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Sentenza

 Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari - Whatsapp dif...
Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari - Whatsapp diffamatorio inviato ad un collega – Utilizzo da parte dell’Amministrazione – Legittimità.
Sanzione disciplinare al militare per whatsapp diffamatorio inviato ad un collega.  



    È legittima la sanzione disciplinare irrogata ad un militare che ha avviato un whatsapp evocativo di una generale condizione di inaffidabilità del contesto di servizio cui l'interessato è stato destinato, ben potendo la comunicazione tra il ricorrente e la collega essere utilizzata dall’amministrazione al fine di fondare la contestazione disciplinare, essendo stata quest’ultima a renderla nota all’Amministrazione (1). 

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(1) Ha ricordato il Tar che la Corte di Cassazione ha affrontato l’ipotesi della natura antigiuridica o meno, quale diffamazione, della condotta costituita dall’aver reso opinioni in una chat da parte di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro, al fine di valutare la sua rilevanza o meno quale giusta causa di licenziamento, che richiede l’antigiuridicità della condotta, nell’ambito di un rapporto di lavoro privato. 

In primo luogo, l’orientamento prospettato dalla sentenza della Corte di Cassazione citata e posta a fondamento del ricorso appare invero minoritario nel panorama giurisprudenziale che si è occupato della possibile rilevanza della diffamazione, in quanto, come rilevato in senso critico da diversi autori in commento alla decisione, il reato di diffamazione (semplice) non presuppone affatto la divulgazione nell’ambiente sociale e, quindi, la pubblicità della comunicazione – requisito proprio della fattispecie aggravata – bensì la mera comunicazione che può essere privata e pure riservata.  

Ed invero, rileva ancora la dottrina, l’orientamento citato, pur senza prendere posizione sul punto, si discosta dagli orientamenti della stessa Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che nelle varie pronunce concernenti licenziamenti irrogati per la trasmissione di missive o e-mail denigratorie non ha mai considerato la natura ‘‘riservata’’ della corrispondenza né l’assenza di volontà divulgativa, valutando invece la portata diffamatoria delle espressioni utilizzate dal lavoratore e l’eventuale esercizio del diritto di critica (cfr. ex multis Cass., 20 settembre 2016, n. 18404; Cass., 9 febbraio 2017, n. 3484; Cass., 10 novembre 2017, n. 26682; proprio con riferimento all’applicativo whatsapp cfr. Cass., 6 settembre 2018, n. 21719).  

Ancora, in senso critico, si è rilevato in dottrina che non sono pertinenti i principi di libertà e segretezza della corrispondenza, sanciti dall’art. 15 Cost., che sì ne precludono agli estranei la cognizione e la rivelazione come previsto dagli artt. 616 e 617 c.p., ma non sono invocabili laddove il datore di lavoro abbia conosciuto il contenuto della comunicazione non in violazione delle predette norme, bensì per la rivelazione che il partecipante alla comunicazione ne abbia fatto.  

Invero, per i partecipanti alla conversazione, non vige alcun divieto di rivelazione né di divulgazione, ferma restando, naturalmente, la responsabilità per l’eventuale diffamazione insita nella divulgazione (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 26 settembre 2014, n. 40022), poiché, analogamente a quanto avviene per la normale corrispondenza, non può essere considerata contrastante con la normativa sui dati personali l´eventuale successiva presa di conoscenza della e-mail da parte di soggetti estranei al circuito di posta elettronica, quando il messaggio non sia stato indebitamente acquisito da questi ultimi, ma ad essi comunicato da parte di uno dei destinatari del messaggio stesso (cfr. Parere del Garante per la protezione dei dati personali, 12 luglio 1999). 

Tale ultimo passaggio è pienamente aderente al caso che oggi occupa, in quanto risulta che sia stata la partecipante alla conversazione a renderne noto il contenuto all’amministrazione, sicché si appalesa anche di non primaria rilevanza la questione circa l’applicabilità o meno al caso di specie del dovere di comunicazione ai sensi dell'art. 748, comma 5 lettera b) del Testo Unico delle disposizioni regolamentari d.P.R. n. 90/2010, relativo alle “Comunicazione dei militari”. 

Peraltro, deve aggiungersi che, anche alla luce di quanto chiarito, una volta che l’amministrazione ha conosciuto il contenuto della conversazione, che è stato reso pubblico dall’altro interlocutore, non poteva non tenerne conto ai fini della valutazione, che le è propria, in merito alla rilevanza disciplinare delle affermazioni rese dal ricorrente. 
Avv. Antonino Sugamele

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