Militare dell'arma dei carabinieri condannato a 2 anni di reclusione viene sospeso dall'impiego per mesi quattro. Il Militare si duole dell'esclusione da ogni procedura di avanzamento e dal transito ad altri ruoli.
T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., (ud. 19/11/2018) 04-02-2019, n. 1381
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3510 del 2015, proposto da
A.E., rappresentato e difeso dagli avvocati Stefania Parola e Francesco Acerboni, con domicilio eletto presso lo studio Stefania Parola in Roma, via Oslavia, 40;
contro
Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, Ministero della Difesa, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del provvedimento con il quale è stata disposta la esclusione del ricorrente dal ogni procedura d'avanzamento e dal transito da un ruolo all'altro - sospensione disciplinare dall'impiego per mesi quattro - riassunzione Tar Marche, n.r.g. 645/14 - ordinanza n. 167/15
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri e di Ministero della Difesa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2018 il dott. Roberto Vitanza e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Il ricorrente, militare dell'arma dei carabinieri, è stato condannato, in via definitiva, ad anni due di reclusione (sentenza n. 20 del 27.03.2008 del Tribunale penale di Venezia, divenuta irrevocabile il giorno 8.11.2011).
Conseguentemente alla indicata condanna penale, l'amministrazione lo ha quindi sospeso dall'impiego per mesi quattro.
Successivamente l'amministrazione, con il provvedimento in questa sede censurato, ha escluso il ricorrente, a mente dell'art. 1051 del codice dell'ordinamento militare e della conseguente normativa interna, da ogni procedura di avanzamento e dal transito ad altri ruoli.
Avverso tale determinazione il predetto ha reagito con ricorso giurisdizionale e successivi motivi aggiunti introdotti al Tar Marche.
Con ordinanza n. 167/2014 il Tar adito, in relazione alla impugnazione di un atto a valenza generale, ha declinato la propria competenza in favore di questo Tar.
Alla Udienza del giorno 19 novembre 2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
In buona sostanza il ricorrente contesta il provvedimento impugnato in uno con l'interpretazione dell'art. 1051 cit. e della circolare esplicativa al riguardo assunta dalla p.a..
Con il primo motivo di gravame il ricorrente rileva la mancata applicazione dell'art. 10 bis della L. n. 241 del 1990 e dell'art. 7 della medesima legge perché la p.a. non ha comunicato, né l'avvio del procedimento, né il preavviso di rigetto alla istanza di avanzamento.
Le riferite censure non possono essere condivise.
Il primo rilievo, infatti, non è pertinente.
La comunicazione di avvio del procedimento non è sempre indispensabile per configurare legittima la successiva azione pubblica.
Infatti, la stessa non è necessaria se il provvedimento adottato ha, come nel caso di specie : la natura di "atto dovuto" e il ricorrente non prova in modo puntuale le circostanze che avrebbero indotto l'Amministrazione a determinarsi in modo diverso sul contenuto dell'atto (Consiglio di Stato, Sez III, 21.01.2015, n. 203).
Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato a segnalare la necessità di una diversa interpretazione dell'art. 1051 cit e della norma secondaria, senza minimamente dimostrare le ragioni per cui il provvedimento adottato doveva avere un diverso contenuto.
Quanto al preavviso di rigetto dell'istanza, è appena il caso di osservare che agli atti non si rinviene alcuna istanza del ricorrente di partecipare ai concorsi interni per la progressione in carriera, né la stessa emerge dai motivi di gravame.
Il provvedimento assunto, pertanto, si riferisce alle automatiche progressioni in carriera nell'ambito del medesimo ruolo, per cui valgono le medesime considerazioni sopra esposte in merito ai provvedimenti dovuti.
Con il secondo motivo di gravame la parte contesta il fatto che la p.a. ha applicato la sospensione dalla progressione in carriera, anche con riferimento alle successive valutazioni, in modo automatico senza considerare la necessità di dover valutare anche il complessivo comportamento del militare.
Per il ricorrente, pertanto, la norma comporta :" l'obbligo da parte del Ministero di esprime un giudizio concreto sulla condotta del ricorrente e sulla sua persona, in un'ottica che differisce sia dal procedimento penale che da quello disciplinare".
Il comma 8 dell'art. 1051 cit. statuisce :" Il personale militare inserito nei ruoli del servizio permanente che è stato condannato con sentenza definitiva a una pena non inferiore a due anni per delitto non colposo compiuto mediante comportamenti contrari ai doveri di fedeltà alle istituzioni ovvero lesivi del prestigio dell'amministrazione e dell'onore militare è escluso da ogni procedura di avanzamento e dalla possibilità di transito da un ruolo a un altro".
Come si evince dal tenore letterale della riportata fattispecie, la stessa non può essere intesa, né interpretata, come erroneamente ritiene il ricorrente, quale momento di discrezionale valutazione del comportamento complessivo del militare da parte della p.a..
La condanna penale, non inferiore a due anni per comportamenti contrari ai doveri del militare, comporta, non già una valutazione comparativa del comportamento tenuto, bensì un mero accertamento del dato oggettivo relativo alla motivazione della sentenza e dei reati ascritti e riconosciuti commessi dal militare, in uno con la pena irrogata.
Nel caso di specie, il predetto è stato condannato per gravi reati, i quali di per sé, dimostrano un comportamento contrario ai doveri di fedeltà alle istituzioni, lesivi del prestigio dell'amministrazione e dell'onore militare, nonché del giuramento prestato.
Né la disposizione in esame può ritenersi, come sostiene il ricorrente nel terzo motivo di ricorso, contraria ai principi afferenti alle libertà fondamenti, così come declinati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, proprio perché tale pregiudizio evolutivo nella carriera è diretta ed immediata conseguenza di un grave comportamento, sanzionato definitivamente dall'autorità giudiziaria.
Con i successivi motivi aggiunti, partecipati dal ricorrente il 23 dicembre 2014, in disparte le ragioni già espresse nel ricorso principale, viene censurato il contenuto della circolare ministeriale afferente all'art. 35 bis del D.L. 12 maggio 1995, n. 198, poi sostituito dall'art. 1051 cit.
E' noto che le circolari possono contenere semplici comunicazioni, ovvero precise direttive o istruzioni in ordine alle modalità di comportamento che i destinatari devono adottare o, ancora l'interpretazione che la p.a. dà di un certa norma di legge.
Si tratta, in buona sostanza, di un atto espressivo del potere di autorganizzazione dell'ente pubblico.
Le circolari non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all'amministrazione, onde i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse non hanno alcun onere di impugnativa, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che gli atti applicativi sono illegittimi perché scaturiscono da una circolare illegittima che avrebbe, invece, dovuto essere disapplicata (Cons. di St.,sez. IV, 21.giugno 2010 n. 3877).
Nel caso di specie, come detto, la parte non censura la illegittimità della norma secondaria, quanto il suo aspetto applicativo che, invero, si collega immediatamente e direttamente alla norma primaria, per cui, al riguardo, valgono le considerazioni sopra espresse, non avendo la circolare contestata, innovato sotto alcun aspetto le previsioni di cui al citato art. 1051.
Ciò detto, ritiene il Collegio che la inibizione nella progressione in carriera non deve, né può avere, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 1051 cit., una durata indefinita.
Ne consegue, però, che tale aspetto temporale deve collegarsi ed imputarsi a ben precisi ed oggettivi criteri che il Collegio ritiene rinvenirsi nella riabilitazione che, in quanto tale, cancellando la pena accessoria ed ogni altro effetto penale della condanna ( art. 178 c.p.), impedirebbe l'adozione di una tale misura preclusiva.
Ebbene, la parte ha prodotto l'ordinanza del Tribunale di Ancona che ha concesso al ricorrente, in data 22 dicembre 2017, la riabilitazione, ma la difesa, nel presente contesto processuale non ha, né, in effetti poteva contestare alla p.a., nei motivi di gravame, di non aver valutato tale beneficio, trattandosi di provvedimento sopravvenuto dopo alcuni anni rispetto a quello oggetto dell'odierna impugnativa.
Per tali ragioni il ricorso deve essere respinto.
La peculiarità della vicenda convince il Collegio a compensare le spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2018 con l'intervento dei magistrati:
Concetta Anastasi, Presidente
Fabrizio D'Alessandri, Consigliere
Roberto Vitanza, Primo Referendario, Estensore
09-02-2019 21:49
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