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Sentenza

Appuntato dell'Arma dei Carabinieri condannato con la perdita del grado per rimo...
Appuntato dell'Arma dei Carabinieri condannato con la perdita del grado per rimozione: non era rientrato al Reparto al termine di un periodo di riposo medico restando assente per oltre 15 giorni; comportamento per il quale era già stato condannato penalmente dal Tribunale militare per diserzione militare aggravata.
Cons. Stato Sez. IV, Sent., (ud. 27/10/2015) 26-11-2015, n. 5367
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4589 del 2015, proposto da:

F.P.D., rappresentato e difeso dagli avv. Manuela Veronelli, Michele De Luca, con domicilio eletto presso Manuela Veronelli in Roma, piazzale Clodio, 8;

contro

Ministero della Difesa, Ministero della Difesa Direzione Generale per il Personale Militare, Arma dei Carabinieri istituita presso Reparto Servizio Magistratura, Comando Legione Carabinieri Lazio, Comando Legione Carabinieri Campania, Ministero della Difesa Stato Maggiore dell'Esercito, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12; Stato Maggiore dell'Esercito;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I BIS n. 12487/2014, resa tra le parti, concernente perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa e di Ministero della Difesa Direzione Generale per il Personale Militare e di Arma dei Carabinieri istituita presso Reparto Servizio Magistratura e di Comando Legione Carabinieri Lazio e di Comando Legione Carabinieri Campania e di Ministero della Difesa Stato Maggiore dell'Esercito;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 ottobre 2015 il Cons. Francesco Mele e uditi per le parti gli avvocati Annalisa Di Giovanni (su delega di De Luca) e l'avvocato dello Stato Colelli;
Svolgimento del processo

Con sentenza n. 12487/14 del 10-12-2014 il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I Bis, rigettava il ricorso proposto dal signor F.P.D. avverso la Determinazione del Ministero della Difesa - Direzione generale per il personale militare del 21 gennaio 2013, con il quale era stata irrogata la sanzione disciplinare della "perdita del grado per motivi disciplinari".

La predetta sentenza esponeva in fatto quanto segue.

"L'Appuntato dell'Arma dei Carabinieri ricorrente impugna il Provv. del 21 gennaio 2013 con cui gli era stata irrogata la sanzione disciplinare di stato della perdita del grado per rimozione all'esito di procedimento disciplinare per non essere rientrato al Reparto al termine di un periodo di riposo medico (7-1-2010) restando assente fino al 28-1-2010; comportamento per il quale era già stato condannato penalmente dal Tribunale militare per diserzione militare aggravata.

Si è costituita in giudizio l'Amministrazione intimata chiedendo il rigetto del gravame. Con ordinanza n. 5461/2013 sono stati disposti incombenti istruttori, eseguiti in data 21-6-2013 con il deposito di documentato rapporto difensivo. Con motivi aggiunti il ricorrente impugna la relazione difensiva dell'Amministrazione e gli atti del procedimento da questa depositati. con memoria in vista della Camera di Consiglio il ricorrente ha svolto articolate controdeduzioni alle argomentazioni contenute nel rapporto difensivo depositato dall'Amministrazione, insistendo in particolare sul difetto di motivazione. con ordinanza n. 2879 del 16-7-2013 l'istanza cautelare è stata respinta. Con memoria conclusionale il ricorrente ha ulteriormente illustrato le proprie deduzioni...".

Avverso la citata sentenza del Tribunale Amministrativo il signor D. ha proposto appello dinanzi a questo Consiglio di Stato, chiedendone l'annullamento e/o la riforma ed, in via istruttoria, l'espletamento di CTU per accertare lo stato psico-fisico del ricorrente al momento della condotta sanzionata.

Ha dedotto, in particolare, sei articolati motivi di gravame, di seguito illustrati, con i quali ha denunziato l'erroneità della sentenza di prime cure ed ha, inoltre riproposto i motivi articolati in primo grado con l'atto di motivi aggiunti.

Si è costituita in giudizio l'Amministrazione intimata, rilevando l'infondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.

La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione all'udienza del 27-10-2015.
Motivi della decisione

Con il primo motivo parte appellante censura la sentenza di prime cure in relazione alla interpretazione data alla previsione dell'articolo 1389, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n. 66 del 2010.

Rileva in proposito che la disposizione normativa debba essere interpretata nel senso che "ogni qual volta il Ministro ritenga (conformandosi al giudizio in danno dell'interessato della Commissione di disciplina) di infliggere la sanzione della perdita del grado debba ordinare, per una sola volta, la convocazione di una diversa commissione di disciplina.

Deduce, infatti, che il potere attribuito al Ministro non comporta alcun rovesciamento di quanto deciso dalla Commissione, dovendosi esso solo limitare a convocare altra commissione di disciplina a garanzia dell'interessato prima di adottare un provvedimento sanzionatorio - quale è la perdita del grado - molto grave nell'ambito dell'Arma dei Carabinieri.

La censura non è meritevole di favorevole considerazione per le ragioni che di seguito si espongono.

L'articolo 1389 citato dispone che "Il Ministro della Difesa: a) può discostarsi, per ragioni umanitarie, dal giudizio della commissione di disciplina a favore del militare; b) se ritiene, per gravi ragioni di opportunità, che deve essere inflitta la sanzione della perdita del grado per rimozione ovvero la cessazione dalla ferma o dalla rafferma, ordina, per una sola volta, la convocazione di una diversa commissione di disciplina, ai sensi dell'art. 1387; in tale caso il procedimento disciplinare deve concludersi nel termine perentorio di 60 giorni".

La piana lettura della disposizione evidenzia che essa disciplina le ipotesi in cui il Ministro della difesa, nell'infliggere la sanzione disciplinare, intenda discostarsi dalle conclusioni raggiunte dalla Commissione di disciplina.

La lettera a) si riferisce al caso in cui la determinazione ministeriale risulti, rispetto alla valutazione della commissione, più favorevole al militare, con la conseguenza che in tal caso il Ministro può direttamente infliggere una sanzione più lieve rispetto a quella indicata dall'organo collegiale.

La lettera b), invece, contempla il caso in cui il Ministro ritenga, per l'esistenza di gravi ragioni di opportunità, di discostarsi da quanto stabilito dalla commissione e che debba essere inflitta la più grave sanzione della perdita del grado per rimozione.

In tal caso, data la natura grave, sostanzialmente espulsiva, della sanzione, esigenze di tutela e di difesa del militare impongono che la stessa non possa essere direttamente disposta dal Ministro, ma che sia necessaria la previa convocazione, per le relative valutazioni, di una diversa commissione di disciplina.

Di conseguenza, la disposizione trova applicazione solo nell'ipotesi in cui vi sia una divergente valutazione tra valutazione della commissione e valutazione del Ministro e non anche quando le due valutazioni convergano in relazione alla scelta della sanzione della perdita del grado.

La determinazione reiettiva del Tribunale è, dunque, sul punto da confermare.

Con il secondo motivo l'appellante deduce error in procedendo e in iudicando, rilevando l'errata, illegittima ed irragionevole valutazione in merito alla censurata violazione dell'articolo 1392, commi 1 e 3 del D.Lgs. n. 66 del 2010, per violazione del principio di certezza del diritto e di pariteticità nei rapporti con la p.a., nonché travisamento di fatto e di diritto.

Lamenta in primo luogo che il Tribunale non avrebbe considerato che l'articolo 1392 del D.Lgs. n. 66 del 2010 citato prevede che l'amministrazione debba iniziare e concludere il procedimento disciplinare nei termini perentori, rispettivamente, di 90 e 270 giorni dalla "conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale di condanna divenuti irrevocabili".

Di conseguenza, la norma avrebbe inteso individuare il dies a quo per l'eventuale esercizio dei poteri disciplinari nel settore militare "dal momento in cui la sentenza entra nella sua sfera di conoscenza, da intendersi come conoscenza erga omnes dell'atto divenuto irrevocabile".

In considerazione del necessario mutato contesto storico e sociale, sarebbe stato necessario considerare come l'applicazione delle nuove tecnologie telematiche anche alla p.a. renda possibile per quest'ultima, con la necessaria diligenza, di venire a conoscenza degli atti attraverso la pubblicazione dei medesimi sui siti internet dei diversi Tribunali.

Parimenti non sarebbe costituzionalmente orientata l'ulteriore interpretazione offerta dal giudice di primo grado a proposito della possibilità per l'interessato di ovviare ad eventuali lungaggini burocratiche, omissioni o inerzie delle cancellerie dei tribunali, che hanno l'obbligo di comunicare tempestivamente alle amministrazioni, di notificare egli stesso la sentenza comprensiva di motivazione entrata in suo possesso in modo da metterla in mora e far decorrere il termine più breve.

Tanto perché, in primo luogo, l'articolo 1392 non prevede tale eventualità; in secondo luogo, perché in tal modo la notifica, da parte del cittadino, si porrebbe come uno strumento alternativo e facoltativo per lo stesso, rispetto ad un dies a quo certo e ricondotto dalla norma al deposito della sentenza.

Anche tale censura non è meritevole di favorevole considerazione.

E' opportuno sul punto richiamare quanto statuito dal Tribunale.

"Con il secondo motivo l'interessato lamenta la violazione dell'art. 1392, co. 1 e 3 del D.Lgs. n. 66 del 2010..., perché sono stati superati i termini perentori entro i quali avviare e concludere il procedimento disciplinare. Secondo il ricorrente, dovrebbero computarsi a decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza (14-2-2012), sicché l'inchiesta formale, con la contestazione degli addebiti al ricorrente, essendo stata avviata il 17-7-2012, a distanza di 108 giorni dalla pubblicazione della sentenza, risulterebbe intempestiva rispetto al termine di 90 giorni prescritto dal comma 1 della richiamata disposizione. Ugualmente il provvedimento sanzionatorio, emanato il 21-1-2013 e notificato il 16-2-2013, 291 giorni dopo la sentenza irrevocabile, dovrebbe ritenersi tardivo rispetto al termine di 270 giorni previsto dal co. 2 dell'art. 1392. La ricostruzione del ricorrente non può essere condivisa. Come già chiarito dalla Sezione, il termine in questione deve farsi decorrere non dal momento della pubblicazione della sentenza (in cui diventa ipso facto integralmente conoscibile erga omnes), bensì dalla data del rilascio della copia integrale all'Amministrazione. La Sezione ha rilevato, al riguardo, che l'art. 70 del D.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 dispone che "la cancelleria del giudice che ha pronunciato sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di un'amministrazione pubblica ne comunica il dispositivo all'amministrazione di appartenenza e, su richiesta di questa, trasmette copia integrale del provvedimento..." ed ha ritenuto che non rileva il ritardo con il quale l'Amministrazione si sia procurata copia della pronuncia. A tali conclusioni la Sezione è arrivata valorizzando il combinato disposto degli artt. 70 D.Lgs. n. 150 del 2009 e 1392 c.o.m. che comporta che la cancelleria del giudice abbia l'obbligo di comunicare il dispositivo di sentenza all'amministrazione mentre su costei gravi l'onere di attivarsi sollecitamente per richiederne copia integrale, decorrendo soltanto dal ricevimento della piena conoscenza integrale delle motivazioni il termine di avvio per l'esercizio dell'azione. In quella sede è stato altresì evidenziato che "una interpretazione in chiave strettamente testuale delle norme in commento possa finire anche per ledere il principio di certezza del diritto, ove rimessa all'Amministrazione una facoltà temporale illimitata di attivarsi per richiedere copia integrale della sentenza" preoccupazioni che sono state superate nel caso di specie (TAR Lazio, Sez. I bis, 30-1-2013, n. 1071). Il collegio condivide il precedente, anche sotto quest'ultimo profilo, ritenendo che le preoccupazioni sopra prospettate, derivanti dall'interpretazione letterale della norma in parola, possano essere superate, grazie all'interpretazione logico-sistematica. siccome il termine decadenziale risponde all'interesse dell'incolpato, al fine di evitare che questi sia sottoposto sine die al possibile avvio dell'azione disciplinare - è che tale sia la ratio della norma in parola è ribadito da numerose pronunce (vedi da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 15-12-2010, n. 8918) - la situazione paventata è scongiurabile dallo stesso interessato provvedendo a notificare all'amministrazione la sentenza completa di motivazione non appena entrata in suo possesso. In tale direzione impone inoltre l'esigenza di una interpretazione costituzionalmente orientata. La sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 24-6-2004 ha infatti stigmatizzato l'irragionevolezza e la contrarietà al principio del buon andamento di una disposizione contenuta nella L. n. 97 del 2001, la quale faceva decorrere il termine per l'instaurazione del procedimento disciplinare dalla conclusione del giudizio penale con sentenza irrevocabile, anziché dalla comunicazione della sentenza all'amministrazionje. In tal modo, non prevedendo che l'amministrazione sia posta a conoscenza del termine iniziale (sentenza penale irrevocabile di condanna) per l'instaurazione del procedimento disciplinare, ed imponendo altresì lo svolgimento di un'attività per la conoscenza di questo dato, espone l'Amministrazione stessa al rischio dell'infruttuoso decorso del termine decadenziale, rendendo così più difficoltosa ed incerta la stessa applicazione delle sanzioni disciplinari. Alla luce di tali criteri orientativi il giudice di appello ha ritenuto che la disposizione che fissa il termine a quo del procedimento disciplinare "va dunque interpretata ponderando l'interesse del dipendente pubblico ad ottenere una sollecita definizione della propria posizione disciplinare e l'esigenza dell'amministrazione di fruire di un idoneo spatium deliberandi per instaurare tale procedimento, senza addossare a carico di quest'ultima lo scorrere del tempo necessario per venire in possesso di una notizia che invece dovrebbe essere comunicata tempestivamente" ed ha altresì precisato che "questa interpretazione non lede peraltro in modo sproporzionato la posizione del dipendente, esponendolo sine die alla possibilità di promozione nei suoi confronti di un procedimento disciplinare: il dipendente infatti può ovviare alle omissioni o inerzie della cancelleria notificando egli stesso la sentenza all'Amministrazione, in modo da metterla in mora e far decorrere il termine breve" ( Cons. Stato, IV, 31-3-2009, n. 1903). Come si evince dalla documentazione in atti in data 14-2-2012 è stato pubblicato solo il dispositivo, mentre la sentenza in forma completa di motivazione è depositata in cancelleria solo il 28-2-2012; la sentenza, divenuta irrevocabile in data 1-3-2012, è stata acquisita dall'Amministrazione in data 26-5-2012 (all. 5), circostanza che è rimasta incontestata e che non risulta smentita da alcuna documentazione di senso contrario in atti. Ne consegue che il termine di 90 giorni veniva a scadere il 24-8-2012 e pertanto il procedimento disciplinare risulta essere stato avviato nel termine prescritto (la contestazione degli addebiti è stata formalizzata in data 1-8-2012 come attestato in all. 2). Dalla sopra richiamata diversa individuazione del dies a quo per il computo dei termini prescritti dall'art. 1392 ne consegue che anche il termine di 270 giorni per la conclusione del procedimento, che veniva a cadere il 20-2-2013, risulta essere stato rispettato in quanto il provvedimento è stato adottato il 21-1-2013 (oltre che notificato il 16-2-2013)".

La Sezione condivide la determinazione reiettiva assunta dal Tribunale e ritiene infondate le censure mosse dall'appellante.

Il comma 1 dell'articolo 1392 del D.Lgs. n. 66 del 2010 dispone che il procedimento disciplinare di stato a seguito di giudizio penale debba essere instaurato entro 90 giorni "dalla data in cui l'amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza" e che lo stesso debba concludersi entro 270 giorni "dalla data in cui l'amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza".

La norma, dunque, individua il suddetto dies a quo nella "conoscenza integrale della sentenza", concetto che esplicita una situazione di conoscenza effettiva del testo integrale della pronuncia del giudice penale.

Di conseguenza, non può ritenersi - come affermato dall'appellante - che tale momento coincida con la pubblicazione della stessa, comportando detto adempimento non la conoscenza effettiva, ma la mera conoscibilità.

D'altra parte, se il legislatore avesse voluto riferire tale dies a quo al momento della pubblicazione della decisione, lo avrebbe espressamente detto e non avrebbe utilizzato il diverso termine della "conoscenza integrale" del provvedimento giurisdizionale.

La considerazione di cui sopra priva di pregio anche l'ulteriore argomentazione svolta con la censura in esame, secondo cui, nell'attuale contesto storico e sociale, l'esistenza di avanzate tecnologie telematiche rende possibile all'amministrazione, utilizzando l'ordinaria diligenza, di venire a conoscenza dei provvedimenti giurisdizionali attraverso la consultazione dei siti internet dei diversi Tribunali.

Va, invero, considerato che anche la diffusione sul sito internet della pubblicazione della sentenza e, dunque, la eventuale diffusione in esso del testo integrale della decisione determinano una situazione di conoscibilità, ma non anche di conoscenza effettiva, del testo della pronuncia giurisdizionale.

Deve d'altra parte, essere evidenziato che non sussistono ragioni per ritenere non applicabile alla vicenda in esame la regola contenuta nell'articolo 70 del D.Lgs. n. 150 del 2009 (comunicazione della sentenza), a mente del quale "La cancelleria del giudice che ha pronunciato sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di un'amministrazione pubblica ne comunica il dispositivo all'amministrazione di appartenenza e, su richiesta di questa, trasmette copia integrale del provvedimento...".

Orbene, poiché la ratio della fissazione del termine decadenziale è chiaramente costituita dall'interesse dell'incolpato ad evitare che questi sia sottoposto sine die al possibile avvio di un procedimento disciplinare, essa è agevolmente realizzabile, nel caso in cui l'Amministrazione ritardi nell'acquisizione della sentenza in forma integrale, attraverso la notifica della stessa da parte dell'incolpato, di modo che comunque il termine decadenziale possa cominciare a decorrere.

Tale soluzione appare al Collegio logica e ragionevole e conforme ai principi costituzionali, giacché realizza un equo contemperamento tra l'interesse dell'amministrazione ad avere piena ed effettiva conoscenza della sentenza penale prima dell'avvio del procedimento disciplinare e quello del dipendente a non essere, in relazione alla instaurazione dello stesso, sottoposto a colpevoli ritardi o inadempienze dell'amministrazione da cui egli dipende.

Né può ritenersi, a sostegno di una conclusione diversa, che l'articolo 1392, in quanto norma speciale, non prevede tale adempimento a carico del cittadino.

Va in proposito rilevato che tale notifica, al di là di una previsione di legge, costituisce possibilità consentita al dipendente dal sistema, al fine di ottenere comunque una sollecita instaurazione e definizione della vicenda disciplinare, pur in presenza di una norma che si limita a disporre la decorrenza del procedimento dalla "conoscenza integrale" della sentenza, situazione, questa, che potrebbe essere postergata, per inerzia ovvero per volontà dell'amministrazione, senza che in tale ipotesi sia prevista la decorrenza dei termini decadenziali.

La notifica, infatti, determina la fattispecie della "conoscenza integrale" e, dunque, la decorrenza dei predetti termini decadenziali.

Da ultimo, osserva la Sezione, con ciò confutandosi l'ultimo profilo della censura in esame, che non è condivisibile l'ulteriore argomentazione fondata sulla circostanza che, pur ove fosse possibile notificare la sentenza per attivare il termine di decadenza, "essa si porrebbe come strumento alternativo, oltre che facoltativo per il cittadino, rispetto a un dies a quo certo, ricondotto al deposito della sentenza".

Il rilievo non è fondato, considerandosi - come più sopra già esplicitato - che il dies a quo di decorrenza del termine di decadenza non va individuato (come sostenuto dall'appellante) nel deposito della sentenza ovvero nella sua pubblicazione, considerandosi che la norma si riferisce alla "conoscenza integrale", condizione postulante la conoscenza effettiva del provvedimento giurisdizionale.

Può a questo punto passarsi all'esame del terzo motivo di appello, con il quale viene dedotto: error in procedendo e in iudicando; errata, illegittima ed irragionevole interpretazione da parte del giudice di primo grado in ordine alla carenza di istruttoria; in particolare rispetto alla omessa valutazione della sospensione condizionale della pena concessa al D. in sede penale ed errata applicazione dell'art. 866 c.o.m.

L'interessato deduce in primo luogo che il giudice di prime cure erroneamente avrebbe ritenuto l'irrilevanza del beneficio della sospensione condizionale della pena concesso all'appellante in sede penale, mentre la sua doverosa considerazione avrebbe evidenziato l'esistenza di un fatto rilevante ai fini dell'annullamento della sanzione inflitta, per violazione del principio dell'autonomo accertamento in sede disciplinare.

Evidenzia ancora che il Tar avrebbe errato nel ricondurre la controversia in questione alla diversa fattispecie prevista dall'articolo 866 c.o.m., non configurabile nel caso di specie, atteso che il procedimento disciplinare avviato nei confronti del D. derivava dalla commissione di reati diversi rispetto a quelli previsti dall'art.866, con la conseguenza che la concessione del beneficio era elemento da tenere comunque in considerazione.

Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto: "La doglianza non può essere condivisa in quanto la sospensione condizionale della pena costituisce un elemento che deve essere tenuto in considerazione nella diversa ipotesi, che qui invece non ricorre, della perdita del grado, senza giudizio disciplinare, conseguente a condanna definitiva, per reato militare o delitto non colposo di cui all'art. 866 del c.o.m. Nel caso in esame, invece, la perdita del grado è stata disposta a seguito di procedimento, nel quale, come chiarito da consolidata giurisprudenza, sono irrilevanti le prognosi formulate dal giudice penale per la concessioni di particolari benefici, quali la sospensione condizionale della pena (vedi, tra tante, Cons. Stato, IV, 9-10-2010, n. 7383)".

La determinazione reiettiva del giudice di primo grado è condivisa dal Collegio.

La Sezione concorda, infatti, con l'orientamento giurisprudenziale in base al quale la potestà disciplinare opera in una sfera diversa da quella inerente al magistero penale.

Conseguenza di tanto è:

che uno stesso comportamento mentre, in sede penale, può essere valutato in maniera tale da giustificare una sentenza di proscioglimento, in sede disciplinare, può essere, viceversa, qualificato dall'Amministrazione competente come illecito disciplinare;

che risultano parimenti irrilevanti, nell'ambito del procedimento disciplinare, le prognosi del giudice penale ai fini della concessione di particolari benefici, quali la non menzione della condanna, la sospensione condizionale della pena, le circostanze attenuanti ed altro (cfr. Cons. Stato, IV, 9-10-2010, n. 7383).

E' stato in proposito affermato (cfr. Cass. civ. sez. un., 24-11-2010, n. 23778) che il giudicato penale non preclude in sede disciplinare una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, essendo diversi i presupposti delle rispettive responsabilità, fermo restando il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità, operato da quest'ultimo, cosicché, se è inibito al giudice disciplinare di ricostruire l'episodio posto a fondamento dell'incolpazione in modo diverso da quello risultante dalla sentenza penale dibattimentale passata in giudicato, sussiste tuttavia piena libertà di valutare i medesimi accadimenti nell'ottica dell'illecito disciplinare. Ne consegue che il giudice disciplinare non è vincolato dalle valutazioni contenute nella sentenza penale relative alla commisurazione della pena, alla concessione delle attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale, trattandosi di determinazioni riconducibili a finalità del tutto distinte rispetto a quelle del giudizio disciplinare.

Da quanto sopra emerge, dunque, la correttezza della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto non rilevante, ai fini dell'accoglimento del ricorso, l'omessa considerazione, da parte dell'organo disciplinare, della avvenuta concessione, in sede penale, del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Né può affermarsi che il Tribunale abbia operato confusione tra la vicenda oggetto di giudizio e la fattispecie prevista dall'articolo 866 del Codice.

Tale norma è stata, infatti, richiamata dal Tribunale unicamente per specificare un'ipotesi (non ricorrente nella fattispecie in esame) nella quale la normativa di settore attribuisce espressamente rilevanza al beneficio della sospensione condizionale della pena, specificando la stessa che è prevista la perdita del grado senza giudizio disciplinare quando la condanna, inflitta per particolari reati, non sia stata accompagnata dalla concessione della sospensione condizionale della pena.

Con il quarto motivo l'appellante censura la sentenza del Tribunale per: errata, illegittima ed irragionevole interpretazione da parte del giudice di primo grado in ordine alla carenza di istruttoria; in particolare rispetto allo stato grave di salute dell'appuntato al momento della diserzione; omessa richiesta di apposita CTU; eccesso di sindacato nel merito e nelle valutazioni medico-legali da parte del giudice amministrativo; illegittima ed errata interpretazione dell'art. 1355 del D.Lgs. n. 66 del 2010.

Deduce in primo luogo che il Tar, pur avendo preso atto del grave stato di prostrazione psicologica dell'appellante ha, poi, statuito, contraddicendosi, nel senso della intenzionalità della condotta di diserzione da parte del medesimo. Senza possedere alcuna competenza in materia e senza l'ausilio di una CTU, il primo giudice avrebbe operato una distinzione tra "stato ansioso reattivo" e "stato di confusione mentale", riconducendo la situazione del militare alla prima condizione, la quale non escluderebbe l'intenzionalità della diserzione.

In realtà anche uno stato ansioso reattivo può incidere sulle facoltà intellettive e, dunque, sulla intenzionalità di tenere una determinata condotta.

La circostanza che il militare non avesse inteso disertare sarebbe comprovata dalla circostanza che egli aveva chiesto aiuto e sostegno telefonicamente al Comandante S. e che tanto dimostrerebbe l'intenzione di non voler disertare, ma solo che il militare stesso non era stato in grado di rientrare in caserma a causa del suo fortissimo stress psicologico.

Aggiunge che la circostanza dell'assenza di certificazioni mediche relative al suo stato psicologico al momento della diserzione non suffragherebbe la intenzionalità della stessa, evidenziando, al contrario, lo stato di grave angoscia nel quale il militare versava; infatti, nulla gli avrebbe impedito, come aveva fatto per il passato, di presentare ulteriore documentazione medica; se non lo aveva fatto, l'unica spiegazione era che il suo grave stato di salute non lo aveva consentito.

Lamenta ancora l'erroneità della sentenza, nella parte in cui ha ritenuto sufficiente che la capacità di intendere e di volere fosse già stata affermata in sede penale. La Commissione di disciplina, infatti, avrebbe dovuto valutare autonomamente la sua condotta da un punto di vista psicologico, anche considerato: che il giudicato penale si era formato nella contumacia dell'imputato; che il D. non era stato mai interrogato dal magistrato inquirente; che egli non aveva mai affermato, in sede processuale, la sua consapevolezza e l'intenzionalità di agire in modo arbitrario.

La sentenza del Tribunale Amministrativo così motiva sul punto.

"Il comportamento censurato consiste nella mancata riassunzione al Reparto del ricorrente in data 7-1-2010 - al termine di un periodo di congedo di salute per bronchite e influenza dal 1-12-2009 (dopo aver fruito di un periodo di riposo di 40 gg. per una broncopolmonite iniziata il 28-8-2009 e riattivata il 7-10-2009) - e nel protrarsi dell'assenza fino al 28-1-2010. il ricorrente rappresenta che, già prima di tale episodio, era incorso in uno stato di grave depressione per essere stato indagato penalmente per il reato di usura e che tale stato di afflizione non era mutato neppure a seguito dell'intervenuta archiviazione; stato che si era aggravato, proprio il giorno in cui avrebbe dovuto rientrare in servizio, a causa dell'ulteriore iscrizione nel registro degli indagati per il reato di corruzione, tanto da indurlo ad abbandonare la famiglia e rendersi irreperibile anche ai superiori. Il ricorrente pertanto invoca a giustificazione della protratta assenza il particolare stato di prostrazione psicologica (con ansia e confusione mentale) che, se fosse stato adeguatamente accertato dall'Amministrazione, disponendo un supplemento di istruttoria per accertare le sue effettive condizioni, avrebbe messo adeguatamente in luce la non intenzionalità dell'assenza con conseguente irrogazione di una punizione più lieve, dato che l'art. 1355 impone di tener conto dell'intenzionalità dell'infrazione, ed avrebbe evitato il perpetrarsi di una ingiustizia manifesta. Il complesso quadro delle vicende, anche umane, che hanno caratterizzato l'episodio di irreperibilità merita attenta considerazione. Il fatto stesso che il ricorrente sia stato condannato in contumacia depone nel senso di uno stato di particolare afflizione che ha indotto l'interessato a rinunciare a difendersi da un'ulteriore accusa. Tuttavia dalla documentazione medica allegata alla visita del 28-1-2010 il ricorrente risulta affetto solo da problemi del tono dell'umore ("stato ansioso"), ma non da disturbi mentali ( si dà atto che il giudizio è integro, che è lucido ed orientato, che non ci sono alterazioni logico formali del pensiero, etc.). La giustificazione dell'episodio di diserzione (stato di confusione mentale) su cui il ricorrente insiste non trova pertanto riscontro documentale nella documentazione prodotta, peraltro relativa ad un periodo successivo al rientro in reparto. Per quanto riguarda il periodo della diserzione commessa dal 7 al 28.1.2010 non vi è alcun tipo di prova dell'alterato stato mentale, non avendo il ricorrente addotto alcun elemento neppure indiziario che le sue condizioni dell'epoca fossero quelle labilmente invocate a sua discolpa ( ed a seguito della contestazione degli addebiti l'onere di provare che la diserzione non fosse intenzionale bensì determinata da uno stato di inconsapevolezza ricade sull'interessato). Come è noto "lo stato di confusione mentale" non può essere considerato equivalente allo "stato ansioso reattivo", trattandosi di patologie diverse, concernenti il primo la capacità di pensare e quindi di assumere scelte nella consapevole lucidità delle conseguenze che ne derivano (quindi di agire con intenzionalità) e la seconda un mero "disturbo dell'umore" (che quindi non incide sull'intenzione, ma solo sullo stato d'animo provato, di inquietudine, disagio o paura, che può determinare pulsioni anche molto forti, che però la persona può sempre controllare grazie alla forza della ragione e dei principi morali). In ogni caso, va considerato che la capacità di intendere e di volere, che è presupposto per la responsabilità penale, del ricorrente era già stata valutata nella appropriata sede penale (pag. 5 della sentenza depositata dalla resistente) e ritenuta sussistente, tanto da portare alla condanna dell'interessato. In conclusione non si può considerare illegittimo l'operato della Commissione di disciplina di non disporre un supplemento di istruttoria per verificare "ora per allora" quali fossero le effettive capacità di intendere e di volere del ricorrente al momento della diserzione, in contrasto con l'avvenuto accertamento penale sul punto; peraltro, in assenza di produzione di mezzi di prova (valutazioni di natura medica, testimonianze , etc.) tali da confutare il predetto giudizio. Ne consegue che il motivo di ricorso in questione risulta infondato".

La Sezione condivide la determinazione reiettiva del giudice di prime cure e reputa infondate le censure in proposito mosse da parte appellante.

Ciò per le ragioni che di seguito si espongono.

La corretta lettura della sentenza impugnata, in ordine alla legittimità dell'operato della Commissione di disciplina nel valutare l'intenzionalità della condotta di diserzione del D., evidenzia come il nucleo fondante della reiezione del motivo di ricorso risieda nella assenza di prova in ordine all'invocato stato di "confusione mentale" del militare per il periodo della avvenuta diserzione, stato che, a suo dire, comproverebbe la non intenzionalità del comportamento, escludendone una volontà consapevole.

Il giudice di prime cure rileva, infatti, l'esistenza di documentazione medica allegata alla visita del 28-1-2010, successiva al rientro in Reparto, attestante unicamente la presenza di uno stato ansioso, ma non anche di disturbi mentali. Aggiunge, poi, che per lo specifico periodo della diserzione (dal 7 al 28 gennaio 2010) manca qualsiasi documentazione medica relativa alle condizioni di salute mentale del signor D., rilevando l'assenza di alcun tipo di prova dell'alterato stato mentale, "non avendo il ricorrente addotto alcun elemento neppure indiziario che le sue effettive condizioni dell'epoca fossero quelle labilmente invocate a sua discolpa".

Osserva, invero, la Sezione che nella memoria difensiva del 17-9-2012 il signor D. evidenzia: di non avere ottemperato all'obbligo di presentazione presso l'infermeria della Legione poiché, a seguito di dissapori ed incomprensioni col proprio nucleo familiare, era costretto ad allontanarsi dal domicilio coniugale trovando ospitalità presso conoscenti abitanti fuori della Regione Lazio; che il motivo che aveva determinato la frattura nei rapporti familiari era derivato da un procedimento penale instaurato a suo carico; che lo sviluppo di tali eventi provocava un naturale stato di prostrazione morale, successivamente sfociato in una precaria condizione di equilibrio psichico, documentata da certificazione sanitaria, evidentemente già esistente in tempo precedente alla emissione della diagnosi, dove viene riscontrata "reattività ansiosa pregressa"; che solo dal momento dell'archiviazione del procedimento era stato possibile riprendere padronanza delle proprie facoltà mentali e cognizione obiettiva dei doveri di marito, padre ed appartenente all'arma dei Carabinieri; ad ulteriore riprova della propria buona fede e della non intenzionalità della condotta, nella mattinata del 7-1-2010 aveva contattato telefonicamente il maresciallo S.E. al quale rappresentava il disagio mentale ed il nervosismo da cui era attanagliato, quindi la non opportunità di rientrare in servizio, nonché il fatto che per motivi familiari era stato costretto ad allontanarsi da Roma e che l'ispettore gli aveva consigliato di recarsi all'infermeria legionale o, in alternativa, far pervenire ulteriore referto sanitario, nessuna delle due ipotesi purtroppo realizzate non per mancanza di volontà ma per il persistente, se non aggravato, stato di salute mentale che ne minava la lucidità e l'intelletto.

Nella seduta della commissione di disciplina del 18-12-2012, il D., richiesto di specificare meglio i motivi per i quali non aveva prodotto documentazione sanitaria necessaria a giustificare la prolungata assenza dal servizio che aveva comportato la condanna penale, ha sostanzialmente ribadito le ragioni già espresse in sede di memoria difensiva, evidenziando di avere "involontariamente omesso di inviare ulteriore certificazione medica che avrebbe giustificato la sua assenza".

Da quanto sopra risulta, dunque, evidente che, a dimostrazione della non intenzionalità della diserzione (dunque, in ordine alla mancanza di coscienza e volontà della condotta contraria ai doveri derivanti dal proprio status), il signor D. non ha addotto, in sede di procedimento disciplinare, alcun elemento specifico di prova, intendendo per tale, in relazione alla natura della giustificazione addotta, certificazioni mediche comprovanti, in relazione al periodo in cui si è verificata (e si è protratta) la diserzione, l'esistenza di uno stato mentale e psichico tale da impedirgli di giustificare l'assenza e di comprendere il significato e le conseguenze della propria condotta.

Né può assumere rilevanza la circostanza che egli avesse contattato il maresciallo S., rappresentandogli la situazione.

Tanto in primo luogo giacché il contenuto della conversazione con il predetto è stato in parte smentito dal S., emergendo dalla relazione finale sull'inchiesta formale del 2-10-2012 che "questi ha precisato di essersi sentito male nella nottata e che avrebbe portato la certificazione medica, contrariamente a quanto asserito nelle memorie difensive nelle quali ha lamentato problemi familiari e psichici" e risultando, altresì, che "l'appuntato D. venne ulteriormente contattato nei giorni 8, 9 e 22 gennaio 2010, senza esito alcuno, protraendo l'assenza fino al 28 gennaio 2010 quando si presentò in servizio riferendo situazioni di difficoltà economica e familiare non meglio specificate e non già motivi di salute".

Di poi, perché l'eventuale comunicazione telefonica del proprio stato di disagio psichico (comportante la consapevolezza della necessità di giustificare la propria assenza) dimostra anche la capacità di intendere la necessità, dietro espresso invito dell'interlocutore, di procurarsi una documentazione medica attestante, nell'attualità, la impossibilità di rientrare in servizio per le ragioni rappresentate.

Tale ultima considerazione priva di pregio il rilievo secondo il quale sarebbe proprio l'assenza di documentazione medica (agevolmente procurabile) a dimostrare l'esistenza di un periodo "buio" e, dunque, di uno stato psicologico talmente grave da non consentirgli di effettuare la scelta più ragionevole e meno nociva per la sua carriera.

Orbene, risulta evidente al Collegio che in tale situazione di assenza di prova ed in presenza di un giudicato di condanna per il reato di diserzione, alcun obbligo di disporre un supplemento istruttorio, al fine di verificare "ora per allora" lo stato di salute mentale del militare, gravasse sulla Commissione di disciplina, la quale ha comunque richiesto all'incolpato di offrire una migliore e più convincente esplicitazione dei motivi per i quali non aveva prodotto documentazione sanitaria giustificativa.

Al limite, un tale obbligo avrebbe potuto configurarsi ove la perizia medica, depositata solo in giudizio, fosse stata prodotta in sede di procedimento disciplinare e la stessa avesse convinto l'organo disciplinare della necessità, pur in assenza di una documentazione medica redatta nell'attualità dei fatti, di verificare se lo stato ansioso reattivo, successivamente diagnosticato, avesse potuto configurarsi anche durante il periodo della diserzione e determinare la mancanza di consapevolezza della natura e delle conseguenze della condotta posta in essere.

Non può, dunque, imputarsi all'amministrazione di non avere effettuato l'invocato accertamento, né tampoco tale omissione può essere addebitata al giudice di primo grado, dovendo questi esaminare la legittimità dei provvedimenti amministrativi in relazione al loro momento genetico e, conseguentemente, con riferimento alla situazione fattuale, documentale e procedimentale esistente al momento della loro emanazione.

Orbene, tale situazione di carenza di prova in ordine all'asserito stato di confusione mentale e di incapacità (ripetesi, nucleo sottostante alla reiezione del motivo del ricorso in primo grado) costituisce legittima e sufficiente ragione giustificante la determinazione reiettiva del giudice di primo grado.

Non assumono, pertanto, rilevanza, ai fini della pretesa erroneità della sentenza sul punto, né le argomentazioni svolte in ordine alla differenza tra "stato ansioso reattivo" e "stato di confusione mentale", né la circostanza che non sia stata disposta CTU al fine di accertare "ora per allora" lo stato psicologico dell'incolpato.

Va, invero, evidenziato che l'accertamento peritale richiede comunque un principio di prova in ordine alle condizioni psichiche del D. durante il periodo di diserzione, ma, come si è sopra visto, in relazione allo stesso manca qualsiasi documentazione medica.

La richiesta di espletamento di CTU è, pertanto, da respingere anche nella presente sede di appello, considerandosi, altresì, che il giudice amministrativo è chiamato a verificare il vizio genetico della illegittimità del provvedimento amministrativo e che l'accertamento peritale è funzionale ad esso, ma non assume rilevanza nella presente sede di controllo di legittimità, anche perché, in sede di procedimento disciplinare (da cui è promanato il provvedimento impugnato), alcuna consulenza medica di parte (oltre che certificazioni relative allo specifico periodo) il militare aveva prodotto, onde l'organo disciplinare legittimamente ha ritenuto mancante la prova della non intenzionalità della condotta.

Le sopra esposte considerazioni disvelano, in conclusione, la correttezza della determinazione reiettiva del giudice di primo grado, fondata sulla mancanza di prova della non intenzionalità della condotta della diserzione, rendendo, di conseguenza, privi di rilievo i profili di censura articolati dall'appellante con riferimento alla operata digressione sulla differenza tra stato di confusione mentale e stato ansioso reattivo, nonché sulla presa in considerazione dell'avvenuta condanna in sede penale.

Con il quinto motivo il signor D. lamenta: error in iudicando; errata ed irragionevole valutazione in merito al difetto di motivazione, al principio di proporzionalità e del cd. gradualismo sanzionatorio, all'illogicità e all'ingiustizia manifesta lamentata dal ricorrente; errata applicazione dell'art. 3 della L. n. 241 del 1990; illegittima ed irragionevole interpretazione dell'art. 1375 del D.Lgs. n. 60 del 2010 in materia di motivazione dei provvedimenti disciplinari.

Rileva in primo luogo che il Tar ha sostanzialmente affermato che la violazione "formale" degli obblighi assunti con il giuramento da un militare, a prescindere dalla sua gravità, giustifica la sanzione espulsiva, pur in presenza soltanto di una formale lesione al prestigio dell'Arma.

Evidenzia in proposito la necessità di un approccio sostanzialistico all'obbligo di motivazione nei procedimenti disciplinari, il quale comporta la necessità di una concreta valutazione dei fatti contestati e della loro proporzionalità con la sanzione irrogata, che consenta di far trasparire l'iter logico seguito nella assunzione del provvedimento finale.

Orbene, la concreta considerazione dei fatti contestati all'appellante avrebbe dovuto condurre a non ritenere la sussistenza di una irrimediabile violazione della fiducia dei cittadini e dell'intera collettività.

Lamenta, inoltre, che il Tribunale non avrebbe riscontrato la violazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione, non avendo la Commissione deliberato su di una pluralità di proposte ed avendo la stessa omesso di considerare le risultanze di fatto relative alla unicità della condotta di diserzione, le positive valutazioni sempre raccolte nella carriera del militare, la personalità, la giovane età e lo stato di servizio.

Il giudice di primo grado, in relazione ai motivi di ricorso in proposito prodotti dal ricorrente, ha così motivato.

"...secondo il ricorrente l'atto impugnato ...non consente di comprendere come e perché la protratta assenza dal servizio sia stata ritenuta talmente lesiva dell'immagine dell'arma nonché contraria ai sentimenti di solidarietà, etici e di decoro e che garantiscono l'indispensabile fedeltà nell'esecuzione degli ordini e nell'espletamento del servizi tanto da ritenerlo meritevole della sanzione espulsiva. Tale doglianza può essere esaminata congiuntamente con il quinto mezzo di gravame, con cui il ricorrente lamenta la violazione del principio di proporzionalità e del gradualismo sanzionatorio ed eccesso di potere per illogicità e manifesta ingiustizia. Quanto ai limiti del sindacato di proporzionalità effettuabile dal giudice amministrativo si rinvia ad un recente precedente della Sezione (n. 7702/2014) e ribadire l'evidente gravità della mancanza commessa dal ricorrente - affermata da costante orientamento giurisprudenziale, che ha evidenziato "l'insuperabile vulnus al rapporto fiduciario che costituisce il sostrato ineliminabile del rapporto di servizio, risultando altresì indubitabile la proporzionalità tra la gravità dei fatti e la scelta della sanzione espulsiva"(vedi , da ultimo, Cons. Stato, IV, 21-5-2013, n. 2738, cfr., Cons. Stato, IV, 9-10-2010, n. 7383) - che costituisce una violazione radicale di tutti i principali doveri del militare tanto da comportare, quale pena accessoria, la perdita del grado (Tar Lazio, sez. I bis, 27.9.2011, n. 7570). Alla stregua di quanto sopra argomentato, il ricorso in esame va respinto".

La Sezione condivide la determinazione reiettiva del giudice di primo grado e reputa, di conseguenza, non meritevoli di favorevole considerazione le censure proposte dall'appellante.

Avuto, invero, riguardo alle doglianze mosse con gli atti di primo grado, ritiene il Collegio che il provvedimento con il quale è stata disposta la sanzione della perdita del grado sia sufficientemente motivato.

Esso, nella parte dispositiva, esprime la seguente motivazione: "Appuntato, all'epoca dei fatti Carabiniere scelto in servizio presso la I^ Sezione del Nucleo Scorte del Comando Legione Carabinieri Lazio, il 7 gennaio 2010, al termine di un periodo di riposo medico, ometteva , senza giusto motivo, di rientrare nel Reparto, restando assente fino al 28 gennaio 2010. Tale condotta, già sanzionata penalmente, è da ritenersi biasimevole sotto l'aspetto disciplinare in quanto contraria ai principi di moralità e di rettitudine che devono improntare l'agire di un militare, ai doveri attinenti al giuramento prestato ed a quelli di correttezza e di esemplarità propri di un appartenente all'Arma dei Carabinieri. I fatti disciplinarmente accertati sono di rilevanza tale da richiedere l'applicazione della massima sanzione disciplinare di stato".

Va, peraltro, evidenziato che il provvedimento impugnato, nella parte motivazionale, richiama, condividendole, le risultanze della commissione di disciplina e le conclusioni dalla stessa assunte, rilevando che il D. "con la sua condotta ha: - leso profondamente quei principi di moralità e di rettitudine che devono sempre caratterizzare l'agire di un militare, specie se appartenente all'arma dei Carabinieri; - irrimediabilmente compromesso quella relazione fiduciaria che deve necessariamente permanere tra amministrazione e dipendente che è alla base del buon andamento e dell'ottimale gestione della cosa pubblica".

Di poi, nella seduta della Commissione di disciplina del 18-12-2012 è stata data lettura della relazione riepilogativa.

Orbene, la Relazione Finale del 2-10-2012, nelle sue conclusioni (par. E), dopo aver premesso che "con la condotta posta in essere, penalmente sanzionata ai sensi dell'articolo 148 n. 2 e 47 n. 2 c.p.m.p. per il reato di diserzione aggravata l'App. D. ha generato disservizio, arrecando nocumento al servizio in violazione dei criteri deontologici da perseguire", richiama le norme del T.U.R.O.M. relative ai doveri attinenti al giuramento, al grado, al senso di responsabilità, al contegno del militare ed agli obblighi di comunicazione (artt. 712, 713, 717, 732 e 748) che il militare ha violato; opera, poi, riferimento alle giustificazioni addotte dall'appellante ed alla comunicazione telefonica effettuata al m.llo S. e conclude per la fondatezza dell'addebito, "atteso che la condotta posta in essere dal militare -pur in presenza di comunicazione non formale al proprio Comando afferente all'impossibilità di poter rientrare in servizio..., ha comunque palesato un ritardo ingiustificato nell'assolvimento dei propri doveri, tra l'altro in un arco temporale di perdurante assenza ingiustificata di giorni 21, denotando di tal guisa il mancato possesso delle virtù militari che devono costantemente caratterizzare l'agire di ogni appartenente all'Arma, nonché scarso senso di responsabilità per non avere adempiuto integralmente con disciplina ed onore ai doveri che derivano dalla condizione militare per la realizzazione dei fini istituzionali delle Forze Armate".

Ciò posto, osserva la Sezione che il provvedimento impugnato e gli atti procedimentali dallo stesso richiamati, denotano chiaramente l'iter logico giuridico seguito nella scelta della sanzione da irrogare ed esprimono in maniera esaustiva le ragioni della determinazione assunta, non solo con astratto riferimento alla natura di "diserzione" del comportamento tenuto, ma con specifico riguardo all'episodio verificatosi, alla durata della assenza ingiustificata, al disservizio causato ed all'incidenza dello stesso in termini di irrimediabile compromissione della relazione fiduciaria tra amministrazione e dipendente.

Vi è stata, dunque, considerazione e valutazione della situazione fattuale concreta e, dunque, l'assunzione di una decisione che non è stata fondata sulla mera violazione formale dei doveri del militare, ma che ne ha apprezzato la gravità "in concreto", tenendo conto della specificità del fatto commesso.

Né può affermarsi l'omessa considerazione di elementi favorevoli al militare, risultando comunque gli stessi nella documentazione personale del medesimo e, dunque, da ritenersi presi in considerazione nel procedimento disciplinare per cui è causa.

Vi è, dunque, che la gravità del comportamento tenuto è stato ritenuto assorbente e prevalente rispetto ad ogni altro elemento di segno favorevole, sì da ritenere irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario tra amministrazione e dipendente, così giustificandosi la sanzione espulsiva.

Allo stesso modo, ritiene la Sezione che l'irrogazione della massima sanzione di stato, nei limiti in cui è consentito l'intervento del giudice amministrativo, non risulti violativa dei principi di gradualità e di proporzionalità.

Non può, invero, non considerarsi che, in relazione al peculiare status del militare e ai doveri sullo stesso gravanti, la diserzione, peraltro protrattasi per un non ridotto lasso temporale, sia comportamento estremamente grave, tra l'altro penalmente sanzionato, che giustifica, sotto il profilo della ragionevolezza, logicità e proporzionalità, una valutazione di irrimediabile compromissione del rapporto fiduciario con l'Arma di appartenenza.

Né risulta condivisibile la censura di parte appellante, nella parte in cui assume la necessità di porre a votazione una pluralità di proposte di sanzioni disciplinari, osservandosi che nella specie è stato osservata la disposizione procedimentale contenuta nell'articolo 1388 C.O.M., il quale prevede, al comma 10, che i membri della Commissione si pronuncino sul quesito "Il ....è meritevole di conservare il grado?".

Risulta, pertanto, infondato anche il quinto motivo di appello.

Può a questo punto passarsi all'esame del sesto motivo dell'appello, con il quale viene dedotto: error in iudicando; errata, illegittima ed irragionevole valutazione in merito alla censurata contraddittorietà tra atti interni al procedimento disciplinare; erronea ed illegittima ricostruzione dei fatti e della loro cronologia , così come riportati nell'appunto; autonomia dei diversi procedimenti disciplinari nel codice penale militare; violazione del principio del ne bis in idem; violazione del principio di non colpevolezza e violazione degli artt. 24 e 25 della Costituzione.

Il signor D. contesta in primo luogo la gravata sentenza nella parte in cui non ha ritenuto contraddittorietà tra gli atti del procedimento, laddove è emerso che il Comandante Bigica nella relazione finale aveva evidenziato il comportamento in buona fede del militare in gravi difficoltà e che comunque la documentazione medica relativa allo stato di salute non poteva che essere successiva alla condotta di diserzione.

Rileva che erroneamente il giudice di primo grado avrebbe affermato che il verbale della commissione non doveva essere motivato, dovendo invece rappresentare l'apprezzamento e, quindi, il giudizio su ogni singolo elemento emerso da parte dei singoli commissari e le proposte alternative.

Contesta, poi, le argomentazioni della sentenza del Tribunale in ordine all' "appunto", oggetto di censura con l'atto di motivi aggiunti.

Evidenzia in proposito che il procedimento disciplinare avrebbe dovuto tenere in considerazione solo i fatti relativi al periodo della diserzione e non anche quelli successivi, mentre il D. risulta essere stato punito per fatti posteriori alla condotta di diserzione.

Quanto alla avvenuta punizione per la sanzione di corpo della consegna di 5 giorni, evidenzia che la stessa è stata irrogata solo nel 2012 e, quindi, in epoca successiva alla diserzione oggetto del procedimento disciplinare; essa, inoltre, essendo fattispecie diversa, non integrava "recidiva", né poteva essere valutata nel procedimento disciplinare in quanto già scontata, con conseguente violazione del principio del ne bis in idem.

Il Tribunale avrebbe, inoltre, errato nell'affermare che l'amministrazione avrebbe comunque tenuto conto dei precedenti di servizio favorevoli del militare.

Il giudice di prime cure così motiva sul punto.

"Non sussiste la lamentata contraddittorietà dell'operato dell'Amministrazione, in quanto nella relazione finale sull'inchiesta disciplinare del 2-10-2012 non è ravvisabile alcun "riconoscimento della condotta parzialmente corretta dell'interessato", come ritenuto dal ricorrente, dato il semplice avviso dell'impossibilità di rientrare non è stato seguito dalla produzione medica attestante l'ulteriore periodo di malattia ed in mancanza della giustificazione medica l'assenza non poteva che essere considerata arbitraria e qualificata come diserzione. Quanto alla lamentata carenza di motivazione della commissione di disciplina, l'operato dell'amministrazione è immune da vizi, risultando conforme a quanto prescritto dall'art. 1388, comma 10 che, nel dettare le regole da seguire nel procedimento davanti alla commissione di disciplina, prevede che questa si limiti esclusivamente ad esprimere, senza motivarlo, il proprio voto sulla meritevolezza del militare di conservare il grado.....quanto alle contestazioni relative all'appunto, va osservato che: la valutazione del servizio prestato ai fini dell'irrogazione della sanzione è riferito all'attualità e quindi non è meramente riassuntiva dei giudizi espressi nelle note di qualifica precedenti; le circostanze rappresentate in merito all'essere stato già punito con sanzioni di corpo corrisponde a verità (la consegna di 5 giorni è riportata nello stesso prospetto depositato dal ricorrente), e che alla luce di tale rilievo risulta infondata anche la doglianza dedotta con il terzo mezzo di gravame, ove appunto si lamenta la omessa considerazione dei precedenti di servizio del ricorrente; le recenti vicende penali sono funzionali ad un inquadramento dei tratti della personalità complessiva dell'interessato. Anche i motivi aggiunti vanno pertanto respinti in quanto infondati".

Ciò posto, ritiene la Sezione che la determinazione reiettiva del Tribunale sia condivisibile e, di conseguenza, infondate le censure proposte dall'appellante.

Quanto al primo profilo, si osserva che, se è vero che la già citata relazione finale riporta le giustificazioni addotte dal D. (punto D. Considerazioni sull'addebito), nelle conclusioni, come già sopra rilevato, essa evidenzia comunque l'esistenza di un ritardo ingiustificato nell'assolvimento dei propri doveri e la mancata produzione di documentazione sanitaria, con conseguente fondatezza dell'addebito. Dunque, non vi è alcuna contraddittorietà tra gli atti del procedimento disciplinare, non potendosi tale relazione ritenersi favorevole all'appellante.

Corretto risulta, poi, il richiamo all'articolo 1388 del C.O.M. , il quale prevede, al comma 11, che "il giudizio della commissione è espresso a maggioranza assoluta e non è motivato", richiamandosi comunque quanto in precedenza già esposto dalla Sezione in ordine all'esistenza di una sufficiente e congrua motivazione, desumibile dal provvedimento impugnato e dagli atti del procedimento, in ordine alla sanzione irrogata al militare.

Con riferimento, poi, alle censure mosse in ordine all'appunto, va evidenziato che l'esame degli atti del procedimento evidenzia che l'irrogazione della sanzione disciplinare è avvenuta con riferimento esclusivo all'episodio della diserzione.

Sulla avvenuta considerazione dello stato di servizio del militare si è già detto in precedenza.

Quanto al rilievo relativo alla avvenuta irrogazione di sanzioni disciplinari di corpo ed alle vicende penali che lo hanno interessato, il Collegio condivide le considerazioni svolte dal giudice di primo grado, evidenziando che il loro richiamo non esprime affatto la circostanza che il D. sia stato sanzionato per fatti diversi e successivi all'episodio di diserzione oggetto del procedimento disciplinare.

Invero, tali elementi risultano non illegittimamente richiamati, in quanto diretti a tratteggiare, nell'attualità, la personalità dell'incolpato, considerandosi che il comma 2 dell'articolo 1355 specifica che "nel determinare la specie ed eventualmente la durata della sanzione sono inoltre considerati i precedenti di servizio disciplinari...", intendendosi per tali non necessariamente solo quelli anteriori al fatto oggetto del procedimento ma, più in generale, quelli esistenti al momento in cui si decide in ordine alla sanzione da irrogare, risultando gli stessi elementi da valutare al fine specifico della determinazione della specie e della durata della sanzione.

Va, inoltre, considerato che le circostanze riferite nell'appunto risultano, altresì, giustificate dalla ulteriore finalità di una esaustiva e completa cognizione della posizione dell'incolpato da parte dell'autorità competente alla irrogazione della sanzione disciplinare.

Occorre, infatti, in proposito rammentare che l'articolo 1389 C.O.M., relativo alla "decisione del Ministro della difesa" prevede che questi "può discostarsi, per ragioni umanitarie, dal giudizio della commissione di disciplina a favore del militare"; con la conseguenza che la conoscenza della complessiva situazione del militare nell'attualità risulta elemento utile e necessario all'esercizio (ovvero al non esercizio) del potere contemplato dalla richiamata disposizione.

Anche il sesto motivo di appello risulta, pertanto, infondato.

L'appello deve, pertanto, essere rigettato, con la conferma della sentenza di primo grado.

Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

Le spese del giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti costituite, avuto riguardo alla peculiarità della controversia e della natura delle questioni trattate.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 ottobre 2015 con l'intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Raffaele Greco, Consigliere

Raffaele Potenza, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere

Francesco Mele, Consigliere, Estensore
Avv. Antonino Sugamele

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