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Sentenza

Primo C.M. del I° Reggimento Bersaglieri Cosenza, avendo accesso al sistema info...
Primo C.M. del I° Reggimento Bersaglieri Cosenza, avendo accesso al sistema informatico del Centro Rischi Intermediazione Finanziaria raccoglie informazioni su diversi ufficiali del I Reggimento Bersaglieri di Cosenza, verificando la qualità di pagatori degli stessi. Predispone dei documenti falsi e chiede finanziamenti facendo figurare il Comandante del Reparto.
Cassazione Penale Sent. Sez. 1   Num. 41637  Anno 2019Presidente: SANDRINI ENRICO GIUSEPPERelatore: MINCHELLA ANTONIOData Udienza: 06/06/2019
SENTENZA Sul ricorso proposto da: S.D. e, nato il .............; Avverso la sentenza n. 81/2017 della Corte Militare di Appello di Roma in data A342/2017; Udita la relazione svolta dal Consigliere dott. Antonio Minchella; Udite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del dott. Luigi Maria Flamini, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso; Udito il difensore Avv. Fabio Puja, in sostituzione dell'Avv. Cristiano Cristian, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 16/02/2017 il Tribunale Militare di Napoli condannava S.D., già primo caporal maggiore capo scelto, alla pena di mesi otto di reclusione militare per tentata truffa aggravata. Scriveva il Tribunale Militare che dall'istruttoria era emerso che l'imputato, tra il settembre e il novembre 2014, aveva posto in essere un meccanismo truffaldino strutturato; egli aveva avuto accesso al sistema informatico del Centro Rischi Intermediazione Finanziaria ed aveva raccolto informazioni su diversi ufficiali del I Reggimento Bersaglieri di Cosenza, verificando la qualità di pagatori degli stessi; poi, in particolare, aveva predisposto una serie di documenti falsi che utilizzava per chiedere finanziamenti facendo figurare, quale sottoscrittore del contratto, uno degli ufficiali e cioè il Comandante del Reparto Ten. Col. G.R.; nello specifico, nell'abitazione dell'imputato erano state ritrovate tre richieste presso il Centro Rischi Intermediazione Finanziaria relative all'ufficiale menzionato e se telra dedotto che, accertata la qualità di buon pagatore, -- egli aveva predisposto una carta di identità falsa del predetto, utilizzando il documento di una persona residente da anni all'estero; in seguito, sempre tramite esibizione di falsa documentazione, aveva ottenuto il rilascio di schede SIM da compagnie telefoniche fornendo le stesse quale recapito telefonico per le società finanziarie che dovevano erogare i vari finanziamenti richiesti a nome del R., così da poter essere lui contattato in luogo della persona offesa; egualmente nell'abitazione dell'imputato era stata trovata una cartella contenente una serie di documenti elettronici (tessere sanitarie o codici fiscali) di diversi ufficiali, tra cui anche il R., oltre ad una carta di credito intestata al R.. I contratti di finanziamento non erano andati a buon fine poiché, dopo la richiesta formale di essi, gli operatori delle finanziarie erano riusciti a contattare il R., il quale aveva disconosciuto le firme apposte sulle richieste e denunziato la falsità dei documenti presentati, l'intestazione delle schede telefoniche e un indirizzo di posta elettronica fornito. Il consulente tecnico grafico del P.M. aveva effettuato una comparazione sulle firme apposte sui documenti contraffatti (apparentemente del R.) e sulla grafia di documenti sicuramente riconducibili all'imputato ed aveva quindi concluso che quelle firme false erano state apposte con elevatissima probabilità (pari a circa il 90%) dall'imputato. Sulla base della documentazione rinvenuta nelle, sua casa e delle riconducibilità a lui della grafia utilizzata sui falsi documenti, egli veniva dichiarato responsabile di truffa militare tentata, per l'idoneità e l'univocità degli atti. 2. Interponeva appello l'imputato, contestando la responsabilità nel complesso meccanismo truffaldino per impossibilità di accedere a tanti dati personali nonché la stessa riconducibilità delle firme apposte sulle richieste (poiché il consulente tecnico del P.M. le aveva ricondotte principalmente ad un correo giudicato separatamente) e sottolineando che in nessun documento contraffatto vi era la fotografia dell'imputato (per cui egli non avrebbe potuto servirsene) nonché contestando comunque l'idoneità degli atti. 3. Con sentenza in data 13/12/2017 la Corte Militare di Appello confermava la condanna di primo grado. Rilevava la Corte territoriale che le indagini che avevano condotto all'imputato erano partite per altro analogo episodio di truffa; che la documentazione di identità allegata alle richieste di finanziamento recava i dati del R., ma era di altra persona; che i due numeri di telefono forniti alle società finanziarie erano intestati ad una terza persona che ignorava la loro esistenza, ma che una di esse aveva contattato più volte il fratello dell'imputato e che la cella di riferimento delle chiamate corrispondeva alla zona di abitazione del predetto; che la perquisizione a casa dell'imputato aveva permesso di rinvenire detta scheda telefonica oltre a molto materiale rilevante (carta di credito Fineco intestata al R. con relativo PIN; comunicazioni Fineco indirizzate al R.; altre password e codici Pin intestati al R.; una pen-drive contenente tessere sanitarie, codici fiscali e altri documenti del R. e di altri ufficiali; un appunto recante il nome del R. con accanto i due numeri telefonici forniti alle società finanziarie; fogli recanti dati sensibili della persona offesa); si appurava che egli aveva effettuato richieste al Centro Rischi Intermediazione Finanziaria circa il R. e che il R. aveva disconosciuto ogni firma ed ogni altro materiale presentato alle società finanziarie. Concludeva il Giudice che l'imputato aveva contribuito in modo rilevante alla realizzazione della condotta criminosa, poiché il possesso di tanto materiale non poteva avere altro significato e del resto egli aveva la carta di credito intestata al R., da questi mai richiesta, grazie alla quale avrebbe potuto beneficiare del frutto della truffa. A ciò non ostava il fatto che l'imputato fosse stato assente dal reparto per alcuni periodi, poiché l'acquisizione dei dati poteva essere avvenuta in altri momenti e comunque l'assenza non era stata ininterrotta, per cui l'azione truffaldina era stata pianificata ed attuata nel tempo. Era vero che la grafia delle firme era riconducibile al coimputato la cui posizione aveva avuto procedura separata, ma ciò non escludeva affatto il concorso pieno; il fatto poi che sui documenti falsi non vi fosse la fotografia dell'imputato significava soltanto che la presentazione degli stessi era avvenuta ad opera di persone non identificate dalle indagini: ma il materiale trovato a casa dell'imputato rendeva evidente che era stato lui ad acquisire i dati e a procedere alla contraffazione dei documenti, così come era stato lui a tenere i contatti telefonici con le società finanziarie. Infine, gli atti compiuti erano idonei alla truffa: infatti, il progetto criminoso era stato sventato solo perché gli operatori della finanziaria avevano contattato il R. non sui numeri di telefono forniti dall'imputato, ma tramite il reparto di servizio, per come risultava nella 
documentazione allegata alle richieste: i falsi predisposti erano tutt'altro che grossolani. 4. Avverso detta sentenza propone ricorso l'interessato per mezzo del difensore Avv. Cristian Cristiano, deducendo, ex art. 606, comma 1 lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che la condanna era stata pronunziata nonostante l'assenza dal reparto per il periodo in questione, nonostante la grafia sui documenti fosse riconducibile ad un altro individuo e nonostante il ricorrente si limitasse a detenere una lista di dati, azione che non costituiva illecito; anzi, nonostante la contestazione si limitasse al concorso con un solo altro individuo, la Corte territoriale aveva ipotizzato il concorso di ulteriori persone, non considerando che il ricorrente aveva soltanto raccolto dati senza realizzare direttamente atti tesi alla frode: pertanto la frazione degli atti compiuti dal ricorrente non poteva ancora dirsi idonea, ed anzi il controllo ordinario degli operatori aveva condotto alla scoperta della condotta complessiva, la quale tutta era ancora inidonea al compimento della truffa, ma era stata punita come se una mera preordinazione già sostanziasse il reato. 5. In udienza le parti hanno concluso come indicato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, poiché è manifestamente infondato. Infatti, manifestamente infondate devono ritenersi le doglianze prospettate, in quanto sostanzialmente orientate a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte nel giudizio di merito, ed ivi ampiamente vagliate e correttamente disattese dal giudice, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, poiché imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica consequenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione. In relazione ai suindicati profili, dunque, il ricorso non è volto a rilevare mancanze argomentative , erronee applicazioni di norme o illogicità ictu ()culi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato sulla congruità di scelte valutative compiutamente giustificate dal giudice, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento del tema d'accusa. La Corte territoriale non ha trascurato di considerare le giustificazioni fornite dal ricorrente, ma le ha valutate come non credibili: infatti, da un lato ha sottolineato che l'elemento cruciale nella ricostruzione della vicenda criminosa era il rinvenimento a casa del ricorrente di documentazione dal significato inequivoco (carta di credito intestata al R., codici PIN, comunicazioni della Fineco indirizzate al predetto, tessera sanitaria e codici fiscali del R., un appunto recante il nome del R. con accanto i numeri di telefono forniti alle società finanziarie); d'altro lato, ha evidenziato che quel materiale - già di per sé significativo - assumeva una valenza di ulteriore rilievo se posto accanto ad altre circostanze che legavano il ricorrente alla complessa manovra truffaldina posta in essere (le sue richieste al Centro Rischi Intermediazione Finanziaria relative al R., scheda telefonica intestata a persona che ignorava la vicenda, documento di identità apparentemente del R., ma recante la fotografia di altra persona). Sostiene il ricorrente che detti elementi provavano, al più, una attività preparatoria, ma non anche un tentativo delittuoso penalmente rilevante poiché dagli atti non emergerebbe una chiara dimostrazione della direzione teleologica della volontà dell'agente per l'assenza del requisito dell'univocità e della idoneità dell'azione: si tratta di una argomentazione non accoglibile, giacchè, in ordine al concetto di idoneità degli atti, l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (cd. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo, il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata (Sez. 2, n. 46776 del 20/11/2012, Rv. 254106). Quanto all'univocità degli atti, siccome l'azione è quell'attività umana composta da uno o più atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo è punibile non soltanto quando l'esecuzione è compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto. Sul punto, è lo stesso art. 56 cod.pen. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (cd. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (cd. tentativo compiuto). Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il dato di fatto semanticamente rilevante è che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi: infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" è chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compiuto l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che questo non si è verificato per un fatto indipendente dalla sua volontà. Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell'esecuzione degli atti di 
un delitto, quando prevede la punibilità anche dell'azione, necessariamente non può che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiamo l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, è un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o più atti, e contiene, in sé, tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato. Ciò, quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. 2. Nella fattispecie, la Corte territoriale ha evidenziato come gli esiti delle indagini dimostravano che era stato il ricorrente ad acquisire i dati sensibili del R., a procedere alla contraffazione dei documenti ed a tenere i contatti telefonici con le società finanziarie: la carta di credito già ottenuta dimostrava che i dati forniti con le richieste non costituivano un falso grossolano, tanto che soltanto un fattore casuale - e cioè il controllo effettuato da una società finanziaria direttamente presso il R. - aveva consentito di sventare l'ordito criminoso. Peraltro, non è sostenibile l'argomento secondo il quale il ricorrente risponderebbe soltanto di un segmento di azione privo di rilevanza penale: in realtà, nell'ipotesi di concorso di più persone nel reato, non ha nessuna influenza che uno dei concorrenti ponga in essere l'atto esecutivo tipico e l'altro solo le attività materiali e i comportamenti collegati, poiché la diversificazione delle condotte non incide sulla configurazione del reato. E naturalmente, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, non comporta mutamento del fatto, l'aggiunta di un ulteriore concorrente rispetto a quelli originariamente indicati nella imputazione, nel caso in cui la condotta contestata rimanga invariata (Sez. 6, n. 29114 del 30/03/2012, Rv. 253225): pertanto, nulla è inficiato dalla ipotesi della Corte territoriale di ulteriori correi rimasti non identificati o dal fatto che la riconducibilità della grafia sugli atti era di una terza persona (atteso che la Corte territoriale non ignora questo dato, ma anzi lo cita e dimostra che la ricostruzione degli eventi non mutava). Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi a fronte dell'obiettivo rinvenimento presso l'abitazione dell'imputato del materiale sopra indicato ed a fronte delle azioni dal medesimo già poste in essere. Né possono avere rilevanza in questa sede le circostanze indicate dal ricorrente quali la non continuità nello svolgimento del servizio, la mera detenzione di una lista di dati, la non riconducibilità a lui delle fotografie sui falsi documenti: si tratta di una sollecitazione ad un apprezzamento di merito che non può trovare spazio in questa sede di legittimità; secondo una linea interpretativa in questa Sede da tempo tracciata, che l'esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369/2006, Rv. 235507). In definitiva, la linea argomentativa così sviluppata nella sentenza impugnata risulta immune da qualsiasi caduta di conseguenzialità logica, evidenziabile dal testo del provvedimento, mentre il tentativo del ricorrente di prospettare una diversa ricostruzione del fatto si risolve nella prospettazione di una lettura soggettivamente orientata del materiale probatorio, alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi. 3. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. sentenza n. 186 del 2000), al versamento di una somma alla cassa delle ammende, determinabile in 3.000,00 euro, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro Tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 06 giugno 2019.
Avv. Antonino Sugamele

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