima di ostilità in cui si era svolto il colloquio e l'atteggiamento del capitano che avrebbe allontanato un testimone a lui sgradito; 2) mancata assunzione di una prova asseritamente decisiva, e cioè la testimonianza del comandante del reggimento, il quale avrebbe potuto riferire sui rapporti personali tra i due individui coinvolti nei fatti.
Ma si tratta di doglianze che non possono essere accolte.
1. La sentenza impugnata, premesso che non sussiste contrasto tra le parti circa la ricostruzione in punto di fatto della condotta materiale, perpetrata nel corso di un colloquio intercorso tra il capitano D.S. e l'imputato alla presenza dei testi D.P. e D.M., che ne hanno riferito concordemente al dibattimento, ha confermato il giudizio di responsabilità, espresso dal Tribunale Militare, riconoscendo la volontarietà delle offese rivolte dal sottordinato al superiore. Il C., all'apparenza, richiamava l'attenzione dell'interlocutore sulla necessità di non prestare fede a voci imprecisate, perchè le stesse colpivano in modo indiscriminato anche la sua persona e quella della moglie con la diffusione di notizie pregiudizievoli.
Nel dettaglio, il C. aveva detto al superiore le parole: "Ci sono voci che tu e tua moglie andate (... OMISSIS...) a (OMISSIS)". A fronte di ciò, i giudici di appello correttamente hanno ritenuto la sussistenza del reato contestato: la decisione impugnata tiene adeguatamente conto della configurazione astratta della fattispecie di insubordinazione con ingiuria, prevista dall'art. 189 c.p.m.p., comma 2, quale reato plurioffensivo, perchè tutela la dignità e l'onore del "superiore", ma anche l'integrità e l'effettività del rapporto gerarchico, che è funzionale al mantenimento della compattezza e dell'efficienza delle forze armate, necessarie per il raggiungimento dei compiti loro affidati dall'ordinamento. Inoltre, il particolare rigore cui sono improntati i rapporti nel contesto militare, conduce a considerare offesa all'onore ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore, così come il ricorso ad espressioni dal tono arrogante, perchè contrari alle esigenze della disciplina militare, la quale impone come indispensabili le norme penali di protezione dell'effettività della gerarchia e richiede che il superiore Sia tutelato non solo nell'espressione della sua personalità umana, ma anche nell'ascendente morale che deve accompagnare l'esercizio dell'autorità corrispondente al grado e la funzione di comando (Sez. 1, n. 3971 del 28/11/2013, Rv. 259013).
La fattispecie in esame ripete poi dal reato comune di ingiuria le sue caratteristiche di delitto a dolo generico, che si realizza allorchè l'agente rivolga al destinatario, in questo caso un militare di grado superiore, una frase lesiva del decoro e dell'onore dello stesso, senza che sia necessaria la volontà di offendere o umiliare, trattandosi di delitto volto a tutelare, sia il patrimonio morale della persona, sia il bene indisponibile della disciplina militare. Pertanto, per la sua integrazione è sufficiente la cosciente volontà di pronunciare espressioni di univoco significato offensivo, perchè dispregiative, mortificanti ed avvilenti, senza che assumano rilievo eventuali moventi o finalità individuali di volta in volta perseguite (Sez. 1, n. 12997 del 10/02/2009, Rv. 243545; Sez. 1, n. 42367 del 16/11/2006, Rv. 235569).
Nella fattispecie, il C., secondo quanto riportato nella sentenza impugnata, indispettito per essere stato convocato a rapporto dopo un protratto servizio e prima di poter fruire del previsto riposo, dopo avere preteso la presenza di un militare di pari grado, alle richieste del capitano sull'eventuale uso di sostanze alcoliche, ha replicato con locuzioni sconvenienti ed inappropriate, lesive del prestigio e della dignità del superiore, siccome fatto oggetto di disprezzo, di scherno, di volgari illazioni, seppur riferite a dicerie diffuse tra la truppa. Se dunque sotto il profilo oggettivo è indubbio che tali espressioni abbiano pregiudicato l'autostima e l'onore del destinatario, sia come militare che come persona, del tutto correttamente la Corte Militare di Appello ha ritenuto che le stesse abbiano violato le regole di disciplina ed i principi che devono regolare i rapporti gerarchici in contesto militare.
Il contesto dei fatti, così come ricostruito dalla sentenza impugnata, non dà conto affatto dell'asserito clima di tensione e di ostilità del confronto tra il C. ed il capitano D.S., nel senso che le deposizioni riportate evidenziano un confronto tra i due protagonisti che non si era svolto in modo sereno, confidenziale e collaborativo, ma non anche di un atteggiamento di preconcetta ostilità del capitano D.S.; anzi, si evidenzia un marcato risentimento dell'imputato per la convocazione, ritenuta inappropriata nei tempi e nei modi, tanto da avere manifestato l'intenzione iniziale di non dare risposta alle domande che gli sarebbero state poste. In seguito, alle richieste del suo superiore sull'eventuale uso di alcolici, rivoltegli in modo informale ed a solo scopo conoscitivo, si era verificata la sua reazione aggressiva, offensiva e minacciosa, tradottasi, dapprima in negazioni, quindi in un atteggiamento verbale e gestuale provocatorio e sprezzante con l'uso della seconda persona singolare, con le allusioni a pratiche sessuali infamanti e con le rimostranze per la presunta persecuzione di cui era vittima da parte del capitano D.S. e del vice comandante di compagnia. L'episodio si era concluso con la frase: "Io vado da solo e tu non mi dai ordini, che era seguita all'offerta della parte lesa, visto lo stato di alterazione del subordinato, di farlo accompagnare.
Parimenti è corretta la conclusione dei giudici di appello circa il fatto che la tensione e la conflittualità del dialogo informale tra i due militari furono coerenti con un atteggiamento doloso del soggetto agente per avere scelto di respingere le pur legittime domande postegli dal capitano D.S. con offese gratuite e volgari e con la manifestata intenzione di respingere gli ordini eventualmente impartitigli.
La Corte militare ha poi rilevato che il mancato uso della terza persona singolare nel rapportarsi al superiore rivela il disprezzo per il superiore e l'intenzione di rapportasi ad esso in condizioni di parità, negandone l'autorità ed il grado, espressa anche con la frase relativa al rifiuto di accettare ordini dal D.S. e con il gesto del puntare il dito nella sua direzione in tono di sfida e di velata minaccia per poi abbandonare il luogo, atteggiamento complessivo anch'esso coerente con la tesi accusatoria, che vuole l'imputato insubordinato per avere aggredito verbalmente il superiore ed averne respinto l'autorità, la potestà di impartirgli ordini e la catena di comando espressa dal rapporto gerarchico mediante un comportamento di aperta ribellione.
2. Parimenti priva di fondamento si rivela la doglianza relativa alla mancata assunzione di una asserita prova decisiva.
Sul punto, è necessario precisare che la doglianza relativa alla mancata ammissione di prova decisiva non può prescindere - in ossequio al principio dell'autosufficienza del ricorso - dall'assolvimento dell'onere di specificazione volto ad indicare il coefficiente di decisività della prova pretermessa, ossia la sua potenziale capacità, ove ammessa, di contrastare efficacemente le prove a carico sì da scardinare la tenuta logica del costrutto giustificativo della sentenza impugnata e da ribaltare il giudizio di colpevolezza. Nel caso di specie, l'onere dell'allegazione non può dirsi assolto, avendo omesso il ricorrente di indicare le ragioni per le quali la prova non ammessa sarebbe stata capace di disarticolare il percorso logico-giuridico seguito del giudice a quo, valendo a dimostrare la reclamata assenza di responsabilità nell'imputato, odierno ricorrente (Sez. 5, n. 2815 del 12.11.2013, Rv 258878).
Nello specifico, infatti, la prova decisiva sarebbe consistita nella audizione del comandante di reparto, il quale, tuttavia, non era presente ai fatti e non avrebbe potuto riferire sulle parole pronunziate dal C. o sui gesti tenuti dal medesimo, bensì, in modo molto più generico, sui rapporti intercorrenti tra i due individui. In effetti, nemmeno il ricorso non afferma nemmeno che il citato comandante avrebbe potuto offrire una diversa ricostruzione dei fatti, ma si limita a lamentare la mancata audizione del medesimo.
Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato e che il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2016
06-11-2016 12:23
Richiedi una Consulenza