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Sentenza

In caso di reati militari commessi da militari italiani all'estero nel corso...
In caso di reati militari commessi da militari italiani all'estero nel corso di missioni di pace svolte dall'Esercito Italiano, spetta al Tribunale militare di Roma la competenza a procedere nei confronti degli autori degli stessi - fatti salvi i casi in cui i comportamenti criminosi siano potenzialmente idonei a pregiudicare gli interessi dello Stato straniero - ed alla polizia giudiziaria militare italiana la competenza a svolgere nel territorio dello Stato straniero le preliminari attività di indagine. (Fattispecie relativa a militare che aveva aggredito un commilitone all'interno della base militare italiana di Al Mansouri, in Libano, dove il loro reggimento era impegnato in una missione internazionale di pace).
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 02-12-2020) 08-01-2021, n. 459
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IASILLO Adriano - Presidente -

Dott. SANDRINI Enrico G. - Consigliere -

Dott. SARACENO Rosanna - Consigliere -

Dott. MAGI Raffaello - Consigliere -

Dott. CENTONZE Alessandro - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:

1) D.V.G., nato a (OMISSIS);

Avverso la sentenza emessa il 17/07/2019 dalla Corte militare di appello di Roma;

Sentita la relazione del Consigliere Dott. Alessandro Centonze;

Sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale Dott. Flamini Luigi Maria, che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza emessa l'01/02/2019 il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale militare di Roma, procedendo con rito abbreviato, assolveva l'imputato D.V.G. dal reato del reato ascrittogli, ai sensi dell'art. 222 c.p.m.p., art. 47 c.p.m.p., comma 1, nn. 2 e 5, per la particolare tenuità del fatto.

2. Con sentenza emessa il 17/07/2019 la Corte militare di appello di Roma, decidendo sull'impugnazione proposta dall'imputato, confermava la decisione appellata, condannando l'appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali.

3. Da entrambe le sentenze di merito, che risultano pienamente convergenti, emergeva che, il (OMISSIS), intorno alle ore 1.35, all'interno della base militare italiana, ubicata ad (OMISSIS), in (OMISSIS), l'imputato D.V.G. aveva percosso B.R.. L'imputato e la persona offesa, in particolare, rivestivano il grado di sergente maggiore dell'Esercito Italiano e prestavano servizio presso il (OMISSIS), che, all'epoca dei fatti, era impegnata nell'ambito della missione internazionale di pace denominata "(OMISSIS)", stanziata ad (OMISSIS), in (OMISSIS), dove era insediata la base militare italiana, all'interno della quale l'aggressione di B. si era verificata.

Più precisamente, l'imputato, dopo avere consumato delle bevande alcoliche in compagnia della persona offesa, all'interno del punto di ristoro della base militare italiana di (OMISSIS), al culmine di un'animata discussione, che aveva avuto origine a causa della patologia che aveva provocato la recente morte del suocero del ricorrente - U.S., che era recentemente deceduto per la sclerosi laterale amiotrofica da cui era affetto -" aveva seguito la vittima presso il suo alloggio di servizio, dove lo aveva aggredito fisicamente, spintonandolo, sferrandole un pugno al viso e rivolgendogli la frase "adesso ti uccido".

In tale contesto, i Giudici militari di merito ritenevano dimostrata la responsabilità di D.V.G. per le percosse subite da B.R., evidenziando che le accuse della persona offesa apparivano univocamente orientate in senso sfavorevole all'imputato e risultavano corroborate dalle dichiarazioni dei testi P.S., D.G.B., M.M. e C.M..

Tuttavia, all'esito dei giudizi di merito, D.V. veniva assolto dal reato ascrittogli ex art. 222 c.p.m.p., art. 47 c.p.m.p., comma 1, nn. 2 e 5, sull'assunto della particolare tenuità del suo comportamento criminoso, resa evidente dalla natura occasionale del litigio intercorso con B., che imponeva la concessione dell'esimente di cui all'art. 131-bis c.p..

4. Avverso la sentenza di appello l'imputato D.V.G., a mezzo dell'avv. Massimiliano Masia, ricorreva per cassazione, deducendo due motivi di ricorso.

Con il primo motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento all'art. 192 c.p.p., conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi probatori acquisiti nel corso delle indagini preliminari, che si ritenevano sprovvisti di univocità e inidonei alla formulazione di un giudizio di responsabilità nei confronti di D.V..

Si deduceva, in proposito, che la ricostruzione degli accadimenti criminosi posta a fondamento della decisione appellata risultava smentita dalle deposizioni dei testi P., D. e M., che avevano dichiarato di avere assistito al litigio intercorso tra D.V. e B., ma di non avere visto il ricorrente colpire la persona offesa con un pugno al volto. Nè potevano rilevare, in senso sfavorevole all'imputato, le dichiarazioni fornite dal teste C., atteso che il militare, secondo quanto concordemente riferito dai testimoni sopra citati, era giunto nel luogo della presunta aggressione dopo che la lite tra l'imputato e la persona offesa si era conclusa, con la conseguenza di non essere stato presente nella fase acuta dello scontro - che doveva ritenersi esclusivamente verbale tra i due contendenti.

Con il secondo motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento all'art. 727 c.p.p., conseguente al fatto che gli elementi probatori erano stati acquisiti nel corso delle indagini preliminari in violazione delle disposizioni preposte all'espletamento delle rogatorie internazionali, la cui applicazione si imponeva in conseguenza del fatto che gli accadimenti criminosi si erano verificati in territorio straniero - essendosi concretizzati in (OMISSIS), all'interno della base militare italiana di (OMISSIS) - e che, in tale contesto territoriale estero, si erano svolti gli accertamenti investigativi, coordinati dal colonnello D.R.E..

Secondo la difesa del ricorrente, soltanto in presenza di specifici accordi interstatuali, era consentito lo svolgimento di attività di polizia giudiziaria in territorio straniero, con la conseguenza che, non essendo intervenuta alcuna intesa finalizzata al compimento di tali attività tra l'Italia e il (OMISSIS), gli atti d'indagine compiuti dall'autorità giudiziaria militare italiana, con il coordinamento del colonnello D.R., dovevano ritenersi inutilizzabili e non potevano essere sanati per effetto del rito abbreviato con cui si procedeva nei confronti di D.V..

Le considerazioni esposte imponevano l'annullamento dell'ordinanza impugnata.
Motivi della decisione

1. Il ricorso proposto da D.V.G. è inammissibile.

2. In via preliminare, occorre esaminare la questione della legittimazione a ricorrere dell'imputato, nelle ipotesi, analoghe a quella in esame, in cui si procede per un reato militare, per il quale è stata emessa una sentenza ex art. 131-bis c.p..

Osserva il Collegio che, nel sistema processuale penale, la nozione di interesse a impugnare, così come prefigurata dall'art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione dell'impugnazione e quale requisito soggettivo del diritto esercitato attraverso la proposizione del gravame, deve essere inquadrata in una prospettiva processuale utilitaristica, rispetto alla quale è irrilevante che si proceda per reati ordinari ovvero per reati militari. Tale connotazione utilitaristica dell'impugnazione risulta costituita da una finalità processuale negativa, consistente nell'obiettivo di rimuovere la situazione di svantaggio derivante dalla decisione giudiziale avverso la quale si ricorre, nonchè da una finalità processuale positiva, consistente nel perseguimento di un'utilità per la posizione del ricorrente - nel nostro caso un militare appartenente all'Esercito Italiano -, rappresentata dall'ottenimento di una pronuncia più vantaggiosa rispetto a quella impugnata.

Sul punto, non si può che richiamare l'orientamento consolidato di questa Corte, di cui si deve ribadire l'applicabilità anche nelle ipotesi che si proceda per reati militari, analoghe a quelle oggetto di vaglio, citando il seguente principio di diritto: "Nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza - a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti - ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un'utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo" (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693-01). Ne discende che il requisito dell'interesse a impugnare deve configurarsi in termini di concretezza e attualità, oltre che sussistere sia nel momento della proposizione del gravame sia in quello della sua decisione, perchè questa possa avere un'effettiva incidenza sulla situazione giuridica devoluta al giudice dell'impugnazione, costituita nel caso in esame dal reato per il quale D.V.G. era stato prosciolto dal Tribunale militare di Roma e dalla Corte militare di appello di Roma, con sentenza emessa ex art. 131-bis c.p. Tale requisito, quindi, presupponeva una valutazione della persistenza, al momento della decisione adottata, di un interesse all'impugnazione in capo al sergente maggiore D.V.G., la cui attualità doveva ritenersi sussistente all'atto della proposizione del ricorso per cassazione e non doveva essere venuta meno per la mutata situazione di fatto o di diritto eventualmente intervenuta (Sez. 1, n. 8763 del 25/11/2016, dep. 2017, Attanasio, Rv. 269199-01; Sez. 1, n. 47882 del 14/11/2013, Lisimberti, Rv. 257322-01).

Ricostruita in questi termini la legittimazione a proporre il ricorso per cassazione nei procedimenti aventi per oggetto reati militari, deve ritenersi che D.V. era certamente legittimato a impugnare la sentenza emessa nei suoi confronti ex art. 131-bis c.p., trattandosi di una pronuncia che aveva comunque efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto e delle sue connotazioni di illiceità penale, tanto da essere soggetta all'iscrizione nel casellario giudiziario e potendo ostare alla successiva applicazione della stessa esimente. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza di questa Corte, che deve ritenersi certamente applicabile alle ipotesi di reati militari, secondo cui sussiste l'interesse dell'imputato a impugnare la sentenza che esclude la punibilità ex art. 131-bis c.p., trattandosi di pronuncia che "ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso (...), è soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale (...), può ostare alla futura applicazione della medesima causa di non punibilità ai sensi dell'art. 131-bis c.p., comma 3" (Sez. 3, n. 18891 del 22/11/2017, dep. 2018, Battistella, Rv. 272877-01).

3. Passando a considerare il merito delle censure difensive, deve ritenersi inammissibile il primo motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento all'art. 192 c.p.p., conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi probatori acquisiti nel corso delle indagini preliminari, che si ritenevano sprovvisti di univocità e inidonei alla formulazione di un giudizio di responsabilità nei confronti di D.V..

Si consideri, in proposito, che il nucleo probatorio essenziale del giudizio di responsabilità penale formulato nei confronti dell'imputato è costituito dalle dichiarazioni accusatorie del sergente maggiore B.R., che, pur dovendo essere valutate con le opportune cautele processuali, dovute al suo interesse all'esito del procedimento e alla situazione di tensione che caratterizzava i suoi rapporti personali con il ricorrente, rappresentavano un elemento probatorio idoneo e sufficiente a consentire di ritenere il ricorrente responsabile del reato ascrittogli ex art. 222 c.p.m.p., art. 47 c.p.m.p., comma 1, nn. 2 e 5.

La persona offesa, peraltro, nell'immediatezza dei fatti, provvedeva a redigere una relazione di servizio che consegnava ai suoi superiori gerarchici, nella quale si precisava che il litigio con l'imputato era stato causato da una discussione insorta a causa della patologia che aveva causato la morte del suocero del ricorrente - U.S., che era deceduto per la sclerosi laterale amiotrofica da cui era affetto -, che sfociava nell'aggressione fisica oggetto di contestazione, così descritta dalla vittima: "Vedo il S.M. D.V. avventarsi su di me fisicamente, nel mentre mi sollevo subito dal letto cercando di dissuaderlo verbalmente e nel rendermi conto che mi stava arrivando un pugno al viso allungo il braccio per cercare di allontanarlo".

Le accuse di B.R., al contempo, risultavano riscontrate dalle dichiarazioni rese dai testi P.S., D.G.B., M.M. e C.M., grazie alle quali si ricostruivano le diverse fasi attraverso cui si era sviluppata l'aggressione in danno della persona offesa, confermando l'assunto accusatorio e smentendo, per converso, la prospettazione difensiva, incentrata sull'insussistenza delle condotte contestate al ricorrente. La Corte militare di appello di Roma, in particolare, evidenziava che la versione dell'aggressione fornita da B. era corroborata dalle dichiarazioni testimoniali acquisite nella prima fase delle indagini preliminari - e soprattutto dalla testimonianza del tenente C. -, secondo cui l'imputato, dopo lo scontro verbale verificatosi all'interno del punto di ristoro della base militare italiana, aveva raggiunto la persona offesa nel suo alloggio, dove, dapprima, l'aveva spintonata e, successivamente, l'aveva colpita al volto, sferrandole un pugno.

In questa cornice probatoria, non può non richiamarsi conclusivamente la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude l'applicazione della regola generale dell'art. 192 c.p.p. alle dichiarazioni delle persone offese dal reato, affermando: "Le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3 non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone" (Sez. U, n. 4161 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214-01).

Le considerazioni esposte impongono di ribadire l'inammissibilità del primo motivo di ricorso.

4. Analogo giudizio di inammissibilità deve essere espresso per il secondo motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento all'art. 727 c.p.p., conseguente al fatto che gli elementi probatori erano stati acquisiti nel corso delle indagini preliminari in violazione delle disposizioni preposte all'espletamento delle rogatorie internazionali, la cui applicazione si imponeva in conseguenza del fatto che gli accadimenti criminosi si erano verificati in territorio straniero - essendosi concretizzati in (OMISSIS), all'interno della base militare italiana di (OMISSIS) - e che, in tale contesto territoriale estero, si erano svolti gli accertamenti investigativi, coordinati dal colonnello D.R.E..

Nella base militare italiana di (OMISSIS), in particolare, l'imputato e la persona offesa - che rivestivano il grado di sergente maggiore dell'Esercito Italiano, presso il (OMISSIS) - si trovavano nel momento in cui si verificavano gli accadimenti criminosi, intorno alle ore 1.35 del (OMISSIS), operando i due militari nel contesto della missione militare internazionale di pace denominata "(OMISSIS)".

Tanto premesso, deve rilevarsi che la questione sollevata dalla difesa del ricorrente pone il problema della disciplina applicabile nelle ipotesi in cui le condotte illecite di cui si controverte riguardano reati militari e risultano commesse da militari, appartenenti all'Esercito Italiano, operanti in uno Stato straniero, in conseguenza di una missione militare internazionale di pace, per inquadrare il quale occorre richiamare preliminarmente le previsioni normative degli artt. 17, 18, 19 e 20 c.p.m.p. - rispettivamente dedicate, la prima, ai "Reati commessi in territorio estero di occupazione, di soggiorno o di transito", la seconda, ai "Reati commessi in territorio estero", la terza, alle "Materie regolate da altre leggi penali militari", la quarta, alla "Applicazione della legge penale militare di guerra nello stato di pace" -, che appare opportuno esaminare nel rispetto della sequenza codicistica. Tale ricognizione preliminare si rende indispensabile per comprendere se le attività d'indagine svolte dagli ufficiali di polizia giudiziaria militare della base italiana di (OMISSIS), sotto il coordinamento del colonnello D.R.E., sono state compiute nel rispetto della disciplina funzionale a regolamentare le ipotesi di reati commessi all'estero da militari appartenenti all'Esercito Italiano, laddove la presenza del soggetto attivo del reato nel territorio straniero trae origine da una missione militare internazionale di pace in corso di svolgimento.

Dispone, in particolare, l'art. 17 c.p.m.p.: "La legge penale militare si applica alle persone che vi sono soggette, anche per i reati commessi in territorio estero di occupazione, soggiorno o transito delle forze armate dello Stato, osservate le convenzioni e gli usi internazionali".

Tale disposizione deve essere integrata dalla previsione dell'art. 18 c.p.m.p., che prevede: "Fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, per i reati commessi in territorio estero, le persone soggette alla legge penale militare sono punite secondo la legge medesima, a richiesta del Ministro competente ai termini dell'art. 260".

Occorre richiamare ulteriormente l'art. 19 c.p.m.p. che stabilisce: "Le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate dalla legge penale militare di guerra e da altre leggi penali militari, in quanto non sia da esse stabilito altrimenti".

Infine, questa ricognizione preliminare sulle norme applicabili ai casi di reati militari commessi all'estero da militari italiani impegnati in missioni internazionali di pace, deve essere completata con il richiamo dell'art. 20 c.p.m.p., a tenore del quale: "La legge determina i casi, nei quali la legge penale militare di guerra si applica nello stato di pace".

4.1. Queste disposizioni generali, a loro volta, devono essere integrate dalle norme contenute nella L. 21 luglio 2016, n. 145, recante "Disposizioni concernenti la partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali", con cui si è introdotta una disciplina organica delle missioni militari internazionali di pace svolte dall'Esercito italiano all'estero.

L'ambito di applicazione di tale disciplina, in particolare, è stabilito dalla L. n. 145 del 2016, art. 1, comma 1, che stabilisce: "Al di fuori dei casi di cui all'art. 78 Cost. e art. 87 Cost., comma 9, la partecipazione delle Forze armate, delle Forze di polizia ad ordinamento militare o civile e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene o comunque istituite in conformità al diritto internazionale, comprese le operazioni militari e le missioni civili di polizia e per lo Stato di diritto dell'Unione Europea, nonchè a missioni finalizzate ad eccezionali interventi umanitari, è consentita, in conformità a quanto disposto dalla presente legge, a condizione che avvenga nel rispetto dei principi di cui all'art. 11 Cost., del diritto internazionale generale, del diritto internazionale dei diritti umani, del diritto internazionale umanitario e del diritto penale internazionale".

In questa, stratificata, cornice normativa, deve rilevarsi che non è dubitabile che il Codice penale militare di pace si applica a tutti i militari che partecipano alle missioni internazionali di pace in territorio straniero, come stabilito dalla L. n. 145 del 2016, art. 19, comma 1, che ne prevede l'applicazione al soggetto "che partecipa alle missioni internazionali, nonchè al personale inviato in supporto alle medesime missioni (...)", individuando per tali ipotesi la competenza nel Tribunale militare di Roma.

Nè è possibile dubitare della competenza dell'autorità giudiziaria militare italiana a procedere per tali ipotesi di reati militari, muovendosi in questa direzione anche le disposizioni dedicate alla disciplina dell'arresto in flagranza di reato di militari che commettono un reato in territorio straniero, nel contesto di una missione internazionale di pace all'estero, contenute nella L. n. 145 del 2016, art. 19, commi 5 e 6 che smentiscono ulteriormente l'assunto difensivo, imponendo di ribadire la competenza dell'autorità giudiziaria militare a procedere nelle ipotesi di condotte illecite analoghe a quelle in esame.

Dispone, in particolare, la L. n. 145 del 2016, art. 19, comma 5: "Nel corso delle missioni internazionali gli ufficiali di polizia giudiziaria militare procedono all'arresto, oltre che negli altri casi previsti dalla legge, di chiunque è colto in flagranza dei reati militari di cui all'art. 173 c.p.m.p., comma 2, art. 174 c.p.m.p., art. 186 c.p.m.p. e art. 195 c.p.m.p., comma 2". Tale disposizione deve essere esaminata in correlazione con la norma contenuta nel comma successivo, nella cui prima parte, a ulteriore conferma della competenza dell'autorità giudiziaria militare italiana a procedere nel caso di reati commessi da militari italiani partecipanti a missioni di pace all'estero, si prevede: "Nei casi di arresto in flagranza o di fermo compiuti nel corso delle missioni internazionali, qualora le esigenze operative non consentano che l'arrestato o il fermato sia posto tempestivamente a disposizione dell'autorità giudiziaria militare, l'arresto o il fermo mantiene comunque la sua efficacia purchè il relativo verbale pervenga, anche con mezzi telematici, entro quarantotto ore al pubblico ministero e l'udienza di convalida si svolga, con la partecipazione necessaria del difensore, nelle successive quarantotto ore (...)".

Ne discende che, per le ipotesi di condotte illecite commesse da militari italiani che partecipano a una missione militare internazionale di pace all'estero, nel territorio dello Stato straniero dove il contingente si trova, deve ribadirsi la competenza del Tribunale militare di Roma, che - fatti salvi, naturalmente, i casi in cui i comportamenti criminosi siano potenzialmente idonei a pregiudicare gli interessi dello Stato straniero - dovrà giudicare l'imputato sulla base delle attività investigative svolte dalla polizia giudiziaria militare italiana, che procederà nei confronti del soggetto indagato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 17, 18, 19, 20 c.p.m.p. e L. n. 145 del 2016, art. 19.

Risulta, pertanto, smentito l'assunto difensivo, secondo cui, solo in presenza di specifici accordi interstatuali tra l'Italia e il (OMISSIS), non riscontrabili nel caso in esame, era consentito lo svolgimento di attività d'indagine in territorio straniero da parte della polizia giudiziaria militare italiana, con la conseguenza che gli atti istruttori attraverso i quali si erano ricostruiti gli accadimenti criminosi dovevano ritenersi inutilizzabili e non potevano essere sanati per effetto del rito abbreviato con cui si procedeva nei confronti di D.V.G..

4.2. Le considerazioni esposte impongono di ribadire l'inammissibilità del secondo motivo di ricorso.

5. Per queste ragioni, il ricorso proposto da D.V.G. deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle Ammende, determinabile in tremila Euro, ai sensi dell'art. 616 c.p.p..
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di tremila Euro alla Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2021
Avv. Antonino Sugamele

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