La natura giuridica delle R.O.E. - Missioni all'estero assoggettate alla novellata legislazione penale di guerra: il problema dell'applicabilità delle esimenti previste dal codice penale militare di pace e l'alternativa della "riespansione"delle esimenti del codice Rocco
MISSIONI MILITARI ALL'ESTERO, REGOLE DI INGAGGIO E CAUSE DI NON PUNIBILITA' CODIFICATE NELLA LEGISLAZIONE PENALE COMUNE E MILITARE
L. 14-11-2000, n. 331, cost. art. 11
Tracciare una linea di demarcazione tra condotte lecite e penalmente significative - legate all'utilizzo delle armi - in astratto realizzabili dai militari italiani impegnati in missioni internazionali, appare operazione di non facile attuazione, ciò in considerazione delle molteplici fonti normative, interne ed internazionali, cui risultano assoggettati gli appartenenti alle Forze Armate all'estero. A ciò, inoltre, deve aggiungersi la commistione - non sconosciuta all'ordinamento militare - tra fonti esterne e fonti interne (circolari, direttive, pacchetti di ordini, ecc.), a volte causa di "malintesi" sulla stessa operatività del principio di legalità, come sembra avvenire per le c.d. regole d'ingaggio (R.O.E.), ovvero quelle regole disciplinanti l'uso e l'impiego delle armi nelle missioni militari e che, a causa dei cennati "malintesi", rischiano di operare quali cause di non punibilità.
Sommario: La natura giuridica delle R.O.E. - Missioni all'estero assoggettate alla novellata legislazione penale di guerra: il problema dell'applicabilità delle esimenti previste dal codice penale militare di pace e l'alternativa della "riespansione"delle esimenti del codice Rocco
La natura giuridica delle R.O.E.
Con le riflessioni che seguono si intende soffermare l'attenzione sull'individuazione dei limiti all'uso della forza-utilizzo delle armi cui sono assoggettati i militari italiani impegnati in missioni pacificatrici (e similari) all'estero.
Indagine, che, senza pretese di completezza, appare utile per tentare di tracciare una linea di demarcazione tra condotte lecite e penalmente significative - legate all'utilizzo delle armi - in astratto realizzabili dagli appartenenti alle Forze Armate italiane nell'adempimento dei propri doveri di servizio nelle operazioni de quibus.
Tematica, questa, che si intreccia - ma che in questa sede vuol mantenersi sullo sfondo - con quella più ampia relativa al ripudio della guerra-uso della forza come contemplato dall'art. 11 Cost. e dal diritto internazionale pattizio e consuetudinario e che sovente, anche in occasione dell'invio del contingente militare italiano in Iraq nonché della proroga della relativa missione, produce contrapposti indirizzi ermeneutici (1).
I limiti all'uso della forza e delle armi, da parte dei militari italiani all'estero, risultano dalle cosiddette regole d'ingaggio (R.O.E.) ovvero quelle disposizioni "che specificano le circostanze e i limiti entro cui le forze possono iniziare o continuare il combattimento con quelle contrapposte" (2).
Appare interessante, allora, interrogarsi sui rapporti intercorrenti tra tali regole d'ingaggio ed altre disposizioni dell'ordinamento italiano, applicabili ai militari all'estero, con particolare riferimento a quelle codificanti cause di non punibilità a fronte della commissione di fatti di reato.
In particolare, la problematica che si pone è: possono le R.O.E. prevedere un uso della forza più "elastico" (3) rispetto a quello consentito - ricorrendo determinate condizioni - dalla normativa penale in materia di uso legittimo di armi, legittima difesa individuale, etc. (4)? Oppure vi è coincidenza, con la conseguenza che soltanto al ricorrere dei presupposti previsti dalle norme penalistiche ed alle condizioni dalle medesime stabilite, i soldati italiani, nel caso di uso della forza armata, non sconfineranno nell'area del penalmente rilevante?
Evidentemente, la risposta agli interrogativi presuppone una previa indagine sulla natura giuridica delle R.O.E., ciò per valutare la loro "posizione" nell'ambito delle fonti dell'ordinamento.
Soltanto, infatti, nell'ipotesi in cui le R.O.E. risultassero rivestire il grado di una fonte normativa pari a quella della legislazione sulle cause di non punibilità, potrebbe in astratto essere ritenuta ammissibile una regolamentazione derogatoria, con l'effetto che le regole d'ingaggio sarebbero idonee, in sostanza, a scriminare condotte che, invero, non ricadrebbero nell'ambito operativo delle già codificate cause di esenzione dalla pena.
Diversamente, però, qualora le R.O.E. venissero configurate quali fonti subordinate alla legge, non potendosi evidentemente ammettere deroghe alla stessa da parte di una fonte sottordinata, le regole d'ingaggio non potranno che "doppiare", quanto ad ampiezza e limiti, gli elementi contenutistici previsti dalle varie cause di non punibilità codificate, ricadendo, dunque, nell'area del penalmente apprezzabile, tutte quelle condotte criminose in queste ultime non "ricomprese".
Sembra maggiormente condivisibile la seconda opzione interpretativa, configurandosi le R.O.E., in realtà, quali atti amministrativi-ordini gerarchici.
Per la dimostrazione di tale assunto occorre brevemente richiamare la normativa disciplinante l'invio all'estero dei contingenti militari italiani.
Al proposito devono essere menzionate due fondamentali previsioni legislative.
Si tratta, in particolare, dell'art. 1, comma 1, l. 14 novembre 2000, n. 331, rubricato "Compiti delle Forze Armate", che menziona, tra gli altri, il compito di "operare al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità alle regole del diritto internazionale ed alle determinazioni delle organizzazioni internazionali delle quali l'Italia fa parte" e dell'art. 1, comma 1, lett. a), della l. 18 febbraio 1997, n. 25, a norma del quale il Ministro della Difesa "attua le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte all'esame del Consiglio Supremo di difesa e approvate dal Parlamento".
Occorre evidenziare, inoltre, che la Commissione Difesa della Camera dei Deputati, con la risoluzione n. 7-1007 del 16 gennaio 2001, ha apportato ulteriori elementi di precisazione al vigente quadro normativo specificando, con riferimento all'indicato procedimento decisionale, la necessità di quattro passaggi procedurali: 1) una deliberazione governativa con conseguente informativa alle Camere; 2) l'approvazione da parte delle due camere della deliberazione governativa; 3) seguito governativo alla delibera parlamentare tramite presentazione di un disegno di legge o emanazione di un decreto-legge contenente la copertura finanziaria della missione; 4) adozione delle disposizioni attuative da parte della amministrazione militare.
A rigore, pertanto, il Ministro della Difesa, nell'ambito delle proprie attribuzioni nella materia concernente l'invio all'estero dei militari italiani - per le finalità previste dalla legge suddetta - provvede ad eseguire, in via amministrativa, le deliberazioni dell'Esecutivo sottoposte all'esame del Consiglio Supremo di Difesa, approvate dall'assemblea parlamentare (nella prassi mediante un atto non legislativo), necessitando a monte, in ogni caso, che l'adottanda decisione sia conforme al diritto internazionale e alle determinazioni di quelle organizzazioni internazionali cui lo Stato Italiano appartiene (5).
Ora, essendo il Ministro della Difesa il massimo organo gerarchico e disciplinare preposto all'Amministrazione militare, come sancito dall'art. 1, l. n. 25/1997 (6), appare indiscutibile che i provvedimenti dallo stesso adottato in materia di missioni all'estero rappresentino ordini gerarchici.
Più nel dettaglio va specificato che le R.O.E., verosimilmente elaborate dall'Autorità politica nell'ambito del primo passaggio procedurale sopra indicato (deliberazione governativa), è vero che necessitano di essere approvate dall'assemblea parlamentare, ma siffatta approvazione non è disposta con un atto legislativo, bensì con un atto di indirizzo (risoluzione) (7).
Successivamente, pertanto, sarà il Ministro della Difesa (ed il relativo staff) a tradurre, anche tecnicamente, dette R.O.E. in provvedimenti vincolanti per le truppe, sotto forma, appunto, di ordini gerarchici vincolanti.
Ma se così è, allora, dovendo gli ordini gerarchici essere conformi alla legge, come previsto dall'art. 4, l. n. 382/1978 (8), appare chiaro che le R.O.E. non potranno derogare ai presupposti ed ai limiti contenuti nelle disposizioni in materia di esimenti codificate.
Così, ad esempio, quanto all'utilizzo legittimo delle armi, non potrà essere ipotizzato un impiego di armamenti a scopo preventivo, unilaterale ed offensivo, dovendosi invece rispettare il disposto dell'art. 41 c.p.m.p. che postula la "necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza".
Allo stesso modo, l'operatività della norma sulla legittima difesa ex art. 52 c.p., nel caso di commissione di reati comuni (non militari) nell'ambito di quelle missioni assoggettate al codice penale militare di pace (9), sarà subordinata al ricorrere di una situazione "aggressiva" (il presentarsi di un pericolo attuale di un'offesa ingiusta) che rende necessario difendere un diritto proprio od altrui e sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.
Ne consegue che l'adozione di regole d'ingaggio autorizzanti, ad esempio, un uso delle armi anche in termini più ampi di quelli previsti dall'art. 41 c.p.m.p. ovvero in termini sproporzionati a fronte di pericoli non attuali, etc., non sarebbe ipotizzabile, pena la violazione del principio di legalità, con tutte le conseguenze in termini di legittimità o meno degli ordini gerarchici impartiti in tal senso, fonte di "conflitti" di doveri in capo al singolo militare. Si rammenta, infatti, che l'art. 4, l. 11 luglio 1978, n. 382, contempla, nel caso di ordine manifestamente criminoso o rivolto contro le Istituzioni dello Stato (rectius contro i precetti fondamentali della carta costituzionale), un'ipotesi di disobbedienza proprio quale strumento per ottemperare al fondamentale dovere di fedeltà.
In definitiva, l'esecutore di un ordine conforme a regole d'ingaggio di tipo "elastico", rischierebbe di vedersi imputato un fatto di reato in concorso con il superiore gerarchico, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 25, comma 2, d.P.R. n. 545/1986 (10) o, più in generale, la ricorrenza di un error facti(11) o iuris(12) e ferma restando, in questo ultimo caso, la possibilità di attribuire il fatto a titolo di colpa sempreché il reato sia previsto anche nella forma colposa.
Come si è tentato altrove di prospettare (13), è, probabilmente, al contesto necessariamente "non bellico" (ex art. 11 Cost.), all'interno del quale i militari si trovano ad operare, da imputare l'assoggettamento dell'appartenente alle Forze Armate ad uno statuto penale che paradossalmente lo espone a conseguenze di non poco momento.
In altri termini, è proprio il precetto costituzionale anzidetto che, imponendo un uso della forza militare in termini non di offesa/aggressione, inibisce, a monte, una regolamentazione derogatoria (utilizzo degli armamenti anche in chiave preventiva), invece paventabile, o meglio, necessitata, in una situazione di emergenza bellica laddove si agisce in ottemperanza del sacro dovere di difesa della Patria ex art. 52, comma 1, Cost.
Più nel dettaglio, è la ricorrenza dell'emergenza bellica che consente l'abbattimento dei consueti limiti all'uso della forza, anche individuale, da parte dei militari, senza che vengano in discussione problemi legati alla rilevanza penale di condotte poste in essere non soltanto per autodifesa (14).
In contesti non bellici, invece, continua a trovare applicazione lo statuto penale "ordinario" con le possibili conseguenze sopra ipotizzate (15).
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Risolto nel senso della "coincidenza" il problema dei limiti contenutistici delle R.O.E., occorre ora affrontare un ulteriore problema: ai militari impegnati in missioni all'estero ed assoggettati al codice penale militare di guerra (16), possono essere applicate le esimenti previste dal codice penale militare di pace?
Il quesito è non privo di risvolti applicativi, soprattutto se si considera che alcune delle cause di non punibilità previste dalla legislazione di pace (artt. 41 e 44 c.p.m.p.) possono trovare un'applicazione ampia poiché riferibili anche alla commissione di reati comuni (non militari) realizzati da un appartenente alle Forze Armate (17).
Così, ad esempio, l'esimente dell'uso legittimo di armi, che come visto circoscrive l'ambito dell'utilizzo della forza al ricorrere di determinate circostanze, qualora venisse ritenuto non applicabile ai militari impegnati nelle missioni da ultimo ipotizzate, produrrebbe come conseguenza una "restrizione" delle cause di non punibilità concernenti il personale militare, con riduzione dei casi di legittimo uso della forza, poiché, pur potendosi paventare una riespansione dell'esimente di diritto penale comune (art. 53 c.p.), l'operatività della stessa sarebbe tuttavia preclusa dalla mancanza della qualità di pubblico ufficiale in capo agli appartenenti alle Forze Armate (18).
Il problema è che sul punto si fronteggiano differenti ricostruzioni: quella secondo cui l'applicazione della legge penale militare di guerra determinerebbe la temporanea sospensione della legge penale di pace (19), e quella per cui, stante il carattere di complementarietà della prima rispetto alla seconda, ravvisa una contemporanea vigenza dei due complessi normativi, uno dei quali, quello di guerra, contenente norme prevalenti perché speciali rispetto a quelle contenute in quello di pace e disciplinanti la stessa materia (20).
Siffatta seconda ricostruzione appare, a ben vedere, maggiormente condivisibile, ciò alla luce del diritto positivo ed in particolare in forza dell'art. 19 c.p.m.p., a norma del quale "Le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate dalla legge penale militare di guerra e da altre leggi penali militari, in quanto non sia da esse stabilito altrimenti".
Pare potersi concludere, allora, che sia nel caso di applicazione del codice penale militare di pace, sia nell'ipotesi di applicazione di quello di guerra, per il tramite della disciplina delle esimenti codificate, risulta possibile delineare il confine contenutistico delle R.O.E. ed, in particolare, la loro effettiva efficacia "esimente" (21), ciò in relazione alla commissione di fatti di reato - anche di natura non militare - nell'ambito delle missioni all'estero.
(1) Può essere rammentato che a fronte di recenti interventi normativi introduttivi di "surrogati" del concetto di guerra (cfr. art. 165 del codice penale militare di guerra come modificato dall'art. 2, l. n. 15 del 27 febbraio 2002), certa dottrina è stata indotta a paventare il ricorso all'uso della forza bellica quale evento non eccezionale e quindi affrancato dal dictum costituzionale, oramai desueto o comunque da considerarsi implicitamente abrogato. In particolare, pare porsi in tale prospettiva, G. De Vergottini, Guerra e attuazione della Costituzione, Relazione presentata al convegno "Guerra e Costituzione", Università Roma Tre, 12 aprile 2002, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; l'A., analizzando la recente normativa afferente ai concetti sostitutivi di guerra, affronta la questione di una "radicale riconsiderazione di un postulato dogmatico che si era affermato per quasi mezzo secolo: la assoluta prevalenza del valore della pace e la limitazione della partecipazione italiana a sole guerre difensive" soggiungendo che "con la guerra nel Golfo ma soprattutto con la crisi del Kosovo e poi, nella stretta attualità, con la catastrofe dell'Afghanistan ... è maturata progressivamente la consapevolezza della presenza del fenomeno bellico e il tentativo di elaborare dei concetti sostitutivi. Si tratta di conflitti che hanno posto in evidenza come sia stato superato il regime della messa al bando della guerra, legittimando il ricorso dello ius ad bellum con evidente abbandono della convinzione della assolutezza di principi che sembravano consolidati nel diritto internazionale e di riflesso in quello costituzionale". In realtà, paventare l'abrogazione tacita di una norma contemplata in una Costituzione rigida appare assunto giuridicamente insostenibile ed anzi, con precipuo riferimento all'art. 11 Cost., non sembra seriamente ipotizzabile neppure un'abrogazione espressa da parte di una norma di pari rango, ciò poiché la disposizione non può che collocarsi nell'ambito di quei principi supremi dell'ordinamento non modificabili nel loro contenuto essenziale nemmeno da leggi di revisione costituzionale (cfr., Corte cost. 29 dicembre 1988, n. 1146, in www.giurcost.it). Parlare poi di abrogazione per desuetudine di un precetto giuridico imponente un divieto appare un non senso. Se infatti la condotta vietata non viene mai posta in essere ciò è garanzia di effettività della disposizione. Viceversa se il divieto è ripetutamente e sistematicamente inosservato, non per questo, e tralasciando la natura costituzionale dello stesso, si realizza la sua estinzione; salvo ritenere che l'imposizione di un divieto giuridico rafforzi la naturale repulsa ad un comportamento, con la conseguenza che il riproporsi diffuso e sistematico dello stesso porta all'estinzione per desuetudine del divieto. Ma, a ben vedere, "i divieti giuridici e morali vengono prodotti non per consolidare tendenze generali spontanee a "non fare" qualcosa, ma, al contrario, per contrastare tendenze fortissime a "fare" proprio ciò che la norma intende vietare. Il comportamento "naturale" non è l'astensione dal comportamento vietato, ma, appunto, quel comportamento stesso" (M. Dogliani, Il valore costituzionale della pace e il divieto della guerra, Relazione presentata al convegno "Guerra e Costituzione, cit.). In altri termini, le tesi che sostengono la decostituzionalizzazione tacita dell'art. 11 alla luce di una evoluzione normativa che ha attualizzato ed aggiornato il concetto di guerra sulla scorta del dato fattuale, operano un'inaccettabile inversione logico-giuridica dei termini della questione prospettando una opinabile trasfigurazione delle violazioni in "fatti normativi".
(2) Definizione fornita dal Ministro della Difesa nella seduta del 7 novembre 2001 - Senato della Repubblica, 63^ seduta pubblica - concernente le "Comunicazioni del Governo sull'impiego di contingenti militari italiani all'estero in relazione alla crisi internazionale in atto e conseguente discussione" (in www.parlamento.it).
(3) La possibilità di un mutamento delle R.O.E. nel senso di una loro maggiore elasticità così da non costringere i militari italiani ad un atteggiamento eccessivamente arrendevole, si trova prospettata nell'intervento in Parlamento del Ministro della Difesa in data 18 luglio 2004 a seguito della morte del Caporale Vanzan (in www.difesa.it).
(4) Oltre alle esimenti previste dal codice penale del '30, si pensi all'art. 41, c.p.m.p. - Uso legittimo di armi - "Non è punibile il militare, che, a fine di adempiere un suo dovere di servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza"; art. 44, c.p.m.p. - Casi particolari di necessità militare - "Non è punibile il militare, che ha commesso un fatto costituente reato, per esservi stato costretto della necessità di impedire l'ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, la devastazione, o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell'aeromobile"; etc.
(5) Può essere altresì rilevato che la procedimentalizzazione configurata dalla l. n. 25/1997 dovrebbe trovare applicazione anche qualora venga in questione la necessità di decidere una proroga di una missione internazionale già oggetto di precedente e preventivo avallo parlamentare; d'altronde, è soltanto con l'adozione dell'anzidetto procedimento ex lege - il quale, secondo parte della dottrina, avrebbe realizzato "un vera e propria integrazione in via legislativa del complesso di norme costituzionali in tema di difesa militare e di ricorso alla forza armata" (M. Franchini, Le risoluzioni parlamentari sulla lotta al terrorismo internazionale, in Giorn. dir. amm., 2002, 321) - che si garantisce il rispetto del principio di apoliticità delle Forze Armate (art. 4, l. 11 luglio 1978, n. 382 ed art. 98, comma 3, Cost.), ciò in considerazione del fatto che la proroga della missione, se decisa con l'adozione del procedimento anzidetto, diventerebbe oggetto di una preventiva ed obbligata discussione avanti alle assemblee rappresentative del popolo, con rispetto della riserva parlamentare istituita con la normativa de qua, e sarebbe a sua volta preceduta da un intervento del Presidente della Repubblica, in ossequio alla sua veste, costituzionalmente prevista, di Comandante delle Forze Armate (art. 87, comma 9, Cost.). La prassi fino ad oggi seguita che vede, invero, l'Esecutivo adottare un decreto legge "autorizzante" la proroga della missione, sembra pertanto contrastare in primo luogo con la ratio ispiratrice del procedimento deliberativo disegnato dalla l. n. 25/1997, ciò poiché verrebbe a realizzarsi un aggiramento della catena decisionale qui prefigurata stante l'immediata precettività del decreto legge a seguito della sua pubblicazione, con violazione, dunque, della predetta riserva parlamentare in materia (in tal senso, P. Carnevale, Il ruolo del Parlamento e l'assetto dei rapporti fra Camere e Governo nella gestione dei conflitti armati. Riflessioni alla luce della prassi seguita in occasione delle crisi internazionali del Golfo persico, Kosovo e Afghanistan, Relazione presentata al convegno "Guerra e Costituzione", Università Roma Tre, 12 aprile 2002, in www.associazionedeicostituzionalisti.it). Realizzandosi, peraltro, una elusione delle esigenze di trasparenza ed attenta ponderazione che dovrebbero caratterizzare le deliberazioni in argomento, così favorendosi, invero, la prassi del "fatto compiuto". In secondo luogo la tesi sembra cozzare con la "disciplina di dettaglio" contenuta nella risoluzione n. 7-1007 la quale distingue nettamente il momento del previo consenso parlamentare sulla opportunità della missione manifestato con appositi atti di indirizzo da quello del suo finanziamento (rifinanziamento) mediante atto avente forza di legge. Assunto confermato dalla circostanza che detta risoluzione contempla l'ipotesi di una attuazione ministeriale delle deliberazioni del Governo, in materia di difesa e sicurezza, anche nel corso dell'approvazione del provvedimento legislativo (di copertura finanziaria) da parte delle Camere, ciò "a testimonianza del fatto che il circuito decisionale di cui all'art. 1, comma 1, lett. a) della l. n. 25 cit. si perfeziona al momento del primo intervento parlamentare" (P. Carnevale, Il ruolo del Parlamento, cit.), con conseguente necessità di "riattivazione" del procedimento suddetto al fine di rendere possibile una nuova valutazione, da parte di tutti i soggetti e organi istituzionali a ciò preposti, relativamente alla proroga dell'operazione militare, anche alla luce di sopravvenute circostanze.
(6) Cfr. altresì art. 12, d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, rubricato "Doveri attinenti alla dipendenza gerarchica", secondo cui "Dal principio di gerarchia derivano per il militare ... il dovere di obbedienza nei confronti del Ministro della Difesa".
(7) Ad esempio l'attuale missione in Iraq è stata autorizzata con risoluzioni della maggioranza n. 6-00065 e n. 6-00046 approvate il 15 aprile 2003 dalla Camera (308 voti a favore, 31 voti contrari e 159 astenuti) e dal Senato (153 voti a favore, 26 voti contrari e 2 astenuti), in www.parlamento.it.
(8) Art. 4, comma 4, l. 11 luglio 1978, n. 382, "Gli ordini devono, conformemente alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardante il servizio e non eccedere i compiti di istituto".
(9) Il riferimento alle missioni di pace è indotto dalla circostanza che l'art. 47 c.p.m.g., come recentemente novellato, considera reati militari un gran numero di reati comuni e pertanto nelle missioni in cui opera la disciplina del codice penale militare di guerra dovrà essere applicato, il luogo dell'art. 52 c.p., l'art. 42 c.p.m.p., come sancito dalla norma medesima (ammesso che le scriminanti codificate dalla legislazione militare di pace si applichino ai militari impegnati in missioni regolamentate dal codice penale militare di guerra stante il crisma di eccezionalità-temporaneità di tale ultimo corpus normativo, ma vedi infra).
(10) Disposizione che recita: "Il militare al quale venga impartito un ordine che non ritenga conforme alle norme in vigore deve, con spirito di leale e fattiva partecipazione, farlo presente a chi lo ha impartito dichiarandone le ragioni, ed è tenuto ad eseguirlo se l'ordine è confermato"; come ha precisato attenta dottrina, D. Brunelli, Diritto penale militare, III ed., 2002, 83, l'adozione della cautela, da parte dell'inferiore, dell'invito a ri-badire l'ordine ricevuto e ritenuto di dubbia legittimità, consentirebbe l'applicabilità dell'art. 51, ultimo comma, c.p., codificante una causa di non punibilità.
(11) Cfr. art. 51, comma 3, c.p., "Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo".
(12) Evidenzia D. Brunelli, Diritto penale militare, op. cit., 81, che in tema di error iuris sulla legge penale, per il disposto dell'art. 5 c.p., come corretto dalla Corte costituzionale, "l'errore o l'ignoranza sul precetto rilevano solo quando siano inevitabili, sicché al militare che non si rappresenti per errore o ignoranza inevitabili la qualificazione giuridico-penale del proprio comportamento il fatto sarà imputato a titolo di dolo, sia pure sulla base di un giudizio di rimproverabilità assimilabile a quello posto a fondamento dell'imputazione colposa".
(13) Sia consentito un richiamo a L. D'Angelo, Ordinamento militare, esimente dello stato di necessità e dovere di rischiare la vita, in questa Rivista, 2005, 109 ss.
(14) Fatta salva, in ogni caso, l'applicabilità delle disposizioni sullo ius in bello concernente le regole che gli Stati devono rispettare nell'esercizio della violenza bellica.
(15) Si pensi alla "battaglia dei ponti" svoltasi a Nassjria il 7 aprile 2004 per la quale sembrerebbe essere stato aperto un fascicolo presso la Procura Militare del Tribunale di Roma a seguito di esposti (cfr. Interrogazione Parlamentare n. 3-03274 del 20 aprile 2004 e relativa risposta, in www.parlamento.it).
(16) Ai militari impegnati nella missione in Iraq, in virtù del d.l. 10 luglio 2003, n. 165, convertito in l. 1° agosto 2003, n. 219, si applica il codice penale militare di guerra e l'art. 9 del d.l. 1° dicembre 2001, n. 421 convertito, con modificazioni, dalla l. 31 gennaio 2002, n. 6.
(17) Cfr. D. Brunelli, Diritto penale militare, op. cit., 84 ss., il quale osserva con proprio con riferimento all'art. 41 c.p.m.p. che la norma riguarda più lo "statuto penale" del militare, che la specifica materia del diritto penale militare.
(18) Proprio la non configurabilità della qualità di pubblico ufficiale in capo al personale militare, a meno di incarichi che attribuiscano specificatamente tale status (es. incarichi di polizia militare), ha indotto il legislatore militare del 1941 alla formulazione dell'art. 41 c.p.m.p.; in tal senso Brunelli, op. cit., 84-85.
(19) Venditti, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, I, Milano, 1995, 1 ss., tesi elaborata prima delle recenti modifiche al codice penale militare di guerra le quali, ai fini dell'applicazione del medesimo, non richiedono più la dichiarazione dello stato di guerra.
(20) D. Brunelli, op. cit., 29 ss.
(21) In pratica valutando in concreto, anche alla luce delle indicazioni giurisprudenziali offerte in sede di applicazione delle esimenti del codice Rocco, l'ampiezza e la ricorrenza dei singoli elementi costitutivi delle varie cause di non punibilità.
06-06-2021 19:34
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