Nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, integra
l'offesa all'onore ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore nonché l'uso di tono arrogante, perché contrari alle esigenze della disciplina militare per la quale il soggetto di grado più elevato deve essere tutelato, non solo nell'espressione della sua personalità umana, ma anche
nell'ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell'autorità del grado e della funzione di comando.
Cassazione Penale Sent. Sez. 1 Num. 5820 Anno 2025
Presidente: ROCCHI GIACOMO
Relatore: MASI PAOLA
Data Udienza: 17/01/2025
In nome del Popolo Italiano
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
G.A. nato a M. (..) il .....
avverso la sentenza del 10/07/2024 della CORTE MILITARE APPELLO di Roma
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Paola Masi;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Militare Francesco
Ufilugelli che, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 10 luglio 2024 la Corte militare di appello di Roma, riformando
parzialmente la sentenza emessa in data 12 dicembre 2023 dal giudice dell'udienza preliminare del
Tribunale militare di Verona, ha condannato A.G.alla pena di mesi due di reclusione
militare, con i doppi benefici di legge, per il reato di insubordinazione con ingiuria commesso il 16
gennaio 2023 in danno di un superiore, usando nei suoi confronti, in una conversazione via
whatsapp per ragioni di servizio, toni beffardi ed espressioni ingiuriose, idonei a ledere il prestigio e
la dignità del medesimo.
La Corte di appello ha ribadito che la condotta è stata tenuta nei confronti di un superiore
gerarchico, ledendone perciò il prestigio e la dignità, essendo irrilevante il fatto che l'imputato fosse,
in quel momento, libero dal servizio, e per un motivo inerente il servizio e la disciplina, cioè la
pianificazione dei turni dei militari del plotone a cui entrambi appartenevano. Ha confermato
l'insussistenza di scriminanti e la non modesta gravità del fatto, ma ha ridotto la pena, nella misura
indicata.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso A.G. , per mezzo del suo difensore avv.
Alfonso Amorese, articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, ai sensi dell'art.
606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen.
La motivazione della sentenza impugnata è illogica e contraddittoria. Il reato di
insubordinazione con ingiuria sussiste nel caso di utilizzo di un tono arrogante o di parole di
disprezzo, che siano effettivamente lesive del prestigio e dell'onore della vittima, mentre nel caso di
specie il ricorrente ha solo esternato un comprensibile e umano disappunto, per essersi visto
sottratto un giorno di riposo. In lui era assente il necessario elemento soggettivo, perché con il suo
superiore esisteva da tempo un rapporto confidenziale, e quindi egli non riteneva che le espressioni
usate fossero ingiuriose, mentre la sentenza, erroneamente, non ha valutato l'incidenza di tale
confidenzialità nell'elemento psicologico del reato.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, ai
sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen., in ordine al diniego del proscioglimento
per la particolare tenuità del fatto.
La Corte di appello ha negato l'assoluzione ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen. ripetendo la
sussistenza di tutti gli elementi del reato, mentre tale istituto interviene dopo che la sussistenza del
reato è stata accertata e si basa, quindi, su altri elementi. La Corte non ha tenuto conto del fatto che
il ricorrente non è un delinquente abituale, che il titolo di reato consente l'applicazione del beneficio,
e che, dal messaggio finale inviato al superiore, risulta evidente che la conversazione si è conclusa
in modo pacifico. La sentenza stessa, contraddittoriamente, ha riconosciuto che il fatto era di
modesta gravità, tanto da meritare una riduzione della pena, e che era dettato da uno stato d'ira
determinato da un danno subito, quale la soppressione di un giorno di riposo, e dall'intima
convinzione del ricorrente che tale danno fosse ingiusto, ma pur attribuendo al fatto un minore
disvalore non ha concesso il proscioglimento per la sua particolare tenuità.
3. Il procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto di entrambi i motivi del
ricorso.
4. In data 07 gennaio 2025 il ricorrente ha depositato una memoria, con la quale ha ribadito la
fondatezza di entrambi i motivi del proprio ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato, in entrambi i suoi motivi, e deve essere rigettato.
2. Il primo motivo è ai limiti della inammissibilità, contenendo deduzioni e contestazioni che
attengono più a questioni di fatto che ad interpretazioni in punto di diritto. Il ricorrente, infatti,
contesta la valutazione delle prove contenuta nella sentenza impugnata, e di fatto ne chiede una
valutazione diversa.
Questa Corte, però, ha più volte affermato che «In tema di controllo sulla motivazione, alla
Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria
valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di
saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra
l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati
dall'esterno; ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del
provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell'intelletto costituente un sistema
logico in sé compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza
strutturale della sentenza in sé e per sé considerata, necessariamente condotta alla stregua degli
stessi parametri valutativi da cui essa è "geneticamente" informata, ancorché questi siano
ipoteticamente sostituibili da altri» (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260). Pertanto
«esula dai poteri della Cassazione, nell’ambito del controllo della motivazione del provvedimento
impugnato, la formulazione di una nuova e diversa valutazione degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione, giacché tale attività è riservata esclusivamente al giudice di merito,
potendo riguardare il giudizio di legittimità solo la verifica dell'iter argomentativo di tale giudice,
accertando se quest'ultimo abbia o meno dato conto adeguatamente delle ragioni che lo hanno
condotto ad emettere la decisione» (Sez. 6, n. 1354 del 14/04/1998, Rv. 210658).
La motivazione della sentenza impugnata non presenta i vizi di illogicità e contraddittorietà
dedotti dal ricorrente, in quanto valuta le frasi da lui rivolte al suo superiore gerarchico alla luce della
interpretazione giurisprudenziale del reato ritenuto sussistente dal giudice di primo grado. Questa
Corte ha costantemente ribadito che «Nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, integra
l'offesa all'onore ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore nonché l'uso di tono
arrogante, perché contrari alle esigenze della disciplina militare per la quale il soggetto di grado più
elevato deve essere tutelato, non solo nell'espressione della sua personalità umana, ma anche
nell'ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell'autorità del grado e della
funzione di comando» (Sez. 1, n. 12313 del 19/02/2020, Rv. 278699, citata dallo stesso ricorrente).
La sentenza impugnata ha, in modo logico e conforme alle risultanze processuali, valutato che
rientrassero in tale concetto di insubordinazione il tono palesemente arrogante usato dal ricorrente,
l'accusa di favoritismo, il turpiloquio, seppure occasionale, l'esortazione a comportarsi da uomo, il
pretendere di far valere la propria anzianità anagrafica. Si tratta di valutazioni che non presentano la
manifesta illogicità lamentata, dal momento che il contenuto complessivo dei messaggi scambiati
dal ricorrente con il superiore risulta, oggettivamente, ben più grave e offensivo della mera
esternazione di un “comprensibile ed umano disappunto”, secondo l'interpretazione riduttiva
contenuta nel ricorso, ben potendo tale disappunto essere manifestato senza mettere in dubbio la
correttezza del comportamento del superiore e senza sminuirne il prestigio derivante dalla
superiorità gerarchica.
La motivazione della sentenza non è illogica neppure con riferimento alla valutazione della
sussistenza del necessario dolo: la norma richiede solo un dolo generico, ed esso è stato ritenuto
presente stante la evidente volontarietà e consapevolezza dell'uso dei termini e del tono contestati,
la loro oggettiva portata offensiva, la consapevolezza del ricorrente di rivolgersi ad un superiore in
relazione ad una questione di servizio. E' logica e non contraddittoria anche la valutazione della
irrilevanza della confidenza che il superiore aveva palesemente consentito al ricorrente,
autorizzandolo all'uso del “tu”, non potendo tale concessione escludere il doveroso rispetto da
osservare verso il superiore gerarchico, requisito ineliminabile della disciplina militare.
3. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza di legittimità, a partire dalla sentenza Sez. U, n. 13681 del 25/02/2106,
Tushaj, Rv. 266590, ha precisato che «Ai fini della configurabilità della causa di esclusione della
punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità
richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che
tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado
di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo». La sentenza impugnata si
è conformata a questo principio, in quanto ha approfonditamente valutato la possibile sussistenza di
tale causa di proscioglimento, e l'ha esclusa ritenendo la condotta del ricorrente non particolarmente
tenue, stante la prosecuzione delle frasi offensive nonostante la disponibilità manifestata dal
superiore per risolvere le difficoltà del ricorrente e nonostante i richiami del medesimo a tenere un
atteggiamento corretto e rispettoso, il tono arrogante, l'atteggiamento di sfida e di disconoscimento
dell'autorità del superiore gerarchico e delle esigenze del servizio e della disciplina militare; ha
valorizzato anche, in termini negativi, il successivo tentativo di sfuggire alle proprie responsabilità
cancellando, in parte, i messaggi scambiati con il superiore. Tale valutazione attiene, così come
richiesto dalla norma, alla gravità della condotta e alla non esiguità del danno, prendendo in
considerazione anche la condotta susseguente al reato, secondo l'integrazione disposta dall'art. 1,
comma 1, lett. c) n. 1, d.lgs. n. 150/2022: la motivazione, pertanto, è completa e logica, e non
suscettibile di censura da parte del giudice di legittimità.
Non sussiste alcuna contraddizione tra il diniego del proscioglimento ai sensi dell'art. 131-bis
cod. pen. e la valutazione di minore disvalore del fatto, che ha giustificato la riduzione della pena
irrogata dal giudice di primo grado. Il concetto di “particolare tenuità del fatto” è diverso dalla
generica valutazione della sua maggiore o minore gravità, al punto che questa Corte ha sempre
ritenuto compatibile il diniego del proscioglimento per tale causa con il riconoscimento di una
attenuante prevista normativamente o delle attenuanti generiche (si vedano Sez. 5, n. 17246 del
19/02/2020, Rv. 279112; Sez. 3, n. 18155 del 16/04/2021, Rv. 281572; Sez. 1, n. 51261 del
07/03/2017, Rv. 2711262; Sez. 6, n. 46255 del 18/10/2016, Rv. 268481). La sentenza impugnata,
poi, ha ritenuto che il disvalore del fatto fosse diminuito per lo stato di agitazione indotto nel
ricorrente dalla specifica causa scatenante dei messaggi ingiuriosi, cioè la perdita di un giorno di
riposo a seguito della disposizione di servizio che lo obbligava ad un rientro anticipato, in quanto tale
circostanza avrebbe influito sulla sua condotta provocando una reazione istintiva, e perciò
occasionale e non meditata. La valutazione di minore gravità del fatto, pertanto, è formulata sulla
base del criterio stabilito dall'art. 133, comma 2, cod. pen., cioè la capacità a delinquere del reo,
giudicata di minima entità, criterio che non rientra tra gli elementi di valutazione ai fini
dell'applicazione del proscioglimento per la particolare tenuità del fatto.
4. Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto, e il
ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 17/01/2025
Il Consigliere estensore Il Presidente
PAOLA MASI GIACOMO ROCCHI
28-02-2025 21:37
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