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Sentenza

Maresciallo dei CC dà una pacca sui glutei ad una collega, Maresciallo inferiore...
Maresciallo dei CC dà una pacca sui glutei ad una collega, Maresciallo inferiore di grado, dicendole: "su a lavorare". Condannato a sei mesi di reclusione militare, pena sospesa.
Cassazione penale, sez. I, 15/03/2016, (ud. 15/03/2016, dep.06/10/2016),  n. 42357
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                        SEZIONE PRIMA PENALE                         
              Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:              
Dott. VECCHIO     Massimo      -  Presidente   -                     
Dott. DI TOMASSI  Maria S -  rel. Consigliere  -                     
Dott. SARACENO    Rosa Anna    -  Consigliere  -                     
Dott. MANCUSO     Luigi Fabriz -  Consigliere  -                     
Dott. MINCHELLA   Antonio      -  Consigliere  -                     
ha pronunciato la seguente:                                          
                     SENTENZA                                        
sul ricorso proposto da: 
             P.G., nato (OMISSIS); 
avverso la sentenza emessa in data 07/10/2015 dalla Corte militare di 
appello, parte civile        G.C.. 
Visti gli atti, la sentenza impugnata, il ricorso; 
sentita la relazione svolta dal Consigliere Dr. M. Stefania Di 
Tomassi; 
udito il Pubblico Ministero, in persona del Procuratore generale 
militare, Dr. Flamini Luigi Maria, che ha concluso chiedendo il 
rigetto del ricorso; 
udito l'avvocato Alessandro Comunale Butturini per la parte civile, 
che chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso e in 
subordine, il suo rigetto, richiamando le conclusioni scritte e la 
nota spese; 
udito l'avvocato Barbara Sorgato per il ricorrente, che ha concluso 
chiedendo l'accoglimento del ricorso. 
                 


Fatto
RITENUTO IN FATTO

1. Con la decisione in epigrafe la Corte militare di appello confermava la sentenza emessa in data 16 dicembre 2014 dal Tribunale militare di Verona, che aveva dichiarato P.G. responsabile del reato di ingiuria ad inferiore, ex art. 196 c.p.m.p., commesso il (OMISSIS), condannandolo, in concorso di circostanze attenuanti generiche, alla pena, sospesa, di sei mesi di reclusione militare, e al risarcimento dei danni, contestualmente liquidati nella misura di 1.500,00 Euro, in favore della persona offesa costituita parte civile, G.C..

Acquisite le dichiarazioni testimoniali della G. e di numerosi altri soggetti, e la documentazione prodotta, concernente anche lo stato dei luoghi, si era ritenuto provato che nella data indicata il Mar. ord. dei Carabinieri G., in servizio presso il nucleo operativo della Stazione dei Carabinieri di (OMISSIS), nel transitare unitamente ad altri militari per le scale della sede di servizio, aveva incrociato il Mar. A.s. UPS P., suo superiore gerarchico, che, fermatosi di lato, la toccava con una mano, a mò di pacca, sui glutei, accompagnando il gesto con la frase "su a lavorare".

Era stato appurato, in particolare, che la G., riferendo sconcerto, aveva raccontato l'accaduto al Mar. M. e su consiglio di questo aveva fatto rapporto al Col. L., senza tuttavia presentare denunzia-querela. Il procedimento penale era quindi scaturito dalla archiviazione della querela per diffamazione presentata nel novembre successivo nei confronti della G. dal P., a seguito della instaurazione nei suoi confronti di procedimento disciplinare.

La linearità, coerenza e complessiva attendibilità delle dichiarazioni della G. era considerata corroborata dalla manifestata assenza di animosità; dalle dichiarazioni rese da colleghi e superiori ai quali aveva riferito nell'immediatezza l'accaduto; dalle dichiarazioni inoltre del Vice Brig. C. che, presente unitamente ad altro militare, F., al piano terra della caserma, aveva riferito di avere visto il P. fermarsi sulle scale con le spalle al muro, e dare "con la mano destra (...) una leggera pacca, uno schiaffo, sui glutei del maresciallo G. dicendo una frase del tipo "su a lavorare"; dalla contraddittorietà della querela del P. e delle sue stesse dichiarazioni difensive rese a dibattimento, nella prima ammettendosi il gesto, assertivamente istintivo, per mettere in sicurezza sulle scale l'inferiore in grado, in dibattimento avendo addirittura il P. negato, in contrasto con i dati testimoniali e documentali, di essere stato presente in ufficio quel giorno.

2. Ha proposto ricorso il P. a mezzo del difensore avvocato Barbara Sorgato, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.

Denunzia violazione di legge e vizi della motivazione, anche sotto il profilo del "travisamento della prova":

2.1. con riferimento alla valutazione del materiale probatorio e, in particolare, delle prove dichiarative, quanto ad attendibilità della persona offesa, coincidenza delle sue dichiarazioni con quelle del C. (sensibilmente divergenti invece quanto a ora, persone presenti, connotazioni del gesto, frase che l'avrebbe accompagnato, reazione del Mar. G.), attendibilità delle dichiarazioni del C. (tra l'altro in contrasto anche con quanto risultante dal memoriale di servizio), contraddittorietà delle dichiarazioni del P. (che aveva affermato sempre, invece, che all'ora riferita neppure era in caserma);

2.2. con riferimento alla mancata applicazione dell'art. 199 c.p.m.p., non spiegando la sentenza impugnata quale sarebbe stato il servizio in corso, escludendo persino la parte civile di avere sentito la frase "su a lavorare", evocata a giustificazione e comunque dimostrando anzi detta frase esattamente il contrario (ovverosia che si era in pausa); dalle dichiarazioni del Mar. G. non risultando la presenza di altri militari in servizio, al di fuori del F. che nulla aveva però percepito; con riferimento, perciò, alla mancata applicazione della più lieve fattispecie dell'art. 226 c.p.m.p., improcedibile per mancanza della richiesta di cui all'art. 260 c.p.m.p.;

2.3. con riferimento alla determinazione della pena, motivata per relationem alla sentenza di primo grado e senza considerare la meritoria condotta professionale del P., attestata dalla documentazione prodotta, e senza giustificare le valutazioni in punto di gravità del danno e intensità del dolo;

2.4. con riferimento alla liquidazione dei danni patiti dalla parte civile, non accompagnata da adeguata motivazione sui criteri adottati e giustificata sulla base di elementi contraddittori (emergenti dalle dichiarazioni della persona offesa e del teste C. tra loro in contrasto);

2.5. con riferimento alla applicabilità dell'art. 131-bis c.p. per la speciale tenuità del fatto.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, per molti aspetti al limite dell'ammissibilità, appare nel complesso quantomeno infondato.

2. Quanto alle censure relative alla valutazione del materiale probatorio, è sufficiente ricordare che la sentenza impugnata, richiamati gli elementi di prova considerati dal Tribunale e confermatane la valutazione (cfr. in fatto, par. 1, cui per brevità si rimanda), a ragione della conferma della sentenza di primo grado e in risposta alle doglianze articolate nell'atto d'impugnazione, ha - in breve - osservato, in punto di responsabilità:

- che la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa era meramente congetturale e si fondava su una teoria complottistica che non solo non trovava riscontri ma risultava smentita dallo stesso sviluppo della vicenda processuale (l'imputazione era scaturita dalla iniziativa dello stesso imputato di denunciare per diffamazione la persona offesa, a seguito della archiviazione della sua querela); i testi escussi risultavano pienamente credibili, le loro dichiarazioni erano caratterizzate da serenità e apparivano evidentemente ispirate dal solo desiderio di chiarire, anche a distanza di tempo, i fatti; le dichiarazioni testimoniali della G. e del C. risultavano pienamente dimostrative del fatto contestato; le "discrasie" evidenziate dalla difesa erano marginali e ampiamente spiegabili con la diversa attenzione posta da ciascuno a particolari aspetti dell'episodio e al loro ricordo più o meno nitido, così anzi dimostrando la genuinità di entrambi; la circostanza, in particolare, che la G. non avesse udito la frase "su a lavorare", non solo appariva spiegabile per il suo stato emotivo, ma ne confermava attendibilità e genuinità, trattandosi di particolare che avrebbe militava a favore della sua versione.

Sicchè, a fronte della conforme e adeguata motivazione dei giudici di merito in punto di valutazione delle prove e delle risposte, esaustive e plausibili, date alle contrastanti prospettazioni difensive, sostanzialmente riprodotte nell'atto di ricorso, le doglianze riferite all'affermazione di responsabilità appaiono all'evidenza infondate, laddove sostengono vizi di motivazione o "travisamento" delle prove, oltre che in

definitiva generiche e tendenti a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti esclusivamente attinenti all'apprezzamento, che risulta correttamente operato, del materiale probatorio.

3. Anche la doglianza concernente l'art. 199 c.p.m.p. e alla ritenuta sussistenza della intraneità al servizio della condotta in contestazione è da ritenere quantomeno infondata alla luce delle risposte già versate in atti dalla Corte di appello alle analoghe censure sviluppate nell'atto di appello.

Ineccepibilmente la sentenza impugnata ha infatti rilevato che erano proprio la posizione di comando del P. e l'attualità del servizio che connotavano e caratterizzavano come abuso del grado il gesto del primo, accompagnato dall'esortazione di andare a lavorare, in un contesto orario, ambientale e logistico inequivocabilmente di servizio (cfr. sent. imp., pagine 32-35, cui può farsi per il resto integrale richiamo).

4. Inammissibili sono le deduzioni concernenti l'entità della pena, non solo perchè non oggetto di specifico motivo di appello, ma anche perchè riferite a valutazioni squisitamente di fatto articolate sulla base dei parametri considerati nell'art. 133 c.p. ritenuti nel caso di specie prevalenti sulla base di insindacabili apprezzamenti di merito, e perchè nella sostanza anche generiche e prive di autosufficienza.

Inammissibili sono le censure sull'entità della liquidazione dei danni riconosciuti alla parte civile, parimenti riferite a valutazioni di fatto, di necessità espressione di un giudizio meramente equitativo; trattandosi per altro di quantificazione estremamente contenuta.

E inammissibile è, infine, la richiesta di applicazione dell'art. 131-bis c.p., vuoi perchè detta richiesta neppure risulta avanzata alla Corte di appello, pur potendo la relativa valutazione essere sollecitata almeno in sede di discussione (successiva alla novella legislativa); vuoi perchè non risulta dagli atti alcun elemento da cui, anche implicitamente, desumere che il fatto sia stato considerato dai giudici di merito - ai quali tale valutazione è di principio riservata - di particolare tenuità;

5. Il ricorso non può, pertanto, che essere rigettato.

Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione alla parte civile G.C. delle spese sostenute nel presente giudizio, che tenuto conto della natura della controversia e dell'impegno profuso, vanno liquidate, come da dispositivo, in complessivi Euro 4.000,00 (quattromila), oltre accessori (IVA, CPA e spese generali forfettarie) come per legge.
PQM
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè al pagamento a favore della costituita parte civile delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 (quattromila) oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2016
Avv. Antonino Sugamele

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