Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Militare Trapani

Sentenza

In tema di accesso abusivo ad un sistema informatico, ai fini della configurabil...
In tema di accesso abusivo ad un sistema informatico, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all'art. 615-ter, comma secondo, n. 1 cod. pen. non è sufficiente la mera qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del soggetto attivo, ma è necessario che il fatto sia commesso con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione, di modo che la qualità soggettiva dell'agente abbia quanto meno agevolato la realizzazione del reato.
Cass. pen. Sez. V Sent., 20/11/2020, n. 72 (rv. 280144-01)
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MICCOLI Grazia - Presidente -

Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere -

Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere -

Dott. BRANCACCIO Matilde - Consigliere -

Dott. RICCARDI Giuseppe - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.B.N., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 20/05/2019 della Corte di Appello di Brescia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE RICCARDI;

lette le richieste scritte ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Loy Francesca, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità dei ricorsi;

lette le richieste del difensore della parte civile, Avv. Maria Bianca Momoli, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso e ha depositato nota spese.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza emessa il 20/05/2019 la Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza del Tribunale di Mantova del 13/02/2018, che aveva assolto P.B.N. dai reati di cui all'art. 615 ter, comma 2, n. 1 (capo A), art. 617, comma 2, n. 1 (capo B) e art. 393 c.p. (capo C), ha condannato l'imputato alla pena di 1 anno e 1 mese di reclusione per il reato di accesso abusivo a sistema informatico (capo A), per essersi ripetutamente introdotto nel sistema telematico del "(OMISSIS)", del quale era precedentemente socio di fatto, accedendo all'account di posta elettronica della ditta.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di P.B.N., Avv. Luca Faccin, deducendo quattro motivi di ricorso.

2.1. Con un primo motivo deduce la violazione di legge nonchè la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per la mancanza dell'elemento oggettivo e soggettivo.

Nel richiamare ampi estratti della sentenza impugnata, il ricorrente contesta la pertinenza dei richiami giurisprudenziali, asseritamente riferibili a fattispecie concrete differenti, e sostiene la legittimità degli accessi alla posta elettronica della ditta, di cui era socio di fatto; contesta, infatti, che vi sia stata una esclusione dalla società o una liquidazione della quota, in quanto la restituzione dei 2500 Euro costituiva soltanto la restituzione del finanziamento soci; essendo all'epoca ancora socio, P. aveva dunque il diritto di accedere alla posta elettronica della ditta.

Sostiene inoltre che la password, dopo un cambiamento eseguito dalla C. il 30.11.2014, era stata ripristinata, e la persona offesa non aveva più provveduto a mutare la password dell'account, come avrebbe potuto fare; manca dunque un accesso abusivo, in quanto i messaggi di posta elettronica venivano scaricati automaticamente sui dispositivi del P..

Ne consegue che la C. non aveva mai manifestato al P. un dissenso all'accesso alla posta elettronica della ditta, nè aveva esercitato lo ius excludendi modificando la password, così mancando il requisito della abusività.

2.2. Con un secondo motivo sostiene che manchi il dolo dell'accesso abusivo, in quanto l'imputato ha sempre agito nella sua ritenuta veste di socio di fatto della società, ed un eventuale errore non consentirebbe l'enucleazione di una responsabilità penale.

2.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2, riferita al reato di cui al capo c), in quanto la sentenza di appello aveva ritenuto sussistente soltanto il reato di cui al capo a), confermando l'assoluzione per gli altri reati contestati; contesta altresì la sussistenza dell'aggravante della violazione dei doveri inerenti alla funzione di pubblico ufficiale di cui all'art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1 a nulla rilevando che l'imputato sia un Carabiniere, la cui funzione risulta estranea al fatto contestato.

2.4. Con un quarto motivo lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è nel suo complesso infondato, ad eccezione del motivo concernente l'aggravante della violazione dei doveri inerenti alla funzione di pubblico ufficiale di cui all'art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1.

2. I primi due motivi di ricorso, concernenti la fattispecie oggettiva e soggettiva del reato di accesso abusivo, sono inammissibili, in quanto si limitano a riproporre una ricostruzione alternativa dei fatti, alla stregua della versione dell'imputato, già valutata e ritenuta infondata dalla sentenza di appello, con la quale il ricorrente omette un concreto confronto argomentativo.

2.1. Giova premettere che, secondo la ricostruzione dei fatti accertata dai giudici di merito - che pure ne hanno valutato diversamente la rilevanza penale -, P.B. - carabiniere in servizio - e C.P. avevano intrapreso nell'ottobre del 2013 un'attività imprenditoriale avente ad oggetto la realizzazione di opere grafiche digitali; la C. risultava l'unica titolare della ditta individuale "(OMISSIS)", ma entrambi erano soci, e, in tale qualità, avevano versato 2.500,00 Euro come fondo cassa, oltre ad un finanziamento ottenuto dalla donna; i due soci aprivano presso Aruba il dominio (OMISSIS), cui era collegato l'account (OMISSIS); al momento della registrazione, veniva indicato, quale indirizzo e-mail di recupero password quello del P., che aveva provveduto alla registrazione; la posta inviata al laboratorio, dunque, veniva ricevuta e scaricata sui dispositivi personali di entrambi i soci.

Nell'autunno del 2014, tuttavia, in seguito ad una serie di dissidi personali, la C. concordava con il P. la cessazione della società di fatto, al quale restituiva altresì la somma di Euro 2.500,00 inizialmente versata. Il 27 ottobre 2014 la C. modifica la password di accesso alla posta elettronica; il giorno successivo il P., non potendo più accedervi, telefonava manifestando il proprio disappunto, e provvedeva a sua volta a modificare nuovamente la password, grazie al fatto che il proprio account era l'indirizzo di recupero password; la sera stessa si incontravano, e P. ripristinava l'originaria password, così consentendo alla C. di accedere alla posta; verso la metà di novembre 2014 la C. chiedeva al P., tra l'altro, di restituire i dati di accesso al dominio Aruba, ma quest'ultimo opponeva un diniego ("ti arrangi", "adesso vedi cosa ti combino"); il 30 novembre 2014, infine, alla presenza di due testimoni, C. consentiva al P. di scaricare su una chiavetta USB dei file personali dal PC del laboratorio, e P. indicava dove e come modificare i dati di accesso relativi all'amministratore di sistema.

Nel marzo 2015, tuttavia, la C. apprendeva che P. aveva ancora accesso alle mail indirizzate al laboratorio: R.R., amica del P. e cliente della C., aveva infatti commissionato un lavoro a quest'ultima tramite posta elettronica, e il P., chiedendole se si fosse rivolta alla C. per dei lavori, allegava lo screen-shot della mail scambiata tra l'amica ed il laboratorio; pertanto, la R. riferiva l'accaduto alla C., che, quando era divenuta amministratore del sistema fin dall'incontro del 30 novembre 2014, aveva provveduto a cambiare soltanto la password del sistema, non anche quella relativa all'indirizzo mail; sicchè il P., che non aveva cancellato l'account del laboratorio grafico dai propri dispositivi, continuava a ricevere e leggere la corrispondenza telematica dello stesso.

2.2. Tanto premesso, il ricorrente ha essenzialmente contestato la sussistenza del reato, sostenendo che gli accessi alla posta elettronica del laboratorio erano leciti, in quanto egli era (o si riteneva) ancora socio di fatto della società.

Tali doglianze sono inammissibili, in quanto sollecitano, in realtà, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sulla base di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944); infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di motivazione e della violazione di legge, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., sono ictu oculi dirette a richiedere a questa Corte un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).

In particolare, con le censure proposte il ricorrente non lamenta una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica - unici vizi della motivazione proponibili ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), ma una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asserita mente sbagliata in merito alla persistente qualità di socio dell'imputato e, di conseguenza, alla abusività degli accessi.

Il controllo di legittimità, tuttavia, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicchè il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.

Pertanto, nel rammentare che la Corte di Cassazione è giudice della motivazione, non già della decisione, ed esclusa l'ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio, va al contrario evidenziato che la sentenza impugnata ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.

Le doglianze sono altresì manifestamente infondate, essendo pacifico che, nel caso di accesso abusivo ad una casella di posta elettronica protetta da "password", è configurabile il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico (Sez. 5, n. 18284 del 25/03/2019, Zumbo, Rv. 275914), e che, in tema di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico ex art. 615-ter c.p., non rileva la circostanza che le chiavi di accesso al sistema informatico protetto siano state comunicate all'autore del reato, in epoca antecedente rispetto all'accesso abusivo, dallo stesso titolare delle credenziali, qualora la condotta incriminata abbia portato ad un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante l'eventuale ambito autorizzatorio (Sez. 5, n. 2905 del 02/10/2018, dep. 2019, B, Rv. 274596, in una fattispecie, peraltro analoga a quella in esame, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza di condanna dell'imputato che, dopo aver acceduto al profilo "facebook" della ex moglie avvalendosi delle credenziali a lui note, aveva preso conoscenza delle conversazioni riservate della donna e aveva poi cambiato la "password" al fine di impedirle di accedere al "social network").

Pertanto, appare del tutto pretestuosa la deduzione del P. in ordine alla sua qualità di socio della società di fatto cui era riferibile il dominio del predetto sistema informatico: dalla sentenza impugnata emerge chiaramente come, in seguito ai dissidi verificatisi nell'autunno del 2014, l'intento del P. fosse stato quello di escludersi dall'attività, lasciando che la C. continuasse da sola l'impresa; l'asserita persistenza della qualità di socio del P. è dunque smentita dalle chiare risultanze probatorie, che non possono essere valutate diversamente in sede di legittimità.

Ciò posto, correttamente la Corte territoriale ha ascritto il reato di accesso abusivo al sistema informatico all'odierno ricorrente, a fronte della chiara volontà della persona offesa di escluderne l'accesso, manifestata sia attraverso la predisposizione di una password (di cui ha richiesto di rientrare in possesso), sia attraverso la esplicita volontà, chiarita sin dall'incontro dell'ottobre 2014, in cui la C. lo aveva diffidato dall'accedere alla posta elettronica della ditta individuale di cui era titolare.

Al riguardo, la sentenza appare conforme al consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 615 bis c.p., l'accesso abusivo ad un sistema informatico consiste nella obiettiva violazione delle condizioni e dei limiti risultanti dalle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne l'accesso, compiuta nella consapevolezza di porre in essere una volontaria intromissione nel sistema in violazione delle regole imposte dal "dominus soci", a nulla rilevando gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato tale accesso (Sez. 5, n. 33311 del 13/06/2016, Salvatorelli, Rv. 267403); integra il delitto di cui all'art. 615-ter c.p. la condotta di colui che acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto, violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare dell'elaboratore per delimitarne oggettivamente l'accesso (Sez. 2, n. 52680 del 20/11/2014, Morleo, Rv. 261548).

Anche il motivo con cui si contesta la sussistenza del dolo è manifestamente infondato, poichè, secondo quanto evidenziato dalla sentenza impugnata conformemente agli esiti dell'istruttoria dibattimentale, nel momento in cui la teste R. aveva chiesto al P. come facesse a sapere delle fotografie (che costei inviava all'indirizzo di posta elettronica abusivamente controllato dal P.), costui aveva risposto inviando lo screen-shot del messaggio di testo, precisando che non le avrebbe rivelato come ne fosse in possesso, altrimenti il "giochino" sarebbe finito, evidentemente consapevole della abusività degli accessi e temendo di essere scoperto nella sua attività abusiva di captazione della corrispondenza telematica collegata al dominio della ditta.

Proprio tale rilievo evidenzia la assoluta pretestuosità della deduzione del P. e la piena consapevolezza dell'abusività della propria condotta, dovendosi perciò concludere in ordine alla sussistenza tanto dell'elemento oggettivo, quanto di quello soggettivo del reato di cui all'art. 615 ter c.p..

3. Il terzo motivo, limitatamente alla contestazione dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2, è manifestamente infondato, essendo evidente che il Giudice di Appello ha ritenuto sussistente soltanto l'ipotesi aggravata di cui all'art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1, riferendosi alla violazione dei doveri inerenti alla funzione del pubblico ufficiale essendo il P. appartenente all'Arma dei Carabinieri, mentre l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2 non è stata in alcun modo considerata, avendo confermato l'assoluzione per i reati di cui ai capi b) e c); il motivo di ricorso è, dunque, inammissibile, posto che non è stato operato alcun aumento di pena per l'aggravante del nesso teleologico.

4. E' invece fondato il motivo concernente la circostanza aggravante di cui all'art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1, che è stata ritenuta sussistente, in maniera sostanzialmente assertiva, sulla base della mera circostanza che il P., carabiniere in servizio, avesse fatto accesso più volte all'indirizzo di posta elettronica del laboratorio, sia dal cellulare che dal computer che aveva in uso in caserma, anche durante l'orario di lavoro.

La circostanza aggravante, tuttavia, risulta fondata non già sulla mera qualità di pubblico ufficiale dell'agente, bensì sull'"abuso dei poteri" o sulla "violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio": analogamente a quanto previsto con riferimento all'aggravante comune di cui all'art. 61 c.p., n. 9, ciò che aggrava il reato non è nè la qualità rivestita dal soggetto agente, nè l'abuso di tale qualità, bensì l'abuso dei poteri - l'uso del potere per fini diversi da quelli collegati alle attribuzioni pubbliche - e la violazione degli specifici doveri ad esso inerenti, con la conseguenza che la posizione qualificata del soggetto attivo deve avere quantomeno agevolato il reato.

Nel medesimo senso si è espressa la giurisprudenza di questa Corte a proposito dell'aggravante comune di cui all'art. 61 c.p., n. 9, ritenuta configurabile se la commissione del fatto è stata anche soltanto agevolata dalle qualità soggettive dell'agente, non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra i poteri oggetto dell'abuso o i doveri violati ed il compimento del reato (Sez. 5, n. 9102 del 16/10/2019, dep. 2020, Davì, Rv. 278662; Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, F, Rv. 273531: "Sussiste la circostanza aggravante della commissione del fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n. 9, se la commissione del fatto è stata anche soltanto agevolata dalle qualità soggettive dell'agente, non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato").

Tanto premesso, nel caso in esame non risulta che le condotte reiterate di accesso abusivo al sistema informatico siano state poste in essere dall'imputato con abuso dei poteri pubblici o con violazione degli specifici doveri inerenti alla funzione o al servizio di carabiniere, non essendo sufficiente, ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante, la mera qualità di pubblico ufficiale rivestita; la condotta dell'imputato, infatti, risulta circoscritta alla sfera privata del medesimo, senza che sia possibile enucleare una connessione finalistica, nè occasionale, tra le funzioni di carabiniere e gli accessi abusivi reiterati ai danni della ex socia.

5. Il quarto motivo, concernente il diniego delle attenuanti generiche, è inammissibile.

In primo luogo, le attenuanti non sono state neppure richieste dalla difesa in sede di giudizio di appello (come si dà atto a pag. 15 della sentenza impugnata), e la concessione o il diniego delle circostanze attenuanti generiche costituiscono l'esplicazione di un potere discrezionale del giudice del merito, il quale non è tenuto in particolare a motivare il diniego ove, in sede di conclusioni, non sia stata formulata specifica istanza con l'indicazione delle ragioni atte a giustificarne il riconoscimento (Sez. 3, n. 26272 del 07/05/2019, Boateng, Rv. 276044).

In secondo luogo, premesso che il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269), va ribadito che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986).

Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha evidenziato l'assenza di elementi favorevoli valutabili ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche.

Sicchè la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità, che, pertanto, è insindacabile in cassazione (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419).

6. Ne consegue che, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Brescia per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

Al rigetto del ricorso nel resto consegue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.

Esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1, annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Brescia per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2021
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza