La compilazione del foglio di viaggio, con
annotazioni non aderenti alla realtà circa le spese alberghiere, e la relativa
presentazione all'Ufficio competente per il rimborso costituiscano una condotta
dotata di adeguata potenzialità decettiva rispetto al conseguente atto dispositivo
da parte dell'organizzazione deputata al rimborso e alla correlativa integrazione
del delitto di truffa militare
Cass. Penale Sent. Sez. 1 Num. 34424 Anno 2024
Presidente: MOGINI STEFANO
Relatore: SIANI VINCENZO
Data Udienza: 06/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.B. R. G. nato a C. il ....
avverso la sentenza del 25/10/2023 della CORTE MILITARE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO SIANI;
preso atto che il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
Militare, FRANCESCO UFILUGELLI, con requisitoria scritta, rassegnata ai sensi dell'art.
23 d.l. n. 137 del 2020 e succ. modd., ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
preso atto che il difensore del ricorrente, avv. GIUSEPPE RAIMONDI, ha depositato
memoria con cui ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso e l'annullamento
senza rinvio della sentenza impugnata, con l'adozione dei provvedimenti
consequenziali.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe, emessa il 25 ottobre 2023, la Corte militare
di appello ha parzialmente riformato la decisione resa dal Tribunale militare di
Verona il 5 aprile 2023, con la quale R. G. C. B., tenente
colonnello dell'Esercito italiano, era stato giudicato unitamente ad altri imputati -
assolti perché il fatto non costituisce reato - per i reati di truffa militare
pluriaggravata e violata consegna aggravata in concorso, nonché,
individualmente, per i reati di truffa militare aggravata e di tentata truffa militare
aggravata.
In esito alla decisione di primo grado, C.B. era stato dichiarato
responsabile di tutti i reati a lui ascritti, avvinti in continuazione, e,
riconosciutegli le circostanze attenuanti generiche, era stato condannato alla
pena di mesi dieci, giorni quindici di reclusione militare, condizionalmente
sospesa, oltre che al pagamento delle spese processuali, con tutte le
conseguenze di legge, inclusa la rimozione del grado.
A seguito della parziale riforma, frutto dell'accoglimento di alcune delle
doglianze contenute nell'atto di appello proposto dall'imputato, la pena della
reclusione militare è stata ridotta a mesi due, per via della conferma della penale
responsabilità dell'imputato con riferimento al solo reato di tentata truffa militare
aggravata, indicata sotto la lettera b) nella rubrica, mentre è stato dichiarato il
difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria militare in ordine ai reati di truffa
militare pluriaggravata e continuata in concorso e di violata consegna aggravata.
2. Ricorre per cassazione C. B. con il ministero del suo difensore
di fiducia, chiedendo la declaratoria del difetto di giurisdizione anche per il
residuo reato e comunque l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
L'impugnazione è affidata a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 13, comma 2,
16, comma 3, e 20 cod. proc. pen.
La Corte militare di appello ha accolto solo parzialmente l'eccezione, già
sollevata in primo grado, relativa al difetto della giurisdizione militare sul
complesso dei reati ascritti all'imputato e ha così trattenuto la cognizione in
merito alla tentata truffa aggravata, pur riconoscendone la connessione, ex art.
12, comma 2, lett. b) , cod. proc. pen., con gli altri delitti contestati come
consumati: nel far ciò, i giudici di secondo grado hanno attribuito prevalenza alla
giurisdizione militare, in ossequio al disposto dell'art. 13, comma 2, cod. proc.
pen., a mente del quale solo se il reato comune è più grave - in relazione ai
criteri stabiliti dall'art. 16, comma 3, cod. proc. pen. - di quello militare spetta
all'autorità giudiziaria ordinaria la cognizione.
La difesa, tuttavia, sostiene che l'art. 16, comma 3, cod. proc. pen.,
imponendo di fare riferimento alla pena edittale più alta nel massimo e, in caso
di parità, più alta nel minimo, definisce unicamente il più importante (ma non
l'unico) principio in tema di individuazione della fattispecie di reato di maggior
gravità: secondo un recente orientamento interpretativo, infatti, la nozione di
violazione più grave possiede una valenza complessa, che implica una
valutazione delle concrete modalità di manifestazione del reato.
Nel caso di specie, dunque, ai fini del riparto di giurisdizione, i giudici militari
avrebbero erroneamente individuato nella tentata truffa militare aggravata la
violazione più grave, assumendo quale parametro di riferimento le sole pene
edittali previste nel massimo dal legislatore per tutti i reati ascritti all'imputato,
senza considerare le concrete modalità di manifestazione della tentata truffa, che
avrebbero dovuto indurre a ritenere la fattispecie tentata senz'altro più lieve
rispetto a quella consumata.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente si duole dell'inosservanza o erronea
applicazione dell'art. 56 cod. pen., oltre che della mancanza di motivazione in
relazione agli artt. 56 cod. pen., 125 e 544 cod. proc. pen.
In ordine all'ipotesi di tentata truffa militare aggravata - consistita nella
presentazione di una fattura di albergo per un pernottamento mai effettuato, al
fine di procurarsi la somma di danaro corrispondente a cinque pernottamenti
(euro 462,50) - si segnala la mancanza del requisito, necessario ai fini della
punibilità a titolo di tentativo, dell'idoneità degli atti compiuti, alla luce di una
valutazione ex ante, ad arrecare un pregiudizio economico all'Amministrazione
militare.
Sul punto, oltretutto, la motivazione della Corte militare di appello, secondo
la difesa, si mostra apodittica, in quanto essa non è sostenuta da alcun concreto
argomento giustificativo, esplicito o implicito, della determinazione assunta sul
tema, pur trattandosi di un punto decisivo ai fini del giudizio.
2.3. Con il terzo motivo si prospetta, infine, l'inosservanza o l'erronea
applicazione degli artt. 131-bis e 133 cod. pen: la decisione impugnata risulta
viziata - ad avviso della difesa - nella parte in cui, rigettando l'istanza volta a
escludere la punibilità dell'imputato per particolare tenuità del fatto, ha fornito
una motivazione laconica e insufficiente, carente rispetto alla necessità di
un'equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, non
solo di quelle attinenti all'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto.
La Corte militare di appello non avrebbe, in particolare, tenuto conto
dell'attuale formulazione dell'art. 131-bis cod. pen., che impone all'interprete di
valutare anche la condotta dell'imputato susseguente al reato: e questa
condotta, nel caso di specie, era risultata particolarmente significativa, essendo
stati concessi a C. B. addirittura due encomi, di cui uno solenne,
successivamente ai fatti oggetto di imputazione.
Sotto altro profilo, nell'escludere la particolare tenuità del fatto in merito al
parametro del danno economico, la Corte ha omesso di considerare che
l'Amministrazione militare avrebbe dovuto riconoscere all'imputato comunque
una somma di danaro pari a quella richiesta con la fraudolenta documentazione.
In ultima battuta, si eccepisce la contraddittorietà della sentenza impugnata
nella parte in cui ha disconosciuto l'operatività della causa di non punibilità, pur
avendo affermato che la condotta dell'imputato, oltre che episodica, ha vulnerato
in termini solo minimali il patrimonio della persona offesa.
3. Il Procuratore generale militare, con requisitoria scritta, rassegnata ai
sensi dell'art. 23 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre
del 2020, n. 176, come richiamato dall'art. 16 dl. 30 dicembre 2021, n. 228,
convertito dalla legge 25 febbraio 2022, n. 15, nonché, ulteriormente, dall'art.
94, comma 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, poi modificato dal d.l. 30 dicembre
2023, n. 215, convertito dalla legge 23 febbraio 2024, n. 18, ai sensi dell'art. 23
d.l. n. 137 del 2020 e succ. modd., ha chiesto il rigetto del ricorso, ritenendo
correttamente individuata la giurisdizione in capo all'autorità giudiziaria militare
e, per il resto, non censurabile la sentenza impugnata con riferimento alla
supposta inidoneità del tentativo e al mancato riconoscimento della causa di non
punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen.
4. La difesa ha formulato, con memoria, conclusioni scritte, con le quali ha
prospettato l'accoglimento del ricorso, sottolineando, in particolare, l'anomalia
decisoria che ha condotto la Corte di merito a una non univoca individuazione
della fattispecie di reato più grave e prospettando, a tal proposito, l'illegittimità
costituzionale degli artt. 16 e 20 cod. proc. pen. per violazione dei principi di
economia processuale, anche in relazione a quello di ragionevole durata, e di
individuazione del giudice naturale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, va rigettato.
2. Con riferimento al primo motivo, occorre anzitutto precisare che il riparto
di potestà cognitiva tra giudice ordinario e giudice militare è un tema attinente
alla giurisdizione, non alla competenza, in virtù di quanto stabilito dall'art. 103,
terzo comma, Cost., che sancisce la giurisdizione esclusiva dell'autorità
giudiziaria militare su ogni violazione della legge penale militare che costituisce
reato, lede gli interessi dell'amministrazione militare e viene commessa da un
soggetto appartenente alle Forze Armate.
Pare opportuno ricordare ciò, richiamando anche l'insegnamento delle
Sezioni Unite (Sez. U, n. 8193 del 25/11/2021, dep. 2022, Bionda, Rv. 282847 -
01) che hanno proceduto alla conseguente riaffermazione del corollario per cui,
vertendosi in tema di riparto di giurisdizione, la sua violazione è deducibile o
rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi dell'art.
20 cod. proc. pen.).
Con questa decisione si sono ribaditi i cardini di tale riparto in un C.dato
solco che non si espone ai sospetti di incostituzionalità sollevati dal ricorrente
(soprattutto nella memoria di conclusioni). E, come risulta confermato nell'analisi
ricognitiva dalla stessa svolta, l'art. 103, terzo comma, Cost. ha sancito la
permanenza della giurisdizione dei tribunali militari anche in tempo di pace, ma
con un duplice limite: uno di tipo oggettivo, essendo prevista solo per i reati
militari; l'altro di tipo soggettivo, potendo essere esercitata soltanto nei confronti
degli appartenenti alle Forze armate. Pertanto, nell'assetto vigente, i tribunali
militari non hanno giurisdizione su reati comuni, anche se commessi da
appartenenti alle Forze armate, nemmeno se connessi con reati militari, e non
possono giudicare imputati estranei alle Forze armate per reati militari o
commessi in concorso con imputati militari, laddove l'art. 102, primo comma,
Cost. enuncia il principio generale secondo cui la funzione giurisdizionale è
esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento
giudiziario, nessun limite costituzionale in tale direzione essendo stato posto alla
giurisdizione dei giudici ordinari.
Allo stato della susseguente evoluzione normativa, nel riparto tra giudice
ordinario e giudice militare attinente alla giurisdizione, l'art. 13, comma 2, cod.
proc. pen. è stato dettato per stabilire la giurisdizione del giudice militare e/o del
giudice ordinario nell'ipotesi di connessione di procedimenti per reati comuni e
reati militari. Tale norma integra l'art. 263 cod. pen. mil . pace, che definisce la
giurisdizione dei tribunali militari in attuazione dell'art. 103, terzo comma, Cost.,
e ha comportato (Sez. U, n. 5135 del 25/10/2005, dep. 2006, Maldera, Rv.
232661 - 01) l'abrogazione dell'art. 264 cod. pen. mil . pace, essendo emersa la
volontà del legislatore di regolare l'intera materia del riparto di giurisdizione tra
autorità giudiziaria ordinaria e autorità giudiziaria militare in ipotesi di
connessione tra procedimenti.
L'art. 13, comma 2, cod. proc. pen. limita (rispetto a quanto prevedeva l'art.
264 cod. pen. mil . pace modificato dalla legge 23 marzo 1956, n. 167)
l'attribuzione della giurisdizione all'autorità giudiziaria ordinaria in caso di
connessione con procedimenti appartenenti alla cognizione dei tribunali militari e
prevede l'attrazione del reato militare alla cognizione della giudice ordinario
soltanto se il reato comune è più grave di quello militare, così evitando una
disciplina troppo limitativa della giurisdizione militare, salvaguardata attraverso
la separazione dei procedimenti connessi in tutti i casi che non rientrano nella
previsione dell'art. 13, comma 2, cod. proc. pen.
In tal modo il legislatore, esercitando in modo non irragionevole la sua
discrezionalità politica, ha voluto attribuire rilievo, sia pure per un ambito
circoscritto, alla specifica professionalità del giudice militare quale giudice
speciale e la Corte costituzionale (sent. n. 441 del 1998) ha escluso che, con la
disciplina dell'art. 13, comma 2, cit., il legislatore delegato abbia violato la
delega: la scelta di limitare i casi di connessione tra reati comuni e militari alle
ipotesi di maggiore gravità del reato comune risponde all'esigenza, sottolineata
nella Relazione al progetto definitivo del codice, di evitare che, attraverso
l'estensione della competenza attrattiva del giudice ordinario a tutte le ipotesi di
connessione previste dall'art. 12 cod. proc. pen., l'esercizio della giurisdizione
militare risultasse penalizzato in modo eccessivo e senza una specifica ragione.
Pertanto, va applicato il precetto fissato dall'art. 13, comma 2, cod. proc.
pen. che regola le ipotesi di connessione tra reati comuni e reati militari.
Da tale disposto discende che, in caso di connessione di reati, la potestas
iudicandi spetta al giudice ordinario anche per il reato militare, ma soltanto a
condizione che il reato comune sia da considerarsi di maggiore gravità alla
stregua dei criteri di cui all'art. 16, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 44514
del 28/09/2012, Nacca, Rv. 253825 - 01) e che l'attrazione alla giurisdizione del
giudice ordinario dei procedimenti per reati concorrenti, comuni e militari, opera
solo se il reato comune è più grave di quello militare, mentre negli altri casi le
sfere di giurisdizione, ordinaria e militare, rimangono separate, con la
conseguenza che al giudice militare appartiene la cognizione dei reati militari e al
giudice ordinario quella per i reati comuni (Sez. 1, n. 50012 del 01/12/2009,
Confl. comp. in proc. Mollicone, Rv. 245981 - 01).
Specificando, va ricordato che, ai fini dell'attribuzione della giurisdizione al
giudice ordinario, in caso di procedimenti per reati connessi, comuni e militari, la
maggiore gravità del reato comune è individuata sulla base delle regole stabilite
dall'art. 4. cod. proc. pen., stante il rinvio contenuto nell'art. 13, comma 2, cod.
proc. pen. ai criteri valutabili ai sensi dell'art. 16, comma 3, cod. proc. pen.; ne
consegue che non sono apprezzabili le circostanze aggravanti comuni, ma
soltanto quelle ad effetto speciale che importano un aumento di pena superiore
ad un terzo (Sez. U, n. 18621 del 23/06/2016, dep. 2017, Conf. giur. in proc.
Zimarmani, Rv. 269588 - 01).
Alla luce delle coordinate ermeneutiche richiamate, risulta evidente come la
Corte militare di appello abbia fatto corretta applicazione dei principi che
governano la materia nel ritenere sussistente la propria giurisdizione con
riferimento al reato di tentata truffa militare aggravata.
Posto che l'art. 46 cod. pen. mil . pace, al pari dell'art. 56 cod. pen., prevede
per il reato in verifica, per il tentativo, la riduzione della pena edittale da un
terzo a due terzi, la Corte militare di appello ha correttamente evidenziato che,
non sussistendo circostanze aggravanti per il reato comune di truffa, la pena
edittale più grave è risultata essere quella stabilita per il reato militare:
quest'ultimo, infatti, ex artt. 234, secondo comma, cod. pen. mil . pace e al netto
della riduzione per il tentativo, prevede una cornice edittale (nel massimo pari a
anni tre, mesi quattro di reclusione) più severa, riflettendo la valutazione
normativa del particolare rilievo che le corrispondenti condotte assumono nello
specifico contesto militare, rispetto a quella applicabile al delitto comune non
aggravato (nel massimo pari a anni tre di reclusione), stante la mancata
possibilità di applicazione - tenuto conto del soggetto danneggiato dalla
violazione contestata a C.B. - alla truffa ordinaria dell'aggravante a
effetto speciale prevista dall'art. 640, secondo comma, cod. pen.
A fronte del chiaro contesto normativo e della coerente esegesi ora
richiamati, il ricorrente ha prospettato una soluzione diversa, tesa a valorizzare,
non l'individuazione del reato più grave secondo i suddetti criteri, ma
l'individuazione del reato da ritenere più grave in base a tutte le circostanze del
caso concreto e considerando la pena irrogata per le truffe consumate; si tratta
però di una ricostruzione del sistema difforme delle indicate regole e, pertanto,
essa risulta fragile sotto il profilo ermeneutico.
La prospettazione difensiva, quindi, non è idonea a fornire una condivisibile
interpretazione del concetto di violazione più grave, come previsto dalla norma
succitata e assunto dall'ordinamento assunto come criterio guida per regolare il
riparto fra la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione militare.
Né giova al ricorrente richiamare il principio di diritto affermato, ma con
riferimento a diversa sfera applicativa, dalle Sezioni Unite (il riferimento è a Sez.
U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347 - 01) lì dove è stato chiarito
che, in tema di reato continuato, la violazione più grave va individuata in
astratto in base alla pena edittale prevista per il reato ritenuto dal giudice in
rapporto alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e
all'eventuale giudizio di comparazione fra di esse: al di là di ogni ulteriore
approfondimento, risulta chiara la diversità di ambito a cui attiene l'autorevole
insegnamento richiamato dal ricorrente rispetto al tema del discrimen fra
giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare oggetto del presente vaglio.
La doglianza si rivela, pertanto, priva di fondamento.
3. Trascorrendo all'esame del secondo motivo, imperniato sull'asserita
erronea applicazione dell'art. 56 cod. pen. e sul relativo vizio motivazionale, la
censura non merita accoglimento.
Al di là del rilievo che l'esatto riferimento alla fattispecie tentata afferisce
all'art. 46 cod. pen. mil . pace, i giudici della Corte militare di appello,
contrariamente a quanto ha sostenuto il ricorrente, hanno correttamente
ritenuto sussistenti gli elementi previsti dalla legge ai fini dell'attribuzione
all'imputato a titolo di tentativo della condotta oggetto di giudizio.
Con particolare riferimento all'idoneità dell'azione posta in essere da C.
B. nella realizzazione del delitto di truffa aggravata, arrestatosi allo stadio
del tentativo, la sentenza impugnata ha fondato il proprio convincimento sul
rilievo che la presentazione, insieme agli altri documenti, della fattura
alberghiera contraffatta per un pernottamento mai effettuato aveva
rappresentato una condotta senz'altro idonea a consumare la truffa militare.
La constatazione che la fattispecie si era arrestata al tentativo era dipesa
esclusivamente dal fatto che cause esterne - del tutto estranee alla volontà
dell'agente - avevano reso impossibile il rimborso.
Vale la pena ricordare, sul punto, che l'idoneità degli atti, ai sensi dell'art. 56
cod. pen., come ai sensi della corrispondente norma di cui all'art. 46 cod. pen.
mil . pace, attiene alla loro capacità causale, vale a dire alla loro attitudine a
produrre l'evento che rende consumato il delitto; viceversa, l'inidoneità consiste
nel difetto intrinseco di qualsiasi efficienza causale della condotta rispetto
all'evento, accertato con valutazione oggettiva, con indagine da compiersi ex
ante, ovvero in base alla situazione percepibile al momento dell'azione.
È stato spiegato dalla Corte di merito che l'imputato aveva compiuto l'azione
tipica del reato contestato compilando il foglio di viaggio, annotandolo con
all'interno le indicazioni non veritiere inerenti alle addotte spese alberghiere e vi
aveva allegato la fattura contraffatta; indi, aveva depositato quei documenti
all'Ufficio competente a deliberare il rimborso e aveva atteso che gli venisse
erogato il denaro corrispondente, essendo restato nell'ambito del suo foro
interno l'addotto - ma non esternato - intento di modificare o revocare quella
dichiarazione e la connessa richiesta. Il fatto che il rimborso non gli era stato
erogato era dipeso esclusivamente da circostanze estranee alla volontà di
C. B.: era in corso un'ispezione nel Reparto, sicché, a seguito dell'esito
di tale ispezione interna, gli organi competenti, constatato l'artificio, non
avevano disposto l'erogazione della somma oggetto della domanda di rimborso.
A questo riguardo la motivazione della sentenza impugnata si dimostra
logica, coerente e osservante delle linee ermeneutiche disegnate
dall'elaborazione di legittimità, che, in tema di truffa, afferma che l'idoneità degli
artifici e dei raggiri non è esclusa dal fatto che per svelarli sia necessario il
successivo intervento di atti di controllo, atteso che l'idoneità postula che i
comportamenti truffaldini siano astrattamente capaci, con valutazione ex ante di
causare l'evento (Sez. 2, n. 40624 del 04/12/2012, Nigro, Rv. 253452 - 01).
Non vi è dubbio, infatti, che la compilazione del foglio di viaggio, con
annotazioni non aderenti alla realtà circa le spese alberghiere, e la relativa
presentazione all'Ufficio competente per il rimborso costituiscano una condotta
dotata di adeguata potenzialità decettiva rispetto al conseguente atto dispositivo
da parte dell'organizzazione deputata al rimborso e alla correlativa integrazione
del delitto di truffa militare, il quale non è pervenuto allo stadio della
consumazione esclusivamente a causa dell'ispezione in corso presso il Reparto.
In tal senso, quindi, muovendo dal concetto che la produzione di una
richiesta falsa di rimborso di spese di viaggio o d'indennità non dovuto, da parte
di militare, integra gli artifici e i raggiri propri del reato di truffa militare, a nulla
rilevando l'esistenza di controlli amministrativi sulla legittimità della spesa, una
volta che il dipendente sia riuscito ad ottenere il pagamento delle somme
richieste (Sez. 1, n. 44053 del 11/11/2008, Fusco, Rv. 241829 - 01; v. anche
Sez. 1, n. 4444 del 15/10/2014, dep. 2015, Pagano, Rv. 262641 - 01), deve
convenirsi che la complessiva produzione della richiesta suindicata, avendo
integrato la condotta tipica, astrattamente capace, secondo una valutazione ex
ante, di causare l'evento e oggettivamente adeguato a determinare l'attivazione
del procedimento in vista del divisato ingiusto vantaggio, ha costituito atto
idoneo e diretto in modo inequivoco alla commissione della truffa stessa.
L'avvenuto perfezionamento in questa fattispecie dell'artificio, mediante la
contraffazione della documentazione allegata alla domanda di rimborso
ideologicamente falsa, distingue il caso in esame da quello in cui l'attività
dell'agente si sia risolta nella mera richiesta dell'ingiusto vantaggio, senza il
raggiungimento del requisito dell'idoneità degli atti (per una siffatta ipotesi,
sempre nell'ambito dei reati militari, v. Sez. 1, . 31897 del 12/07/2023, Basile,
Rv. 285048 - 01, in fattispecie in cui è stata esclusa l'idoneità dell'atto ai fini
della configurazione del tentativo con riguardo alla richiesta, formulata da due
militari ma non accolta dal gestore dell'impianto, di far figurare un rifornimento
di carburante di importo maggiore rispetto a quello effettivo).
Anche questo motivo risulta, in definitiva, privo di fondamento.
4. Parimenti infondato è il terzo e ultimo motivo di ricorso, vertente sul
diniego della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
La Corte militare di appello ha rilevato un significativo coefficiente di
disvalore fattuale e giuridico nella vicenda, desunto non solo e non tanto dal
pericolo di danno economico cui l'Amministrazione è stata esposta, quanto dalle
modalità della condotta e, più nello specifico, dalla fraudolenta documentazione
allegata da C. B. documentazione che l'imputato stesso aveva
ingegnata, dalle annotazioni di viaggio non veritiere, dal coinvolgimento di altri
militari e dalla posizione apicale rivestita da C. B.nell'ambito della
missione a cui era acceduta la tentata truffa aggravata.
L'iter argomentativo esposto dal giudice di merito appare pienamente
coerente con l'indirizzo ermeneutico formatosi con riferimento all'invocata causa
di non punibilità, essendo l'elaborazione di legittimità ferma nel ritenere che, ai
fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare
tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità
richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della
fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod.
pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile
e dell'entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj,
Rv. 266590 - 01) e che il giudizio sulla tenuità dell'offesa dev'essere effettuato
con riferimento ai criteri di cui all'art. 133, comma primo, cod. pen., senza che
sia però necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti,
essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. 7, n. 10481 del
19/01/2022, Deplano, Rv. 283044 - 01; Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018,
Milone, Rv. 274647 - 01).
Il ragionamento sotteso alla decisione impugnata resiste alle doglianze del
ricorrente, che appunta le proprie critiche, in chiave meramente confutativa,
proprio sull'esiguità del pericolo di danno economico corso dall'Amministrazione,
oltre che sulla specificità storico-fattuale della condotta serbata da C.
B. anche a seguito dei fatti oggetto di imputazione.
A tale ultimo proposito si rammenta che la condotta dell'imputato successiva
alla commissione del reato, rilevante ai fini dell'applicabilità della causa di non
punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., come novellato dall'art. 1, comma 1,
lett. c), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, è deducibile per la prima volta nel
giudizio di legittimità, a condizione che non sia stata prospettata con l'atto di
impugnazione o nel corso del giudizio di appello. In questa ipotesi la Corte di
cassazione, apprezzando la circostanza sopravvenuta nell'ambito del complessivo
giudizio sull'entità dell'offesa, può ritenere sussistente la sussistenza della causa
di non punibilità nel solo caso in cui siano immediatamente rilevabili dagli atti i
presupposti per la sua applicazione e non siano necessari ulteriori accertamenti
fattuali (Sez. 2, n. 396 del 17/11/2023, dep. 2024, Maiocchi, Rv. 285726 - 01).
Nel caso in esame, già i giudici di merito hanno potuto valutare la deduzione
difensiva volta a sollecitare la causa di non punibilità alla stregua del disposto
della norma già novellata: ed essi hanno, con motivazione congrua ed esente da
vizi logici, ritenuto che, pur considerando l'ulteriore criterio valutativo suindicato
e, quindi, gli elementi di segno positivo, ricollegati agli encomi conseguiti, vantati
dall'imputato, la complessiva fattispecie non consentisse l'individuazione della
particolare tenuità del fatto.
In siffatta direzione, del resto, le condotte post delictum non possono essere
prese in considerazione in guisa da rendere, di per sé sole, l'offesa di particolare
tenuità - determinando una sorta di esiguità sopravvenuta di un'offesa in
precedenza non tenue - ma possono trovare valorizzazione solo nel complessivo
giudizio di tenuità dell'offesa, il quale, dovendo tener conto delle modalità della
condotta, di per sé coeva al reato, ha come primo e fondamentale termine di
relazione il momento della commissione del fatto, con la relativa condotta, e il
danno o il pericolo con essa posto in essere.
Si ribadisce, pertanto, il condiviso indirizzo secondo il quale, ai fini
dell'applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto,
ha certamente acquistato rilievo, per effetto citata della novellazione dell'art.
131-bis cod. pen. ad opera del d.lgs. n. 150 del 2022, anche la condotta
dell'imputato successiva alla commissione del reato, ma è altrettanto certo che
tale condotta susseguente, non può, di per sé sola, rendere di particolare tenuità
un'offesa che tale non era al momento del fatto, essendo essa, invece, da
valorizzarsi solo nell'ambito del giudizio complessivo sull'entità dell'offesa recata,
da effettuarsi alla stregua dei parametri di cui all'art. 133, primo comma, cod.
pen. (Sez. 3, n. 18029 del 04/04/2023, Hu Qinglian, Rv. 284497 - 01), non
obliterando, sotto speculare aspetto, che la condotta susseguente al reato può
costituire anche elemento suscettibile di valutazione negativa ai fini
dell'applicabilità della causa di non punibilità laddove determini un aggravamento
dell'offesa, non rilevando invece comportamenti successivi sol perché espressivi
di capacità a delinquere (Sez. 6, n. 43941 del 03/10/2023, Hamdi, Rv. 285360 -
01).
Alla stregua di queste considerazioni, deve, dunque, concludersi che pure
questa doglianza non ha pregio giuridico.
5. Tutti i motivi dell'impugnazione sono, in definitiva, da disattendere per le
ragioni spiegate, per cui si impone, conclusivamente, il rigetto del ricorso.
Ad esso consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 6 giugno 2024
29-09-2024 07:38
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