Maresciallo dei carabinieri definisce il comandante della compagnia "carogna, bastardo, pazzo, figlio di puttana", definendolo A. L. noto giornalista di striscia la notizia.
Cassazione penale, sez. I, 03/05/2017, (ud. 03/05/2017, dep.30/05/2017), n. 27047
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI TOMASSI Mariastefania - Presidente -
Dott. BONITO Francesco M - Rel. Consigliere -
Dott. ROCCHI Giacomo - Consigliere -
Dott. TALERICO Palma - Consigliere -
Dott. APRILE Stefano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore Generale presso Corte d'Appello
di Roma nei confronti di:
L.C.C., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 19/10/2016 della CORTE MILITARE APPELLO di
ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/05/2017, la relazione svolta dal
Consigliere Dott. Bonito Francesco Maria Silvio;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Fimiani Pasquale
che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza
impugnata.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 8 ottobre 2015 il Tribunale militare di Verona condannava alla pena di quattro mesi di reclusione militare, concessi i benefici di legge, L.C.C., maresciallo dei CC., all'epoca dei fatti comandante della tenenza di (OMISSIS), accusato, ai sensi dell'art. 81 c.p., art. 227 c.p.m.p., comma 1, e art. 47 c.p.m.p., n. 2, di diffamazione aggravata e continuata in danno del superiore gerarchico, Di.Be.Ca., comandante della compagnia di (OMISSIS), ed in particolare di aver proferito nei suoi confronti, in plurime occasioni ed alla presenza di militari della tenenza, espressioni come "carogna, bastardo, pazzo, figlio di puttana" e di averlo apostrofato, nelle medesime situazioni di tempo e di luogo, col nomignolo di " A.L.", personaggio televisivo e giornalista presente nella trasmissione "striscia la notizia" con connotati goffi e ridicoli ed, al pari del diffamato, calvo. In (OMISSIS), nei mesi di (OMISSIS).
Il Tribunale, preso atto che la p.l. aveva chiesto di procedere penalmente, fondava la decisione di condanna sulle concordi testimonianze di militari che avevano direttamente percepito le espressioni ingiuriose, sulla valutazione offensiva delle stesse e sulla consapevolezza, ritenuta indubbia, da parte dell'imputato del loro contenuto diffamatorio.
2. Avverso la sentenza di condanna proponeva appello l'imputato deducendo che l'assimilazione della figura del comandante a quella del giornalista A.L., detto ...., non poteva avere carattere diffamatorio dappoichè l'operatore televisivo detto rappresentava una figura positiva, come tale percepita dal pubblico per l'opera di denuncia svolta e chiedendo l'assoluzione quanto meno ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2.
La Corte militare di appello, con sentenza pronunciata il 18 ottobre 2016, assolveva l'imputato con la formula "perchè il fatto non costituisce reato". Opinava il giudice di secondo grado che i fatti di causa non potevano essere posti in discussione dappoichè ampiamente provati con la puntuale escussione testimoniale assicurata nel giudizio di prime cure, ma che, cionondimeno, pur non potendosi negare la natura offensiva delle espressioni registrate, non risultava provato nel contempo che, nella specie, l'imputato le avesse proferite con dolo, con la volontà di insultare. A tali conclusioni la corte territoriale di secondo grado perveniva, in primo luogo, escludendo oggettivamente che il richiamo di somiglianza ad un giornalista impegnato in battaglie civili potesse considerarsi di per sè offensivo, eppoi ritenendo "...non sufficientemente dimostrato il fatto che l'imputato abbia agito rappresentandosi pienamente la portata e la idoneità lesive delle espressioni dallo stesso utilizzate, riguardo alla immagine ed alla reputazione che gli altri militari del reparto avevano del capitano Di.Be...."; conclusione questa che, ad avviso del giudice di secondo grado, sarebbe confermata dalle circostanze che non è emersa una specifica collocazione spazio-temporale in cui la condotta è stata tenuta, a parte un solo episodio, che, inoltre, non ha l'imputato giammai tentato di persuadere i suoi interlocutori circa le qualità negative dell'offeso e che, infine, le condotte incriminate non hanno per nulla scalfito la stima e la considerazione di sottoposti nei confronti del capitano, comandate della Compagnia.
3. La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione dal Procuratore Generale Militare presso la Corte Militare di appello, il quale sviluppa un unico motivo di ricorso con il quale ne denuncia la illegittimità per violazione di legge e vizio della motivazione.
Deduce, in particolare, il procuratore ricorrente: che per la ricorrenza del reato contestato è richiesto dall'ordinamento il semplice dolo generico, nella specie da ritenersi concretizzato con certezza atteso il palese significato offensivo ed insultante delle espressioni utilizzate; che del tutto improprie dovevano considerarsi le considerazioni svolte dal giudice di appello circa l'assenza di finalità denigratorie dell'imputato ovvero sulla non diminuita considerazione verso l'offeso da parte di quanti, testimoni, avevano percepito il dire ingiurioso; che, immotivatamente, avevano i giudici territoriali pretermesso, ai fini di una compiuta valutazione dei fatti di causa, l'accertato e non contestato malanimo dell'imputato verso il suo superiore, parte offesa.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato.
1. Giova premettere che sui fatti di causa non vi è contestazione di sorta, giacchè ampiamente provato che in più occasioni l'imputato, in pessimi rapporti personali con il suo superiore, lo abbia ripetutamente insultato alla presenza di militari assegnati alla tenenza sottoposta al suo comando; certezza probatoria si registra altresì sulle espressioni offensive, precisamente quelle riportate nel capo di imputazione.
2. Rimane controversa, viceversa, la ricorrenza nella specie del reato contestato, quello di cui all'art. 227 c.p.m.p., comma 1, che punisce, come è noto, "il militare che...comunicando con più persone, offende la reputazione di altro militare...", giacchè, fermi e certi i fatti di causa, dubita il giudice di secondo grado della sussistenza nella specie dell'elemento psicologico del reato, del dolo richiesto cioè dalla norma incriminatrice, e questo per le ragioni appena innanzi sintetizzate.
3. Ciò posto, osserva preliminarmente la corte che la fattispecie contestata ripropone nell'ambito miliare la medesima fattispecie tipizzata all'art. 594 c.p., là dove viene comminata la sanzione penale per "chiunque...comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione".
Ebbene, la lezione interpretativa della corte in ordine alla fattispecie generale appena richiamata è nel senso che, in tema di diffamazione, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, e che comunque implica l'uso consapevole, da parte dell'agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere (così Sez. 5, Sentenza n.8419 del 16/10/2013, Rv. 258943, conf. N. 7597 del 1999, Rv. 213631).
Analogamente la medesima corte ha avuto modo di ulteriormente chiarire che, per i delitti contro l'onore, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non è richiesto l'"animus iniurandi vel diffamandi", (Sez. 5, Sentenza n. 4364 del 12/12/2012, Rv. 254390).
4. Su tali premesse non può ragionevolmente dubitarsi circa la fondatezza delle doglianze affidate dal P.M. alla sua impugnazione. Le volgari ed offensive espressioni usate dall'imputato a causa del comprovato suo malanimo verso il superiore gerarchico, non potevano infatti consentire dubbio alcuno, attesa la loro consustanziale volgarità offensiva, sulla loro idoneità lesiva, come singolarmente quanto apoditticamente sostenuto dal giudice territoriale a sostegno della conclusione circa la incerta ricorrenza, nella specie, di una consapevole volontà di offendere. Nè di alcun rilievo possono essere considerate le considerazioni, pure svolte dal giudice a quo, circa l'incertezza dei luoghi e dei tempi in cui l'imputato le pronunciò, ovvero circa l'assenza di condotte volte a convincere gli astanti delle qualità negative dell'offeso, ovvero ancora, sulla immutata stima e considerazione degli astanti medesimi, verso il loro capitano di Compagnia, nonostante gli insulti dell'imputato.
5. Appare pertanto di tutta evidenza che la motivazione impugnata ha violato la norma incriminatrice là dove ha ignorato il concorde insegnamento di legittimità circa la natura del dolo richiesto dalla fattispecie tipizzata dalla norma incriminatrice, là dove non ha considerato implicitamente concretizzatosi il reato de quo in costanza delle espressioni di cui alla imputazione. Non solo: per le ragioni dette fondata è altresì la censura del procuratore ricorrente in ordine al carattere apparente della motivazione sviluppata dalla corte di secondo grado per sostenere la mancanza di prova e comunque la sua incertezza circa la rappresentazione della offensività delle parole pronunciate e circa la consapevolezza della loro idoneità lesiva in capo all'imputato.
La sentenza in scrutinio va, in conclusione, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte militare di appello affinchè provveda, con nuovo giudizio, alla riconsiderazione della fattispecie dedotta alla luce delle ragioni di diritto innanzi indicate ed alla relativa, motivata applicazione.
PQM
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte Militare d'Appello.
Così deciso in Roma, il 3 maggio 2017.
Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2017
24-06-2017 23:52
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