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Sentenza

Sottocapo di 1^ Classe della Marina militare impugna provvedimento del Ministero...
Sottocapo di 1^ Classe della Marina militare impugna provvedimento del Ministero della Difesa - D.G.P.M.- III Divisione, che ne aveva disposto, ai sensi dell'art. 866 D.L.vo n. 66 del 2010 la perdita del grado per condanna penale per rimozione con conseguente cessazione dal servizio permanente e iscrizione d'ufficio nel ruolo dei Militari di truppa, senza alcun grado.
Consiglio di Stato, sez. II, 17 giugno 2022 n. 4993
Presidente Giancarlo Luttazi; Estensore Carla Ciuffetti; 

Svolgimento del processo e motivi della decisione
1. La sentenza in epigrafe ha respinto il ricorso dell'odierno appellante, Sottocapo di 1^ Classe della Marina militare, diretto all'annullamento: del D.M. n. 343/I-3/2016 (M D GMIL REG 2016 0483050 02-08-2016), in data 29 luglio 2016, del Ministero della Difesa - Direzione Generale per il Personale militare - III Divisione, che ne aveva disposto, ai sensi dell'art. 866 D.L.vo n. 66 del 2010 la perdita del grado per condanna penale per rimozione, con decorrenza dal -omissis-, con conseguente cessazione dal servizio permanente e iscrizione d'ufficio nel ruolo dei Militari di truppa, senza alcun grado, ai sensi degli artt. 861, co. 3, e 923, co. 1 lett. i) e co. 3 D.L.vo n. 66 del 2010; nonché del foglio prot. n. (...) in data 15 aprile 2016 del Ministero della Difesa - Direzione Generale per il Personale militare.
2. L'appellante deduce i seguenti motivi di gravame: "Erroneità dell'impugnata sentenza, difetto dei presupposti, illogicità ed ingiustizia manifesta. Carenza, insufficienza ed apoditticità della motivazione. Violazione del contenuto normativo di cui all'art. 29 c.p.m.p., dell'art. 29 c.p.m.p. dell'art. 866 del D.L.vo n. 66 del 20101 e dell'art. 923, co. 1 let. i). Erronea applicazione degli artt. 861, comma 3, 866, 867, comma 3, 923, comma 1 lettera i) e 3 del D.L.vo n. 66 del 2010 (Codice dell'Ordinamento militare), violazione del principio del "tempus regit actum" e del principio del favor rei, violazione dell'art. 9 della L. n. 19 del 1990. Violazione dell'art. 4 della Costituzione: violazione del diritto al lavoro. Illogicità irragionevolezza contraddittorietà e perplessità dell'azione amministrativa. Eccesso di potere per carenza dei presupposti, erronea valutazione dei fatti, difetto e insufficienza di istruttoria"; "Erroneità dell'impugnata sentenza. Questione di legittimità costituzionale degli artt. 866, comma 1, 867, comme 3, (stante la sussistenza dei requisiti di rilevanza e non manifesta infondatezza) per violazione del principio di eguaglianza sostanziale e con il criterio di ragionevolezza delle scelte legislative di cui agli artt. 3 e 97 Cost. nella parte in cui le predette norme prevedono la cessazione del rapporto di lavoro come automatica conseguenza (senza l'attivazione di un procedimento disciplinare) dell'applicazione in sede di condanna penale definitiva della sanzione accessoria della rimozione dal grado".
In sintesi, l'interessato, condannato in sede penale alla reclusione per 2 anni e 3 mesi con applicazione della pena accessoria della rimozione dal grado, deduce l'illegittimità dell'applicazione dell'automatismo della cessazione del servizio permanente di cui agli artt. 866 e 923 D.L.vo n. 66 del 2010. Nella fattispecie avrebbero dovuto trovare applicazione, ratione temporis e secondo il principio del favor rei, l'art. 9 L. n. 19 del 1990, che prevede che il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, nonché l'art. 29 del c.p.m.p. che consente in caso di condanna la prosecuzione del servizio.
Gli artt. 866 e 923 D.L.vo n. 66 del 2010 si rivelerebbero costituzionalmente illegittimi alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, che, con le sentenze n. 363/1996 e n. 267/2016, si è pronunciata sull'illegittimità costituzionale della previsione dell'applicazione di automatismi destitutori in mancanza di previo procedimento disciplinare. Perciò sarebbe erroneo il convincimento del Tar in merito all'insussistenza dei profili di illegittimità costituzionale evidenziati in primo grado dall'appellante.
3. L' Amministrazione si è costituita in giudizio, chiedendo il rigetto dell'appello.
4. L'istanza cautelare dell'appellante è stata respinta da questo Consiglio, "considerato che il ricorso non appare assistito da sufficienti elementi di fondatezza, anche in considerazione di quanto disposto dall'art. 866 del codice militare (la condanna definitiva cui consegue la pena accessoria della rimozione determina la perdita del grado); rilevato che la misura accessoria della rimozione è diversa da quella della interdizione temporanea oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 268/2016" (Cons. Stato, sez. IV, 15 giugno 2018, n. 2759).
5. La causa, chiamata all'udienza del 3 maggio 2022, è stata trattenuta in decisione.
6. La controversia in esame concerne la contestata applicazione: dell'art. 866 D.L.vo n. 66 del 2010, che dispone che "La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del c.p." (co. 1) e stabilisce che "I casi in base ai quali la condanna penale comporti l'applicazione della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici sono contemplati, rispettivamente, dalla legge penale militare e dalla legge penale comune" (co. 2); dell'art. 923 D.L.vo n. 66 del 2010, co. 1, lett. i), che prevede che il rapporto di impiego del militare cessi per perdita del grado.
6.1. L'appellante, con sentenza -omissis-, era stato condannato dal Tribunale militare di Napoli, Sez. I, alla pena, sospesa, di un anno e tre mesi di reclusione, per i reati di furto militare pluriaggravato in concorso e violata consegna aggravata in concorso. A seguito di appello del Pubblico Ministero, la competente Corte di Appello, con sentenza -omissis-, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, aveva condannato l'appellante alla pena di due anni e tre mesi di reclusione escludendo il beneficio della sospensione condizionale della pena nonché il beneficio della non menzione. Il ricorso in Cassazione veniva rigettato con sentenza -omissis-.
A seguito dell'impugnato foglio n. (...) in data 15 aprile 2016 del Ministero della Difesa -Direzione Generale per il Personale militare, in cui si constatava la non menzione, in nessun grado di giudizio, dell'applicazione della pena accessoria della rimozione nei confronti dell'appellante, indirizzato alla Procura Generale militare presso la Corte militare d'Appello, tale pena accessoria veniva applicata all'appellante con ordinanza in data 13 luglio 2016, n. 66.
Quindi, con l'impugnato D.M. n. 343/I-3/2016, ai sensi dell'art. 866 D.L.vo n. 66 del 2010, veniva disposta, senza giudizio disciplinare, la perdita del grado per condanna penale per rimozione, con decorrenza dal 15 marzo 2016, con conseguente cessazione dal servizio permanente del ricorrente e l'iscrizione d'ufficio nel ruolo dei Militari di truppa, senza alcun grado, ai sensi degli artt. 861, co. 3, 923, co. 1, lett. i) e 3 del Codice dell'Ordinamento militare.
6.2. Deve notarsi che, delle richiamate disposizioni degli artt. 866 e 923, co. 1, lett. i), nonché di quelle recate dall'art. 867. co. 3, del medesimo D.L.vo n. 66 del 2010, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, nella parte in cui esse non prevedono l'instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici. Perciò ritenersi corretto il rilievo del Tar in merito alla circostanza che l'automatismo destitutorio in questione sia stato censurato dalla Consulta limitatamente al caso di condanna con interdizione temporanea dai pubblici uffici.
6.3. Per quanto attiene all'applicazione delle medesime disposizioni nella fattispecie, il Collegio ritiene di dare continuità all'orientamento di questo Consiglio, secondo il quale "la misura della perdita del grado ex art. 866, D.L.vo n. 66 del 2010 non costituisce una pena accessoria, ai sensi dell'art. 20 c.p., bensì un effetto indiretto della condanna penale comportante una pena accessoria di carattere interdittivo, applicata in relazione alle categorie di reati ivi contemplati, attesa l'evidente incompatibilità della persistenza del rapporto di servizio con un provvedimento interdittivo. La misura in esame non rappresenta, dunque, un effetto penale o una sanzione accessoria alla condanna, bensì un effetto indiretto di natura amministrativa, giustificato dalla fisiologica impossibilità di prosecuzione del rapporto in conseguenza dell'irrogazione di una sanzione di carattere interdittivo" (Cons. Stato, sez. VI, 27 gennaio 2014, n. 389). Perciò, "l'irrogazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici è presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato l'effetto ex lege della perdita del grado e della cessazione dal servizio", cosicché "trova applicazione il principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l'applicazione della normativa sostanziale vigente al momento dell'esercizio del potere amministrativo, in conformità a quanto disposto dall'art. 2187, D.L.vo n. 66 del 2010, secondo cui solo i "procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente codice e del regolamento rimangono disciplinati dalla previgente normativa" (Cons. Stato, sez. II, 10 maggio 2021, n. 3691). Poiché nella fattispecie il procedimento per l'applicazione dell'effetto legale della perdita del grado è stato instaurato dopo l'entrata in vigore del Codice dell'ordinamento militare (cfr. Cons. Stato, sez. II, n. 3691/2021, cit.) per effetto degli atti sopra richiamati sub 6.1, deve ritenersi che l'Amministrazione abbia legittimamente dato applicazione alle disposizioni del Codice dell'ordinamento militare sopra richiamate.
Quanto ai dubbi di legittimità costituzionale prospettati dall'appellante, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di rilevare, con indirizzo che si condivide, che "laddove il giudice penale, come nella specie, applica una pena accessoria di per sé perpetua ed espulsiva, quale è la rimozione, nulla può fare l'Amministrazione se non prenderne atto, e non può logicamente trovare spazio un procedimento disciplinare", in quanto "la misura amministrativa dell'art. 866, comma 1, c.o.m., è la conseguenza di una pena accessoria criminale perpetua, e non può cadere se prima non cade la previsione presupposta. Sicché, eventuali censure di costituzionalità andrebbero piuttosto rivolte, se del caso, contro la disciplina della pena accessoria criminale. Ma siccome nel caso di specie tale pena accessoria criminale è coperta dal giudicato penale, in questa sede ogni questione è preclusa, e in caso di incidente di costituzionalità sarebbe inesorabilmente condannata a una declaratoria di inammissibilità" (CGARS, 27 maggio 2019, n. 490; cfr. Cons. Stato, sez. II, n. 3691/2021, cit.).
7. Dunque, per quanto sopra esposto, ritenuti non condivisibili i dubbi di legittimità costituzionale adombrati dall'appellante, il gravame deve essere considerato infondato e deve essere respinto.
Il regolamento processuale delle spese del grado di giudizio, liquidate nel dispositivo, segue la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e. per l'effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna l'appellante alla rifusione, in favore dell'Amministrazione, delle spese processuali del secondo grado del giudizio, liquidate in complessivi euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre alle maggiorazioni di legge, se dovute.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del D.L.vo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Reg. (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità dell'appellante.

Riferimenti normativi:
Art. 866 D.L.VO del 2010 n. 66
Art. 923 D.L.VO del 2010 n. 66
Art. 29 R.D. del 20 febbraio 1941 n. 303
Art. 2187 D.L.VO del 2010 n. 66
Art. 9 L. del 1990 n. 19
Avv. Antonino Sugamele

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